Fonte: La Stampa
FINIRANNO IN QUALCHE CENTRO DI ACCOGLIENZA I PIÙ FORTUNATI, QUELLI ‘UTILI’, QUELLI DA CUI POTREMO SPREMERE QUALCOSA CHE CI RENDE. GLI ALTRI LI INCONTREREMO NELLE STRADE, NELLE STAZIONI FERROVIARIE, NEI RUDERI DELLE PERIFERIE, DAVANTI AI SUPERMERCATI A MENDICARE. CON LA ACUTA INTUIZIONE DELLE VITTIME HANNO CAPITO CHE ATTENDERE È INUTILE, QUESTI PADRONI NON SE NE ANDRANNO PER ALTRI VENT’ANNI. ”
Hanno già compreso: non ci sono altre vie di scampo. In fondo, anche se l’Afghanistan non lo hanno ancora lasciato, sono già diventati profughi. Sono entrati nel nuovo immenso popolo dei migranti, la nuova nazione del terzo millennio. Non hanno letto saggi e articoli sulla cosiddetta «volontà della Storia».
Non ne hanno bisogno, in molti luoghi del mondo come oggi a Kabul la sentono come un richiamo nell’aria: un mattino i gendarmi e i soldati non sono più all’angolo della strada a pavoneggiarsi con le divise dismesse di qualche alleato ricco, i mercanti hanno chiuso le merci dietro grate spessissime illudendosi che resistano al saccheggio, i manifesti con le facce ridenti del presidente sono scomparse o sforacchiate dalle pallottole. Passano pick-up guidati da barbuti che portano il mitra come se fosse l’ombrello.
Ecco: il veleno è bevuto, la stregoneria è fatta. Il destino di cittadini del mondo moderno è durato pochissimo, non ha portato a nessuna meta terrena. La volontà della Storia, decisa da altri, ha deciso che il loro futuro sarà non di abitare ma di vagare. Ricominciare da capo. Le forme di nazione, gli afghani, le hanno sperimentate tutte da millenni: tribù, la comunità, monarchia, stato e antistato, il socialismo reale, guerre, conquiste, vittorie. Ora dovranno soffrire da estranei sotto estranei, della religione resterà solo il precetto di sopravvivere.
Partiranno, i dannati dell’aeroporto, e gli altri: e sì che partiranno, fino a quando i nuovi padroni concederanno agli aerei degli sconfitti di atterrare, poi a piedi sulle eterne strade sterrate dei fuggiaschi, scavalcando monti che sembrano di acciaio martellato, insanguinando i piedi sulle pietre, lasciando dietro come segni sulla pista i morti. Ci saranno anche le donne, queste mute protagoniste della fatica musulmana del vivere. I migranti: ne riconosco le facce in queste immagini afghane, all’aeroporto, alle frontiere dell’Iran e del Pakistan.
AFGHANISTAN PROFUGHI IN FUGA DAI TALEBANI
Hanno tutto in viso, uomini in gabbia che hanno perso la forza di attacco e di difesa, più disarmati della stessa disperazione. Riconosci il loro destino da quello che si portano dietro, dai loro eterni fagotti, valigie slabbrate, ceste di paglia a cui hanno apposto ingenui lucchetti, fardelli mille volte aperti e riabbottonati per farci stare ancora qualcosa una coperta, in indumento, una pentola.
Ci sono cose da cui gli uomini non riescono a separarsi neppure quando fuggono in preda alla paura. Questi poveri hanno sempre comunque qualcosa da trascinarsi dietro a fatica. Che sparirà al primo posto di blocco taleban o alla prima implacabile frontiera. Il nuovo Afghanistan che l’Occidente ha accettato e subìto li ha scaraventati fuori, non gli appartengono più, hanno assaggiato stili di vita, ripetuto parole che per i nuovi padroni contengono batteri impuri, irrimediabile possibilità di contagio.
Con la acuta intuizione delle vittime hanno capito che attendere è inutile, questi padroni non se ne andranno per altri vent’ anni. Gli altri, gli americani gli inglesi, gli italiani, l’Onu, ah! quelli tratteranno, accetteranno, non aspettano altro. già con il bilancino cercano di fiutare quelli con cui sarà meno indigesto accordarsi: si scrutano le barbe, se canute o ben curate è un buon indizio, un turbante raffinato conforta aruspici ottimisti, ecco individuati i moderati, i dialoganti, i «politici» che faranno da argine ai barbuti più selvatici, ai savonarola della sharia.
AFGHANISTAN SCONTRI TRA TALEBANI E CIVILI
Lasciamo che partano, che trovino i loro impervi sentieri. Inutile accrescere il fardello svelando quale sarà il loro destino: qualche centro di accoglienza per i più fortunati, quelli «utili», quelli da cui potremo spremere qualcosa che ci rende. Gli altri li incontreremo nelle strade, nelle stazioni ferroviarie, nei ruderi delle periferie, davanti ai supermercati a mendicare. Non sono ancora partiti, sono solo una ipotesi, e già le lamentazioni sulla loro sorte disgraziata che noi abbiamo innescato, come sempre, si appannano, si riducono alle solite condoglianze d’occasione.
Le loro sono diventate sventure astratte e come assegnate da un destino malvagio e non da colpe di uomini. Spaventano i costi, le moltitudini, se ne discute con toni prefettizi. Alzano la voce i razzisti, gli xenofobi con i loro primitivi ululati, sempre eguali: l’invasione, i terroristi infiltrati. Una storia di oggi? Nel 2016 li ho incontrati, gli afghani, a Calais, nel campo che chiamavano la giungla, erano dentro tende zuppe d’acqua, quasi tutti giovani, guadavano fuori nel chiarore grigiastro, dove inorgoglivano rovi e immondizie. I visi solcati da una tensione che contraeva i lineamenti, come lo sforzo di una bestia per decifrare quello che vede fuori dalla sua tana, in un ambiente nuovo. Ogni notte tentavano di passare il tunnel della Manica. Qualcuno moriva.
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