Fonte: Il Corriere della sera
di Massimo Franco per il Corriere della Sera – 31 marzo 2017
Sta succedendo qualcosa di paradossale.
Matteo Renzi sembra avviato a vincere facilmente le primarie del Pd. Ma i suoi concorrenti hanno cominciato a delegittimarlo come candidato alle elezioni. Di colpo, ricordano non la sua vittoria alle Europee del 2014, ma le sconfitte collezionate dopo: tra Amministrative, referendum istituzionale di dicembre e scissione. Il risultato è di accreditare una vittoria che sancirebbe la «mutazione» del partito e dell’ apparato, senza la partecipazione popolare che lo consacrò segretario a fine 2013; e di prevedere fin d’ ora la sua sconfitta alle urne.
L’ obiettivo di questa operazione, che rimbalza dal Guardasigilli, Andrea Orlando, al governatore della Puglia, Michele Emiliano, non è batterlo. Mira a presentare un congresso organizzato in fretta solo per facilitare una reinvestitura che andava invece evitata, a loro avviso. Ma lo schema tradisce la frustrazione dei candidati, i quali si stanno rendendo conto di non essere abbastanza forti per competere con Renzi. E finiscono per offrire argomenti agli scissionisti di Articolo 1 Mdp, convinti che la data delle primarie sia stata scelta solo per aiutare l’ ex premier.
Dunque, dalla lotta per vedere chi vincerà il 30 aprile, si sta passando a una critica radicale della politica e della persona di Renzi. Da una parte Emiliano, destinato in apparenza a ricevere pochi consensi, coi suoi sms sul caso Consip che coinvolgono la cerchia renziana, consegnati alla magistratura. Dall’ altra Orlando che avverte come si possano «stravincere i congressi e straperdere le elezioni»; e che denuncia un «modello di partito e di leadership che poteva reggere se avesse fatto i conti col risultato del referendum».
Insomma, il tentativo della sinistra, dentro e fuori dal partito di maggioranza, è di martellare su un supposto isolamento dem; e di sminuire le primarie come un rito più o meno inutile, che vedrà una partecipazione scarsa. Il governatore della Toscana, Enrico Rossi, uno dei dirigenti che hanno lasciato il partito, annuncia che non andrà a votare. È un martellamento che vuole sminuire in anticipo la portata e il risultato congressuali. Eppure sottolinea anche l’ incapacità degli avversari di Renzi di proporsi come alternativa.
Matteo Richetti, portavoce della mozione dell’ ex segretario, ribatte ricordando il 40 per cento raccolto dal Pd alle Europee nel 2014. Ma l’ argomento viene rifiutato come «nostalgia» di una fase morta e sepolta. Che questo preluda al distacco di altri grossi spezzoni del Pd, in una sorta di scissione a tappe, è poco probabile.
Semmai, le polemiche portano voti agli avversari: in primo luogo a un M5S che tra caso Consip, vitalizi, Europa, colleziona pretesti per attaccare. Il rischio del congresso sarebbe di trasformarsi nel pulpito non della rivincita renziana, ma della propaganda di Beppe Grillo.