Dove va la poesia italiana?

per Davide Morelli
Autore originale del testo: Davide morelli

Dove va la poesia italiana di questi ultimi anni? Difficile, addirittura quasi impossibile dirlo. Di sicuro è marginale. Non se ne occupano certo “Civiltà cattolica” e neanche il “Corriere della sera”. Le rubriche di poesie spuntano come funghi. Allo stesso modo anche le scuole di scrittura. Ma la  poesia non vende. L’ipertrofia dell’io, le fasi maniacali e ipomaniacali, la smania di grandezza di taluni poeti, effettivi, sedicenti o aspiranti deve trovare altro sfogo. D’altronde chi vi credete di essere…potrebbe obiettare qualcuno? Non siete mica delle rockstar. Ci sono diverse scuole, ma nessuna sembra prevalere. La poesia contemporanea è una nebulosa, una polifonia di voci. Nella peggiore delle ipotesi è un periferico bordello a cielo aperto. La prima cosa che salta all’occhio è che la metrica non è più importante. È molto diffuso il versoliberismo. La stessa neoavanguardia, nonostante l’alto coefficiente intellettuale, era per la cosiddetta metrica informale. Nonostante ciò molti italianisti considerano sempre come requisito essenziale l’endecasillabo con i giusti accenti tonici. Comunque oggi siamo giunti al grado zero della scrittura. Per R.Barthes la poesia era uguale alla prosa+a+b+c. A stava per la metrica, b stava per la rima, c stava per le immagini. Oggi potremmo affermare che la validità di una poesia risiede spesso nella capacità evocativa delle immagini. Tutto è ridotto all’essenziale. Tutto è all’insegna del minimalismo. C’è chi scrive haiku e chi poemetti. È molto in voga la prosa poetica. Ci si può imbattere nelle forme e nei generi più disparati. C’è innanzitutto la poesia di ricerca, che vuole eliminare l’io lirico  ed esorcizzare la soggettività(ma ogni pronome personale non è forse “una convenzione grammaticale” come scriveva Nietzsche?). Essa è costituita dagli eredi della neoavanguardia. Alcuni suoi rappresentanti sono sanguinetiani. Si rifanno al gruppo 63 e spesso anche a Fortini. Cercano lo shock verbale. Talvolta si divertono con cut up e googlism. La stragrande maggioranza però sono dei poeti neolirici, che hanno uno spiccato taglio descrittivo e si rifanno alla tradizione. C’è anche una poesia molto minoritaria che è quella aforistica, epigrammatica. Prende come modelli di riferimento l’ultimo Montale, l’ultimo Caproni, Nelo Risi, gli Shorts di Auden. La poesia civile è quasi scomparsa. Gianni D’Elia ha continuato con le sue quartine la strada tracciata da Pasolini, ma ha pochi seguaci. Pensieri(poesia aforistica o sapienziale), corrispondenze e stati d’animo(poesia neolirica), sperimentalismo(poesia di ricerca), poesia civile/sociale possono entrambe avere contenuto di verità. Ma in fin dei conti forse queste catalogazioni lasciano il tempo che trovano. Delle distinzioni per quanto approssimative bisogna però farle. C’è poi una categoria trasversale che è quella dei performer. Organizzano e partecipano ai readings e ai poetry slam. Personalmente sono diffidente perché per valutare la bontà di un’opera preferisco il silenzio della mia camera piuttosto che un clima festoso e spesso goliardico di un pubblico accogliente. Diciamocelo francamente: molto spesso nessuno contesta i poeti, veri o presunti, sul palco, come ad esempio fece la cosiddetta ragazza “cioè” che contestò nientemeno che la grande Amelia Rosselli a Castel Porziano. Il pubblico oggi è benevolo e spesso ha una percezione totalmente errata di ciò che è poesia. Inoltre spesso basta bere due birre medie e i versicoli di uno qualsiasi sembrano degli ossi di seppia. Insomma per quel che mi riguarda i poetry slam non sono granché attendibili. La comunità poetica sembra di primo acchito accogliente. Apparentemente sembra prevalere la comprensione empatica. Tutti apparentemente sono amici di tutti, salvo imprevisti, idiosincrasie, antipatie viscerali. La competizione, le malignità, gli ostracismi vengono nascosti sotto il tappeto. Il buonismo è d’obbligo. L’importante è essere umanisti e progressisti. Più che la salutare gita a Chiasso proposta da Arbasino per ampliare il retroterra culturale talvolta per emergere poeticamente si deve fare una gita a Milano o a Roma, dove si trovano i grandi poeti e le case editrici che contano. Questione anche di pubbliche relazioni, come sempre in Italia: la poesia non è da meno. C’è chi sostiene che bisogna incontrare i grandi maestri, carpire i loro segreti. Ma il talento non trasmigra tramite calde strette di mano e fraterne pacche sulle spalle. La poetessa Patrizia Valduga ritiene che i poeti si trovano di fronte ad un aut aut impietoso: si frequentano senza leggersi oppure si leggono senza frequentarsi. Terzo escluso. La poesia italiana non ha pubblico. I poeti hanno come referente la comunità poetica soltanto e una ristretta cerchia di critici letterari, formata da degli accademici e sempre più spesso da altri poeti che giudicano. Questo è il gruppo di appartenenza e di riferimento. È quasi impossibile per un poeta moderno essere conosciuto dalla massa, diventare nazionalpopolare, a meno che non sia anche un grande paroliere di canzoni o un grande romanziere. La comunità poetica esprime naturalmente dei valori relativi e mai assoluti. Ci possono essere ad ogni modo sempre ripensamenti, ripescaggi, ricoperte. Non voglio fare un ritratto a grandi linee della comunità in questione. Qualcosa ho già detto a livello culturale ed antropologico. Ora dirò qualcosa dal punto di vista psicopatologico. Ogni poeta, vero o presunto, si mette in gioco, si smaschera, si mette a nudo. La poetessa e traduttrice Chiara De Luca ritiene che ogni scrittura nasca da un trauma, da una frattura. Insomma chi sta bene vive e non scrive. Si scrive perché qualcosa urge da dentro. Il mistero di ogni scrittura, anche della peggiore, è che rivela l’incommensurabilità della psiche. Quando leggiamo poesia dovremmo cercare di apprezzare il più possibile le forze simboliche e le nuove significazioni  dell’autore. Si tratta di decifrare. Si tratta di mettere tra parentesi i pregiudizi che tutti più o meno abbiamo e valutare i presupposti teorici e la visione del mondo di chi scrive. La poesia infine ha anche essa delle modalità terapeutiche. Slavson nel 1954 individuava i seguenti mezzi terapeutici sia a livello personale che gruppale: transfert, catarsi, insight, esame di realtà, sublimazione. Male che vada anche la poesia è un atto di civilizzazione e di presa di coscienza. Questo dovrebbero tenerlo presente tutti indistintamente. Prendere in giro e deridere è invece fin troppo facile.

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