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di Luuca Billi 25 gennaio 2016
Ho sempre cercato di avere attenzione e rispetto per le parole, perché credo che le parole raccontino molto, anche al di là del modo in cui noi le usiamo, o le sappiamo usare. Mi hanno colpito oggi alcune espressioni usate per raccontare la visita del presidente iraniano Rouhani in Italia. L’Italia al banchetto iraniano titola un giornale; nell’articolo si parla dei molti accordi commerciali che verranno firmati e viene usata l’espressione bottino italiano, per dire che saranno particolarmente lucrosi per alcune imprese di questo paese. Queste parole non sono state usate in senso negativo, ma in un articolo, peraltro ospitato in un giornale dei padroni, il cui autore voleva esprimere evidentemente tutto il proprio entusiasmo per questi soldi in arrivo verso le aziende del nostro paese.
In uno sketch degli anni Ottanta in cui si mettevano alla berlina i primi politici leghisti che allora cominciavano ad apparire in televisione, il rappresentante di uno di questi fantomatici partiti del nord – peraltro interpretato da un comico del sud – diceva: non siamo noi a essere razzisti, siete voi a essere meridionali. Ecco, a proposito di quell’articolo mi verrebbe da dire: non siamo noi a essere anticapitalisti, siete voi a essere ladri. Perché non lo riuscite proprio a nascondere che in fondo il capitalismo è quella roba lì: un furto su larghissima scala, in cui le autorità che dovrebbero sanzionarvi non solo non fanno rispettare le leggi e la giustizia, ma sono vostri complici. I guadagni di queste aziende che da oggi torneranno a commerciare con l’Iran non rappresentano un beneficio per tutto il paese, ma solo per i padroni di quelle aziende. Per anni ci hanno fatto credere che fosse vera la frase attribuita a Gianni Agnelli che ciò che va bene per la Fiat va bene per l’Italia. No, non è così: ciò che va bene per la Fiat va bene per i padroni della Fiat, e gli interessi dei padroni della Fiat sono diversi, in alcuni casi, in conflitto, con gli interessi del paese, a partire da quelli dei lavoratori; eppure questa retorica funziona ancora, è entrata in circolo come un veleno e non riusciamo più a eliminarla. Anzi in nome di questa retorica, e degli affari che questa nasconde, si conduce tutta la politica. Il viaggio di Rouhani lo dimostra bene.
Leggendo quel titolo mi è venuta in mente anche la scena con cui si conclude La Fattoria degli animali di George Orwell, il banchetto in cui, per la prima volta, si ritrovano allo stesso tavolo i maiali e i proprietari delle fattorie vicine; gli altri animali, che guardano da fuori della finestra, non riescono più a distinguere quali siano gli uomini e quali i maiali. Ancora noi li distinguiamo i nostri maiali dai loro, perché il nostro presidente ha la cravatta e il loro ha un turbante, ma quelli del seguito, quelli per cui è stato davvero organizzato questo viaggio, sono indistinguibili, perché gli affari sono affari e quelli parlano tutti la stessa lingua, quella dei soldi, hanno tutti le stesse facce. Facce di cui non possiamo fidarci.
Ci sarebbero molte ragioni per essere soddisfatti di questo viaggio del presidente iraniano, della fine delle sanzioni, del ruolo che quel paese torna a svolgere in un’area del mondo in cui ha da sempre rappresentato un elemento centrale. Ci sarebbe da essere soddisfatti perché potrebbe significare che quel regime è destinato a cambiare, anche sotto la pressione di un’opinione pubblica che è tutt’altro che monolitica e in cui i giovani stanno svolgendo un ruolo importante. Noi dovremmo guardare con più attenzione a quel grande paese, dalla storia così ricca, cercando di capire come aiutare chi sta provando davvero a cambiare. Eppure questo è solo un viaggio per fare affari, per far arricchire ancora di più quelli che sono già ricchi e far diventare più poveri quelli che sono già poveri, perché il capitalismo, a cui nonostante tutto, nonostante tutta la retorica, anche gli ayatollah si sono piegati, come hanno fatto, prima di loro, i dirigenti comunisti cinesi, ha vinto. E vuole stravincere; anche nell’uso delle parole.