Fonte: i pensieri di Protagora...
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Ecateo è il giovane rampollo di una delle famiglie più nobili e ricche di Mileto: può permettersi di viaggiare per tutto il Mediterraneo, ossia per tutto il mondo allora conosciuto. Arrivato in Egitto, risale il Nilo e arriva a Tebe, la città dalla cento porte – i cui resti sono ancora visibili vicino a Karnak. Qui, come ogni greco impegnato in questo grand tour, visita il tempio di Amon e incontra i sacerdoti che gli raccontano le storie della loro antica religione. Ecateo ascolta interessato, ma, tradito dalla vanità, dichiara che anche lui ha origini divine. I sacerdoti di Amon guardano quel greco con benevolo scetticismo e gli chiedono come lo può dimostrare. A quel punto il giovane di Mileto – che è nato intorno al 550 a.C. – illustra la propria genealogia, che, risalendo di ben sedici generazioni, arriva fino agli dei. I sacerdoti lo lasciano finire e con un sorriso, stavolta di compatimento, lo accompagnano in una grande sala dove sono raccolte trecentoquarantacinque statue. Ogni statua rappresenta uno dei sacerdoti del tempio e soprattutto una generazione, perché quell’onore si trasmette di padre in figlio: di fronte ad Ecateo c’è una storia ben più lunga di quella che gli hanno sempre raccontato, perché anche il primo di quei sacerdoti era ancora un uomo. Sappiamo che i sacerdoti del tempio di Amon hanno fatto lo stesso “numero” anche in altre occasioni, specialmente con viaggiatori provenienti dalla Grecia. Comunque quell’incontro è destinato a cambiare profondamente la vita di Ecateo e – vedrete – anche la nostra.
Ecateo continua a viaggiare, ma osserva quello ha di fronte con occhi diversi e, una volta tornato nella sua città, si mette a scrivere. Purtroppo noi non abbiamo la possibilità di leggere quello che egli ha scritto, perché è andato perduto. A credere a quello che dice Porfirio, il filosofo allievo di Plotino, che era anche un importante filologo, e che evidentemente nel III secolo d.C. poteva ancora leggere l’opera di Ecateo, Erodoto ne ha copiato interi passi, limitandosi a modificarne qualche parola. Lo storico di Alicarnasso peraltro cita Ecateo quasi solo per parlarne in maniera sprezzante e per mettere in evidenza quando è in disaccordo con lui, ma è decisamente più reticente quando lo usa come fonte.
Comunque sia dell’opera di Ecateo ci rimane l’incipit e questo basta per fare di questo sconosciuto autore uno dei nostri “padri”.
“Ecateo di Mileto racconta questo: io scrivo ciò che mi pare sia vero, perché i discorsi degli Elleni sono, come mi appaiono, molti e ridicoli.”
Sono poche righe, ma con questa frase Ecateo ha “inventato” la scrittura. E la storia.
Confrontate questo folgorante inizio con il primo verso dell’Iliade, ovviamente va benissimo la levigatissima traduzione di Vincenzo Monti:
“Cantami, o diva, del Pelide Achille…”
e tutto quello segue. Omero ci dice che non è lui l’autore della storia che sta raccontando, ma è la musa che racconta attraverso lui. Ecateo non tira in ballo nessun altro: è lui che scrive.
Ed egli usa proprio la parola γράφω, grapho. Naturalmente gli uomini scrivevano anche prima di Ecateo, ma fino ad allora scrivere significava soltanto, usando la definizione dei “colleghi” della Treccani:
“Tracciare sulla carta o su altra superficie adatta i segni grafici appartenenti a un dato sistema di scrittura, e che convenzionalmente rappresentano fonemi, parole, idee, pensieri, numeri, in modo che possano poi essere interpretati mediante la lettura da chi quel sistema conosca.”
E infatti riconosciamo in questo verbo greco un’etimologia che richiama l’idea di scolpire, ossia l’atto meccanico di incidere.
Dopo Ecateo, grazie alla sua geniale “invenzione”, questo verbo ha cominciato a significare esprimere idee, raccontare storie, trasmettere conoscenze. E anche noi, nel nostro piccolissimo, che non “incidiamo” nulla e che battiamo più o meno velocemente su i tasti di un computer, siamo figli di Ecateo di Mileto. A cui deve andare tutta la nostra riconoscenza.
E poi Ecateo ci dice non solo quello che fa, ossia scrivere, ma anche quello che scriverà: “ciò che mi pare sia vero”. Quando si è trovato di fronte alle statue dei sacerdoti del tempio di Amon, Ecateo ha capito che quello che gli avevano raccontato sulla storia della sua famiglia era falso. Certamente non l’hanno voluto deliberatamente ingannare, semplicemente hanno continuato a raccontare delle storie come a loro qualcun altro le aveva raccontate, senza porsi la domanda se quelle storie fossero vere. Ecateo dice che proverà a chiedersi se sono vere. E sappiamo che ha provato a farlo, senza aver paura di affrontare le autorità riconosciute.
Ad esempio, parlando della storia di Danao e delle sue figlie, dice che è improbabile che Egitto e i suoi figli si siano recati ad Argo e soprattutto che è impossibile che Egitto avesse cinquanta figli, nonostante lo dica Esiodo. In un altro punto spiega dice che all’altezza del capo Tenaro, ossia del punto più meridionale della terraferma greca, non c’è l’ingresso dell’Ade. Eppure la tradizione vuole che proprio lì Eracle abbia iniziato il suo viaggio negli inferi, incontrando il terribile cane Cerbero; Ecateo spiega che più semplicemente – e molto meno poeticamente – in quella zona vive un serpente, molto velenoso, che è conosciuto come “cane dell’Ade”.
Nasce così il primo libro, ossia il primo testo di uno che ha deciso consapevolmente di scriverlo, e quel libro si intitola la Periegesi. Non potendolo leggere non sappiamo esattamente quale ne sia il genere. Probabilmente un libro di storia, o meglio di storie, e anche di geografia. O un libro di racconti di viaggio, ma anche una guida perché ad esempio le indicazioni delle distanze erano piuttosto dettagliate. E infatti Ecateo ha anche disegnato una carta del mondo per illustrare quello che stava raccontando.
Merita raccontare qualcosa su questa carta. E sul modo in cui è stata usata. Erodoto ci racconta che Ecateo è in città quando comincia, proprio da Mileto, la grande rivolta delle città della Ionia del 499 a.C.. Anzi Ecateo è uno dei pochissimi a dichiararsi contrario e per sostenere la sua tesi mostra la propria carta, descrive i paesi che ha visitato, vuole far capire ai suoi concittadini quanto sia esteso l’impero persiano, quante risorse abbia a disposizione rispetto alle città della Ionia e quindi quanto sia temerario sfidarlo. Quando poi la posizione di Aristagora a favore della guerra appare nettamente vincente, Ecateo sostiene che quella guerra può essere vinta solo sul mare e quindi esorta Mileto e le altre città a dotarsi di una flotta navale molto più numerosa; ma per armare una flotta occorrono soldi e quindi propone di usare l’oro depositato nel tempio dei Branchidi: un altro segno del suo forte realismo, che tocca uno dei simboli della religione cittadina.
Scoppiata la guerra sempre Erodoto ci racconta di un’ambasceria dello stesso Aristagora a Sparta per convincere quella città a sospendere la propria neutralità e a schierarsi al loro fianco. Il comandate di Mileto si è portato dietro una carta del mondo – verosimilmente quella disegnata da Ecateo – e la usa in maniera del tutto opposta a come lo ha fatto il suo avversario. Illustra ai capi di Sparta quanto sia grande l’Asia e – Erodoto ci dice che lo fa indicando sulla carta terra dopo terra – quanti territori e con quali ricchezze siano a disposizione in caso di vittoria di Sparta. La lusinga non funziona e Sparta non scende in guerra, ma è significativo come la stessa carta possa essere usata, a seconda di come viene raccontata. Anche questa una vittoria di Ecateo, dell’uomo che ci ha insegnato a scrivere ciò che ci sembra vero.