Eccezionalità qualunque

per ppcaserta
Autore originale del testo: Pier Paolo Caserta

di Pier Paolo Caserta – 19 dicembre 2017

“Ma quanto è bravo/a quel/quella ragazzo/a, oppure bambina/o.” E, in effetti, innegabilmente, ha una bellissima voce. Muove all’ammirazione, alla commozione.

Da tempo ormai ci si sforza di diagnosticare l’avvenuta fine dell’epoca dei talent e dei reality, che però sembrano godere di buona saluta. Il fatto è che il fenomeno non può essere realmente colto se non nella cornice della fase attuale del capitalismo e del modello neoliberale. Credo che qui si debbano osservare con attenzione alcuni processi forse almeno in parte indipendenti, ma che si sono rafforzati a vicenda: l’affermarsi della civiltà dell’intrattenimento (chiamo civiltà dell’intrattenimento l’evoluzione della civiltà dell’immagine, un processo collegato alla fase attuale del capitalismo); lo strapotere del mercato e dell’economia sulla politica e sulla cultura; le derive oligarchiche che comprimono gli spazi della democrazia e della partecipazione. Ma talent e reality, in una parola il grande discount dei sogni, devono alimentare la percezione che ci sono possibilità per tutti. Uno spazio fittizio e illusorio che deve surrogare la privazione di quello reale. Spazio e ascesa che comunque, ed è questo l’essenziale, sono possibili solo all’insegna di modelli di connotazione del successo collegati alla competizione, cardine del modello unico. In altre parole, l’arte, e la musica in particolare, che è forse la più potente delle arti, viene interamente agganciata a questa cornice, viene imbevuta della competizione più esasperata.

Non è questione di poco conto, visto il potenziale corrosivo dell’arte nei confronti del potere. Ma proprio questa potenzialità l’epoca presente ha una capacità forse inedita di disinnescare.

Nell’età del trionfo del mercato e della tecnica, nell’epoca del pensiero unico e del neoliberismo, l’arte è ridotta a mero intrattenimento. Tutto converge per ridurre l’arte ad intrattenimento e nell’incontro con la televisione è solo l’arte a perdere se stessa. È “naturale” che sia così, perché deve essere resa innocua, cioè non scomoda al potere, ma a quel potere impersonale e sempre più sofisticato che non si vede, che non si mostra, che non va cercato tanto nei palazzi della politica, quanto nella ristretta e impalpabile élite tecno-finanziaria che della politica muove ormai i fili. Innocua, poi, neutra e sterilizzata, potrà esserlo soltanto se riconfermerà il modello unico, il consumo, il mercato. E, allo stesso, tempo, provvederà a tener vivo il miraggio di ascesa sociale e di successo di tutti, compreso il ceto medio impoverito dalle politiche antisociali la cui essenza è il trasferimento di ricchezza dalla società ai mercati. Proprio gli sconfitti dalla globalizzazione devono continuare a sognare la propria redenzione attraverso le incessanti possibilità di ascesa offerte da quello stesso mercato che voracemente ingurgita la dignità del lavoro come anche qualunque processo di comprensione critica dell’esistente.

Si profonde ogni sforzo affinché le smanie di emergere dei giovanissimi passino per i canali che sono stati predisposti, perché si coltivi l’ambizione a diventare per esempio cantante/famoso – dove il primo termine viene subordinato al secondo. È un’aspirazione che, in una parola, tende a sganciarsi completamente dal contenuto, dal progetto, e questo sganciamento viene fanaticamente incoraggiato. Si fissano e definiscono le regole per la selezione dell’arte  in modo che passino interamente per la televisione, per l’intrattenimento. Tutto diviene performance immediata, cotta e mangiata, nella quale valutare le qualità del candidato, che deve muoversi cantare e ballare – senza l’aiuto dei fili! – qui ed ora; e, se va bene, se risponde ai requisiti di commerciabilità imposti dalle produzioni artistiche mainstream, viene sbaciucchiato dal successo. Reso grato di tanta grazia ricevuta, non dirà, né saprà del resto pronunciare, una sola frase minimamente scomoda, non una parola men che prevista. L’arte è così diventata ancella dell’intrattenimento. La capacità tecnica, l’elevata tecnica, manifestandosi interamente nella prestazione, cioè nella mera esecuzione, che è essenzialmente ri-produzione, deve occultare proprio la completa assenza del progetto. Deve divenire tecnicismo senza progetto.

Grande fratello, poi grande fratello VIP e, più avanti, ogni volta che servirà, altre variazioni sul tema potranno essere prodotte.  Nonostante le ripetute diagnosi della sua prossima fine, la civiltà dell’intrattenimento è in grado di variare i suoi schemi potenzialmente all’infinito. Può semplicemente combinare in modo diverso un certo numero di elementi di partenza, continuando a quanto pare a destare un interesse di massa. Variazione di elementi con effetto sempre garantito. Si promuove a vincitore e dunque modello di successo il coatto, poi un altro, poi un altro o un’altra ancora (quale sia il tipo è quasi del tutto indifferente). Ma quanti sono i tipi umani? (E quanti i mestieri telegenici?) Una volta ti fanno vincere il talent alla suora e gli sciocchi lo trovano sorprendente, la volta dopo potranno far vincere lo stesso talent (oppure un altro) alla vecchina, al prete, all’impiegato… Dico a caso ma non troppo. Tutto si può fare e l’effetto è sempre garantito. Tutto purché si esibiscano biografie di uomini e donne, preferibilmente giovani, che l’invincibile spettacolo ha promosso da una vita ordinaria o senza speranze ad artisti di successo. E ancora ci sarà chi si sorprende, si agita, si commuove.

Se pure, tra una cinquantina d’anni, il pubblico dovesse mostrarsi satollo della ricombinazione delle mode, delle bizze e dei tipi umani, anche dei più bizzarri, chi produce lo spettacolo potrà ancora gettare nella mischia zebre, scimmie e alligatori.

Il capitalismo ha sempre una vero arsenale di riserva al quale attingere. Le sue forme si impastano del tempo, sanno variare senza variare, per riconfermarsi, rigenerarsi, perpetuarsi. Insomma si può andare avanti a lungo: tanto a lungo quanto dureranno mediocrità, arrivismo, voyerismo di massa.

Ma le persone, si dirà, non si stancano, non hanno capito? Da anni viene continuamente annunciato il declino imminente di talent e reality, ma basta accendere la televisione per rendersi conto che proliferano ovunque. Il fatto è che individualmente si compie l’errore di prospettiva che il capitalismo per definizione non fa mai: si immagina il pubblico in modo statico. Questo non è vero, perché si tratta di una finestra mobile che scorre con il tempo e con le generazioni. Così, per molti che mangiano la foglia, che fuoriescono dal circuito dell’intrattenimento e della menzogna, ce ne sono altrettanti che entrano.

Ecco perché il problema centrale rimane quello dell’educazione.

Parallelamente, si potrà abbracciare una morale provvisoria: spegnere la televisione. Oppure accenderla poco, evitando almeno il peggio (che comunque è buona parte del palinsesto).

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