Fonte: Il Fatto Quotidiano
Potrebbe essere il primo presidente della Repubblica votato malvolentieri da praticamente tutti i suoi grandi elettori. Mario Draghi continua ad avere le sue chance di finire sul Colle più alto, ma non c’è un partito – escluso il mini-rassemblement di Giovanni Toti e Luigi Brugnaro – che lo voglia davvero lì.
Nonostante lo sostengano al governo, non si tratta affatto di una bizzarria perché eleggere o meno l’ex presidente della Bce al Quirinale è una scelta non personale, ma di sistema. Draghi capo dello Stato realizza quel “semipresidenzialismo de facto” di cui ha parlato il ministro Giancarlo Giorgetti: il suo Piano di ripresa e resilienza (Pnrr) indirizza il bilancio dello Stato almeno per il prossimo quinquennio, al resto – cioè a un lungo commissariamento dei partiti – provvederebbero la natura del ruolo, i suoi rapporti internazionali e il suo peso specifico nel potere italiano. Per questo quasi tutti i leader, in un soprassalto di razionalità resistono e tentano di fargli le scarpe pur senza dirlo apertamente: resta da vedere, e non è poco, se ce la faranno, perché far fuori Draghi sul Quirinale vuol dire, entro pochi mesi, estrometterlo anche da Palazzo Chigi.
Ma chi si sta muovendo nei palazzi del potere romano per Draghi al Quirinale, a parte lui stesso e la realtà per come l’hanno apparecchiata con la nomina di 11 mesi fa Sergio Mattarella e il suo segretario generale Ugo Zampetti? L’unico leader ad aver citato il premier esplicitamente come possibile candidato è Enrico Letta: non tanto e non solo per la sintonia europeista (il segretario Pd scelse per un suo libro l’agghiacciante titolo Morire per Maastricht), quanto per necessità. Letta sa che metà del suo partito – da Dario Franceschini in giù – non vuole il premier, lui stesso preferirebbe un politico d’area, ma tanto non dà lui le carte: se qualcuno lo sega non è colpa sua, se lo eleggono fa il kingmaker.
Pancia a terra per Draghi lavora invece con convinzione lo zio di Enrico, Gianni Letta, Gran Visir del berlusconismo di governo e dell’andreottismo come tabe della Repubblica. Anche qui non è tanto la comune, passata militanza in Goldman Sachs il cemento che lega i due, quanto proprio l’opzione di sistema: per il Letta Zio, che qualche seguace nel partito pure ce l’ha, Forza Italia deve garantire lo status quo dei rapporti di forza interni (con relative nomine di potere e sottopotere) e delle relazioni internazionali (staccandosi dai “sovranisti” se utile e del caso).
Stessa linea, ma con diversi fini, per il già citato Giancarlo Giorgetti. Il ministro – studi in Bocconi, ottimo rapporto col premier e, quanto a parentele, cugino dell’ex banchiere Massimo Ponzellini – ritiene che alla Lega per governare serva l’ombrello di uno come Draghi al Quirinale: che poi questo costringerebbe il suo partito a fare la politica di Draghi con gli uomini di Draghi dove serve è, per il nostro, un beneficio ulteriore della scelta. Le sue parole affidate in ottobre a Bruno Vespa, d’altra parte, non peccano di oscurità: “Draghi potrebbe guidare il convoglio anche da fuori. Sarebbe un semipresidenzialismo de facto in cui il presidente della Repubblica allarga le sue funzioni approfittando di una politica debole”. La linea Giorgetti ha dalla sua – vista dall’interno del centrodestra – il fatto che scegliere l’ex premier significherebbe nei fatti scivolare verso il voto: una eventualità su cui Matteo Salvini e Giorgia Meloni hanno già stretto un patto politico.
Anche un pezzo del sottobosco politico ovviamente lavora per Draghi al Colle: tra i maggiormente impegnati in colloqui vengono segnalati il suo capo di gabinetto Antonio Funiciello, già nello staff del commissario Ue Paolo Gentiloni, e il suo consigliere economico principale Francesco Giavazzi. Particolarmente intenso, dicono in Parlamento, anche il lavoro pro-Draghi dell’ex capogruppo del Pd in Senato (e portavoce di Francesco Cossiga al Viminale e a Palazzo Chigi una vita fa) Luigi Zanda.
Ovviamente Draghi ha dalla sua un bel po’ di endorsement esteri di peso: l’amministrazione Biden ne ha benedetto l’ascesa al Colle in via ufficiosa (“c’è grandissima sintonia”, Adnkronos del 18 gennaio); il Financial Times – organo informale della Bce – giovedì lo ha candidato al Colle (smentendo quanto scritto in precedenza) in un commento firmato dall’editorial board; il capo delegazione della Spd all’Europarlamento Jens Geier (vicino al cancelliere Scholz) ha buttato lì un “noi conosciamo bene Draghi e probabilmente sarebbe la figura adatta per il Quirinale”.
Ovviamente la grande finanza internazionale, specie quella che fa bei soldi come “specialista” del debito pubblico italiano (Goldman Sachs, Jp Morgan, eccetera eccetera), ha negli ultimi giorni iniziato a sensibilizzare alla causa di Supermario i suoi interlocutori nel Belpaese, anche il mondo Intesa Sanpaolo fa un moderato tifo per “il più tedesco” degli italiani (un vecchio titolo della Bild). L’agenzia finanziaria Bloomberg ieri ha visto come un assist a Draghi (“rafforza la prospettiva della sua elezione”) anche la rinuncia a correre di Silvio Berlusconi
Tutta ottima gente che ha il difetto di non essere granché rappresentata tra i mille e dispari grandi elettori del capo dello Stato a questo giro: per questo Draghi potrebbe essere il primo presidente della Repubblica votato malvolentieri da tutta l’assemblea o il primo che perde contemporaneamente il Colle e Chigi nell’arco di qualche mese.