E invece vogliamo la rivincita

per Gian Franco Ferraris
Autore originale del testo: Giorgio Piccarreta, Alfredo Morganti

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TITANIC. COME RENZI HA AFFONDATO LA SINISTRA – di CHIARA GELONI  – ed. PAPER FIRST

di Giorgio Piccarreta e Alfredo Morganti – 6 giugno 2019

“Le rivincite personali non mi piacciono”
(Pier Luigi Bersani)

Dopo aver letto il bellissimo libro di Chiara Geloni (bello e riflessivo ben oltre le pur rosee aspettative) le domande e le riflessioni si affollano. Questo dovrebbe fare un libro, non altro: suscitare interrogativi e magari indicare risposte possibili. Altrimenti è inutile, bello magari, ma inutile. ‘Titanic’ è la storia scritta dalla parte degli sconfitti e delle loro ragioni. La Geloni ripercorre gli anni renziani con meticolosità, corredando i fatti con numerosi ‘ragionamenti’, e sollevando inevitabilmente alcune questioni di fondo e di prospettiva. Il libro gira attorno a uno stupefacente paradosso, quello di una sinistra vincente quando è apparsa sconfitta – e sconfitta quando a tutti sembrava aver imboccato, invece, il viale della vittoria. Non c’è, in questo paradosso, solo il senno di poi. Ci sono i numeri, che sono tremendi e stanno lì a rendere palmare il paradosso. Alle politiche del 2013 il PD bersaniano incassò oltre il 25% dei voti, con una media del 30% alla coalizione. Fu la legge elettorale a fare il disastro, sdoppiando il risultato sulle due Aule. Alle politiche 2018, il PD renziano, invece, si fermò abbondantemente sotto il 20%, risultando battuto su tutta la linea e in modo, apparentemente, definitivo. Il perdente Bersani, in termini persino obiettivi, ebbe un buon risultato, tanto è vero che proprio su quella base parlamentare Renzi ha vestito i panni del dominus e governato per quattro anni. Il medesimo Renzi invece, presunto vincente, se escludiamo il funambolico 40% alle Europee degli 80 euro, ha poi inanellato una serie di sontuose sconfitte elettorali e politiche. Curioso e paradossale ribaltamento, dunque, che ebbe nei ‘101’ una sorta di fenomenologia aurorale e di simbolo imperituro. ‘Amalgama’ (ben riuscito in questo caso) di spinte antibersaniane, voglia di rivincita, rancore politico, renzismo, impoliticità. Misurati dal punto di vista delle conseguenze politiche, i 101 aprirono le porte al renzismo. E tanto basta a classificarne il senso.

Tracciata questa cornice, il libro racconta minuziosamente la ‘generosità’ dei perdenti, la loro disponibilità a costruire un’opposizione leale all’interno del partito, senza che i renziani ne cogliessero l’utilità e senza che ne apprezzassero la lealtà. I fatti raccontati sono un progressivo stillicidio, una corsa verso l’inferno della scissione, sopraggiunta in ultimo quasi alla chetichella e più per una spinta degli eventi, quando ormai appariva evidente che la leadership renziana era lanciata con pervicacia all’attacco delle regole democratiche del Paese (Italicum, riforma costituzionale, loro combinato disposto). La domanda che circola, nel libro, nell’opinione pubblica, nella sinistra è la seguente: la scissione non si poteva fare prima, sul Job Acts, sul lavoro, sulla questione sociale, invece che sulla nuova legge elettorale e sulla riforma della Costituzione? Chiara Geloni mostra come l’elezione di Mattarella (il ‘metodo’ Mattarella) fosse stata possibile anche perché non vi era stata una rottura netta e plateale sul Jobs Act. Come dire: il profilo istituzionale del Paese, la sua tenuta democratica erano il vero spartiacque da difendere, senza che ciò volesse dire, ovviamente, abbassare la guardia sui temi sociali. Eppure qualche riflessione sulla cosiddetta ‘scissione’ è normale che ancora (tanto più) emerga, perché il gesto, per quanto ponderato a lungo, di lasciare il partito non è un fatto classificabile tra quelli ‘minori’. Al contrario. La domanda è se sono stati giusti i tempi e il metodo ‘discreto’ scelto nella scissione. Ma ancor più, noi ci chiediamo: è stata giusta la scissione, ossia andava fatta, prima ancora di chiederci se andasse fatta in quel modo.

Che il PD sia un partito sbagliato, nato male e cresciuto peggio, non c’è dubbio. Che dovesse andare a sbattere sul renzismo (o similari) era facile prevederlo. Un partito che non scommette sul partito (ma lo alleggerisce, lo loftizza) ha la sorte segnata, certamente infausta. Che a un certo punto ci sia stata un’Opa ostile è altrettanto indubitabile. E che fosse sempre più complicata la coabitazione è evidente. Andarsene, da questo punto di vista, era inevitabile: la dignità viene prima, l’agibilità politica è essenziale, non si sta in un contenitore che slitta verso il centro, che entra in competizione-collaborazione con Forza Italia, che svelle tutte le radici, accompagnando alla persistente retorica del partito, come dice Chiara, il vuoto dentro. Detto questo la domanda è: andava fatta così (non solo nei tempi, ma anche nella forma) la scissione? E ancor più radicalmente: andava fatta la scissione (o quel che è stato)? Era quello il modo migliore per ‘fare politica’ nelle circostanze date? Oppure si doveva restare dentro, ma dando battaglia senza esclusione di colpi e senza eccedere in generosità? Questo è uno dei punti verso cui il libro di Chiara spinge inevitabilmente la riflessione. Detto in altri termini: era più produttivo uscire dal PD alla spicciolata, negli anni, sia i semplici militanti sia i dirigenti – oppure sarebbe stato più efficace restarci dentro, ma a costo di essere ingombranti e persino spietati in certe battaglie, togliendo la fiducia, facendo cadere i governi, pur di ‘fare politica’, battaglia politica, creando da dentro le condizioni di un cambio di direzione o, in alternativa, di una fine/rinascita di quel partito (e del pezzo di sinistra che esso rappresenta)? Senza generosità esagerata, senza titubanze o timori personali, perché la politica si fa anche con una determinazione superiore al proprio stile personale?

Esempio: sostituiscono undici membri della minoranza dalla Commissione Affari Costituzionali. Una cosa che davvero ha suscitato un sussulto di indignazione. Forse non bisognava scansarsi, ma reagire con un’iniziativa politica adeguata. Non ne sarebbe sortito niente, ma avremmo marcato una maggiore e più combattiva presenza. Chissà che quella non fosse una contraddizione su cui lavorare, piuttosto che lasciar cadere per senso di responsabilità. Altro esempio: la scissione c’è già stata, è in campo una nuova forza politica, perché non scegliere di guidarla nella competizione elettorale invece di mandare in campo Grasso? Sarebbe sembrata una rivincita personale? Ma certo, doveva apparire anche come una rivincita personale, perché la politica prevede sconfitte e rivincite. Guai a non chiedere la rivincita. Finisce tutto. Il tema è: restare nel PD per testimoniare un dissenso, ma finendo per approvare la qualunque? Certo che no. Ma restare nel PD per essere ingombranti sì. Ingenerosi. Duri e cattivi. Non è in gioco lo stile personale, ma sono in ballo le esigenze politiche. Col senno di poi, forse, molti concorderanno che non si esce dai confini di un partito per regalarli a Calenda e Renzi; piuttosto si resta, se si decide di restare (e al limite di farsi cacciare via), proprio per impedire che il tuo patrimonio politico sia divelto e abbandonato giorno per giorno, e poi arrivi un Calenda qualsiasi e faccia banco in termini di preferenze. Sono riflessioni che facciamo con tutto il bene che vogliamo ai cosiddetti ‘scissionisti’, Bersani e D’Alema per primi, perché siamo parte di una grande cultura politica che non è giusto venga emarginata per far posto ad altre culture che tali non sono, al più stili e condotte politiche ciniche, retoriche, disincantate, senza scrupoli. Col senno di poi, se restavamo a menare le mani forse il nostro peso politico oggi sarebbe maggiore. E non saremmo incappati nel gioco ‘cetuale’ delle liste e listini, di cui non sentiamo più il bisogno e che certo non conduce alla forza politica larga e plurale che oggi serve. Restare combattivamente è un po’ quello che ha fatto Corbyn, anche se il PD non è certamente il Labour. D’altra parte, rimanere per generosità e lealtà francamente non sarebbe interessato a nessuno, a noi per primi, e nemmeno avrebbe portato granché vantaggi. Allora sì, che è meglio uscire.

Chiara Geloni, con intelligenza e invidiabile meticolosità, ci ha donato un libro che tiene viva la memoria storica e ispira riflessioni. Fuori dal mainstream, ha ripercorso la storia raccontando il punto di vista degli sconfitti o quasi-vincenti. Nel gran mare di chiacchiere e di conformismi che ci affogano, i lavori che hanno un taglio politico rigoroso come ‘Titanic’ sono come un auspicio di miglior futuro. Aprono una finestra su visioni e punti di vista che sembrano scomparsi, mentre sono soltanto soffocati e messi di lato da quelli dominanti. C’è un mondo e c’è una cultura politica, che il libro addita, che non meritano l’emarginazione e potrebbero essere utilissimi al Paese, alla sua rinascita, ma che devono trovare al più presto una ‘forma’ politica e pratica adeguata. Che deve essere larga, plurale, dotata di una massa critica efficace per mettere dei soggetti in campo capaci di modificare il mondo nel senso della giustizia e dell’eguaglianza, così com’è nelle corde della sinistra da sempre.



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