I crepuscolari cantarono i paesaggi autunnali, le città di provincia, le piccole stazioni dei treni, la tisi, le corsie degli ospedali, gli interminabili pomeriggi domenicali, gli orticelli tristi, gli organi di Barberia, i mendicanti, le canzonette delle osterie, le preghiere delle suore: oggetti, luoghi, persone e momenti della vita così comuni da non aver mai trovato posto nella poesia italiana, fino ad allora così aulica. Lontani dal classicismo furono dei prosatori in versi e preferirono il verso libero. Si rivelarono dilettanteschi e colti allo stesso tempo. La loro poetica fu quella delle “buone cose di pessimo gusto”. Il loro lirismo fu intessuto di ironia e di quella malinconia, di chi muore un poco ogni giorno. Descrissero il tedio dei giorni sempre uguali in modo sommesso e colloquiale. E se i poeti precedenti scrissero delle conquiste e dei grandi amori non ricambiati, i crepuscolari verseggiarono senza alcuna enfasi sulle loro amanti scialbe e volgarotte. Con il loro linguaggio scabro ed essenziale descrissero le piccole cose quotidiane. Nonostante il loro ripiegamento interiore non si proposero di scandagliare i meandri della psiche. Non c’è traccia di Freud e neanche di alcuna psicologia del profondo nei loro scritti. Lontani dal decadentismo e dal vitalismo di D’Annunzio, dal “vivere inimitabile” di Andrea Sperelli dichiararono fin dagli esordi di non avere nulla da dire. Ma la poesia crepuscolare non fu una semplice nominazione del ciarpame. Fu anzi una sapiente mistura di accidia, ironia e delusione esistenziale. La poesia crepuscolare- anche se si rivelò più una condizione esistenziale generalizzata che un movimento culturale e spirituale- inoltre non scaturì dal nulla, ma fu una reazione agli orpelli del dannunzianesimo, alla retorica e al modello di patria, che imperava in quegli anni. Storicamente infatti i crepuscolari vissero l’età giolittiana, da cui seppero intuire le avvisaglie di imperialismo. La ricerca di semplicità, la descrizione di atmosfere livide, il diarismo, la medietà, il loro senso di inadeguatezza e di vuoto non furono ingenui e puerili, ma scaturirono dall’analisi della loro epoca. Ciò dal punto di vista stilistico ed espressivo significò anche l’utilizzo di assonanze e rime facili, di un’alternanza tra ritmi smorzati e cantilenanti. Al Superuomo opposero la poetica del fanciullino di Pascoli. Non è un caso che nella poesia crepuscolare comparve l’assonanza Nietzsche/camicie. Non ricercarono mai il clamore, la notorietà, le folle della poesia ufficiale. Gozzano si definì un poeta senza qualità, “un povero coso strano con due gambe” e il suo alter-ego fu Totò Merumeni, caratterizzato dalla molta cultura, dallo scarso cervello e dalla scarsa morale. Corazzini si definì nella sua poesia “Desolazione del povero poeta” solo e soltanto “un piccolo fanciullo che piange”. In un’altra sua lirica Corazzini si propose di vendere “idee originali a prezzi normali”. Palazzeschi invece- subendo l’influsso dell’ironia metafisica di Laforgue- si definì il saltimbanco della propria anima. Niente di più. L’aureola era stata perduta per sempre. Oggi molti critici potrebbero affermare che i crepuscolari raggiunsero il grado zero della poesia. Ma come rilevò il letterato Serra- al di là della qualità della loro produzione letteraria- i crepuscolari ebbero coscienza del loro tempo. Ebbero inoltre consapevolezza di essere la coscienza infelice della piccola borghesia dell’epoca. Il fatto di cantare la mediocrità(invece dell’eccezionalità) e la banalità del quotidiano li rende ancora oggi attuali e sono colpito dal fatto che oggi molti non facciano proprio l’atteggiamento esistenziale e gli stati di animo di questi poeti, che seppero avvertire la crisi della modernità. Ma molto probabilmente oggi non viviamo più nel momento indistinto del crepuscolo, ma nella notte della postmodernità. Non ci sono più forse le premesse per un neocrepuscolarismo.
Due cose sui crepuscolari…
Autore originale del testo: Davide morelli
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