di Francesco Maria Bonicelli Verrina
Dalla Carta Africana dei Diritti dell’Uomo e dei Popoli alla Corte Africana dei Diritti dell’Uomo e dei Popoli
INDICE
1-Premesse p. 3
2-La Carta Africana dei Diritti dell’Uomo e dei Popoli p. 5
3-I Diritti dei Popoli p. 8
4-La Commissione dei Diritti dell’Uomo e dei Popoli p. 10
5-Il Protocollo del 1998 e l’istituzione della Corte Africana dei Diritti dell’Uomo e dei Popoli e la Corte di Giustizia dell’Unione Africana p. 12
Bibliografia fondamentale p. 17
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1-Premesse
Secondo Claudio Zanghì (Torino, 2013) un primo aspetto da tenere in considerazione in merito alla protezione dei Diritti dell’Uomo in Africa è il sentimento comunitario che impregna le tradizionali società africane, nelle quali l’individuo viene rappresentato in rapporto alla collettività di appartenenza. Vale a dire che il fondamento consensuale dei diritti individuali non promuove una loro aperta rivendicazione da parte del singolo, tipica della tradizione politica europea dove l’individualismo trova le sue radici anche prima dell’Illuminismo, benché in diverse gradazioni da regione a regione.
Tale “inerzia sociale” africana (Zanghì, Torino, 2013) ha facilitato sia lo sfruttamento e l’asservimento delle popolazioni africane, posto in essere dalle potenze coloniali prima, sia la formazione di regimi dittatoriali, incuranti dei diritti fondamentali dell’uomo, nel momento del raggiungimento dell’indipendenza politica, di fronte all’impotenza delle strutture comunitarie tradizionali, impossibili da incanalare nei tipici meccanismi di moderna e standardizzata mediazione sociale, nel contesto di un’opinione pubblica inesistente o scarsamente sensibilizzata1. Inoltre il fatto che le potenze coloniali non abbiano mai cercato di attuare una politica organica mirante all’integrazione della popolazione locale, eventualmente attraverso l’estensione dei diritti di cittadinanza, ha determinato una gerarchizzazione nella coscienza comune africana tra i diritti collettivi all’autodeterminazione politica ed economica (ribaditi dalla Risoluzione ONU 1514, 14/12/1960), e quelli civili e politici, attinenti alla sfera individuale, marginalizzati e relativizzati. Ciò ha legittimato di fatto una certa deresponsabilizzazione e aggravato l’insensibilità delle elites, rispetto al tema dei diritti e delle libertà personali dell’individuo, che hanno rimandato per decenni l’istituzione di una Corte Africana dei Diritti dell’Uomo. La decolonizzazione non è coincisa quindi con l’affermazione dei Diritti individuali e univerali dell’Uomo, che hanno trovato scarsa eco all’interno degli stati nazionali africani, sin dalle prime fasi e nelle prime forme di cooperazione interstatuale, anche in presenza di costituzioni formalmente ispirate ai principi liberali garanti delle libertà fondamentali dei cittadini, nei fatti quotidianamente usurpate. Una situazione resa anche più complicata dai diversissimi retroterra culturali delle diverse aree del continente, in particolare civiltà arabo-islamica degli stati nord-africani e civiltà sub-sahariane, con altre notevoli differenziazioni interne in entrambi i gruppi e storiche rivalità. La stessa ONU è stata storicamente molto indulgente in merito al rispetto dei diritti umani fondamentali come condizione per i nuovi stati entranti nell’Assemblea generale, in base al principio di non interferenza nell’altrui politica interna (cui però si è derogato in merito alla questione rhodesiana e a quella sudafricana, proprio per il peso assembleare di stati non meno criminali), principio sempre più eroso man mano che in tema di Diritti Umani le politiche interne dei singoli stati sono via via diventate sempre più una materia di interesse internazionale e collettivo, anche per il peso assunto dall’opinione pubblica globalizzata, se non altro almeno da un punto di vista strettamente mediatico e talvolta anche selettivo.
Proprio in tale processo si colloca anche la Carta Africana dei Diritti dell’Uomo e dei Popoli (come strumento di credibilità internazionale), che ha le sue radici nella Legge di Lagos del 1961 (nella Nigeria di Nnamdi Azikiwe, uno dei padri del Panafricanismo inteso come neo-umanesimo africano), scritta da un congresso internazionale di giuristi africani che raccomandava esplicitamente ai governi di studiare la possibilità di adottare una convenzione interafricana dei Diritti dell’Uomo, comprensiva di un tribunale al quale potessero accedere direttamente gli individui, affermando la supremazia dello stato di diritto come premessa fondamentale di una futura organizzazione per l’unità africana (idea ribadita nel 1967 alla conferenza dei giuristi africani a Dakar)2. Tale Organizzazione lasciò intenzionalmente cadere nel vuoto quell’appello due anni dopo, all’atto della sua formale fondazione alla Conferenza dei Capi di Stato e di Governo africani, riunita ad Addis Abeba (nell’Etiopia imperiale di Hailè Selassiè), nel 1963. Il principio sacro della non interferenza negli affari interni degli Stati, proclamato al punto 2 dell’art. 3 fu fatto valere in più di un’occasione con assoluto rigore, rendendo impossibile intervenire sulle gravi violazioni dei diritti umani commesse dai governi africani e tristemente passate alla Storia della seconda metà del Novecento. Nel secondo capoverso del preambolo della Carta dell’Organizzazione dell’Unità Africana (OUA) i leaders africani si limitarono a dichiararsi consci del fatto che la libertà, l’uguaglianza, la giustizia e la dignità sono obiettivi essenziali per la realizzazione delle legittime aspirazioni dei popoli africani, salvo poi omettere questi punti cruciali dagli scopi dell’Organizzazione stessa3.
Da un punto di vista storico va anche detto che essendo stata la decolonizzazione il primo chiaro esistenziale obiettivo dell’OUA, essa fu un processo che si protrasse per oltre due decenni, fino al collasso cruento dell’ultimo impero coloniale rimasto sul continente nel 1975, quello portoghese (Guinea Bissau, Mozambico, Angola, Sao Tomè e Principe), con la caduta del regime salazariano e la Rivoluzione dei Garofani a Lisbona. Da questa prospettiva è comprensibile che solo da quell’anno furono possibili alcuni aggiustamenti di rotta, raggiunto l’obiettivo primario.
D’altra parte l’evenienza negli anni ’70 di regimi dittatoriali crudeli internazionalmente noti e additati, come quelli di Jean-Bedel Bokassa in Centrafrica (al potere fino al 1976), di Idi Amin Dada in Uganda (al potere fino al 1979), di Francisco Macias Nguema in Guinea Equatoriale (al potere fino al 1979), non giovarono alla credibilità internazionale e alla autorevolezza dell’OUA, ma fu la presidenza USA di Jimmy Carter, sull’onda dell’Atto Finale di Helsinki (1975), a influenzare un certo sviluppo utilizzando il criterio del rispetto dei diritti fondamentali come discriminante nella concessione di aiuti economici sia ai Paesi del Patto di Varsavia, sia ai Paesi del Terzo Mondo, seguito dalla rinegoziazione con i Paesi africani, caraibici, asiatici, sugli stessi principi, dell’Accordo commerciale di Lomé, da parte della Comunità Economica Europea4.
Nel 1979 la Conferenza dei Capi di Stato e di Governo dell’OUA, tenutasi a Monrovia, capitale della Liberia, invitò l’allora Segretario generale dell’OUA, il togolese Edem Kodjo, a riunire una conferenza ristretta di esperti di alto livello, al fine di elaborare un progetto di Carta Africana dei Diritti dell’Uomo e dei Popoli, che prevedesse in particolare l’istituzione di organi che se ne facessero promotori e tutori.
2-La Carta Africana dei Diritti dell’Uomo e dei Popoli
La fase tecnica di elaborazione della Carta si tenne a Dakar (Senegal) nel dicembre del 1979, la sua versione finale fu accolta dalla Conferenza dei Capi di Stato e di Governo a Nairobi (Kenya), nel giugno 1981, adottata al vertice di Banjul (Gambia), dalla Conferenza dei Ministri della Giustizia degli Stati dell’OUA, che ne misero a punto il progetto definitivo. Entrò in vigore nell’ottobre 1986. Oggi è ratificata da 53 stati su 55 dell’intero continente, mancando soltanto il Regno del Marocco, uscito dall’OUA nel 1985 e il Sud Sudan, indipendente dal Sudan dal 20115, che però ha già ratificato la Carta Africana per i Diritti dei Bambini (1999)6, nel 20147. Un fatto particolarmente importante dato il delicato fenomeno dei bambini soldato.
La Carta Africana dei Diritti dell’Uomo e dei Popoli è composta da un preambolo di dieci paragrafi e da un corpo di sessantotto articoli, divisi in una prima parte dedicata al catalogo dei diritti e dei doveri garantiti (artt. 1-29), in una seconda che tratta delle misure di salvaguardia previste (artt. 30-63) ed in una terza ed ultima con le consuete disposizioni finali (artt. 64-68). Presenta una rilevante convergenza con la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo del 19488, alla quale fa esplicito riferimento nel preambolo, al terzo paragrafo. Ivi tuttavia si equipara il Sionismo all’Apartheid (fatto che evoca certamente contorni storici preoccupanti), come strumento imperialista nemico dell’unità africana, punto che sicuramente ha a che fare con un accentuato anti-semitismo diffuso fra molti leaders nord-africani (Nasser, Gheddafi e altri credevano ancora ai “Protocolli dei savi di Sion”) ma anche con l’innegabile connivenza di Israele con il regime di Pretoria, dal momento che Israele fu del resto l’unico Stato a riconoscere alcuni “bantustans”.
Lo stesso diritto allo sviluppo, al quale è riservato un posto importante nello strumento africano, trova un preciso punto di riferimento nell’art. 22 della Dichiarazione. Non meno rilevante il parallelo tra l’incorporazione del concetto di dovere individuale nella Carta Africana e l’art. 29 della Dichirazione che sottolinea come “Ogni individuo ha dei doveri verso la comunità, nella quale soltanto i diritti e le libertà enunciati in questa Dichiarazione possono essere pienamente realizzati”9. Il carattere collettivo e non individuale attribuito al diritto allo sviluppo e ad altri diritti, rappresenta comunque l’innovazione principale apportata dalla Carta Africana.
La prima lacuna della Carta riguarda invece proprio un diritto umano individuale garantito dalla Dichiarazione universale: il diritto ad elezioni periodiche, libere e democratiche. Accanto a questa omissione non trovano spazio neanche la menzione del diritto a cambiare religione né delle libertà sindacali. Mentre la lacuna relativa ai diritti ed alle libertà personali delle donne (ivi compresa la libera scelta del coniuge e l’uguaglianza giuridica dei coniugi) è stata colmata dal Protocollo di Maputo del 2003 (in vigore dal 2005), anche se solo parzialmente siccome finora è stato ratificato solo da 36 Stati africani. In esso si fa divieto delle “pratiche nefaste” quali le mutilazioni genitali femminili, si affermano il diritto delle donne alla salute ed alla contraccezione, la protezione delle vedove, delle donne anziane e povere10.
Non meno grave viene reputata l’eccessiva discrezionalità conferita agli Stati nella limitazione dei diritti garantiti dalla Carta e desta perplessità l’assenza di disposizioni che prevedano e regolamentino la facoltà degli Stati di sospendere i diritti ivi consacrati in circostanze eccezionali come guerra e situazioni di pericolo pubblico che minaccino l’esistenza dello Stato. Nel 1995 e nel 2003 la Commissione dei Diritti dell’Uomo dell’OUA si pronunciò nei seguenti termini in merito alla situazione in Ciad del 1992 (richiamata in seguito in merito alla situazione in Repubblica Democratica del Congo nel 1999): “la Carta Africana, a differenza di altri strumenti sui diritti umani, non consente agli Stati parti di derogare ai loro obblighi pattizi in situazioni di emergenza. Quindi nell’ambito della Carta Africana perfino una guerra civile non può essere invocata come scusante dallo Stato che viola o che permette la violazione dei diritti”11.
Il secondo capitolo della Carta Africana è dedicato ai doveri nei confronti di cinque entità distinte, conformemente alla tradizione comunitaria africana: la famiglia, la società, lo Stato, le altre collettività legalmente riconosciute e la comunità internazionale, con particolare riferimento alla comunità panafricana.
L’art. 29 invita a preservare e rinforzare i valori culturali africani “positivi”12 e a contribuire alla promozione della salute morale della società, a servire la propria comunità nazionale e a mettere le proprie capacità fisiche e intellettuali al suo servizio, a preservare e rinforzare l’indipendenza nazionale e l’integrità territoriale della patria e in modo generale, di contribuire alla difesa del proprio Paese, alle condizioni fissate per legge. A prescindere dalla cittadinanza rappresenta un dovere civico “non compromettere la sicurezza dello Stato del quale si è cittadino o residente”13. In questo articolo si trovano condensate molteplici motivazioni storiche, si fa cenno di fatto alla questione dei numerosissimi rifugiati a lungo ospitati in diversi Paesi africani (cui ha fatto di recente riferimento anche il nuovo Segretario Generale ONU) e lì a lungo residenti, nonché al timore (motivato dalla Storia) di future radicalizzazioni e secessioni a sfondo etnico, a vantaggio invece della promozione esplicita di una coesione nazional-patriottica e della stabilità degli Stati del continente.
Nello stesso articolo si fa infine esplicito cenno alla tradizione panafricanista su cui sostanzialmente poggiano tutte le premesse dell’istituzione: “contribuire al meglio delle proprie capacità, in qualsiasi momento e a tutti i livelli, alla promozione e alla realizzazione dell’unità africana” principio che inoltre è teso a limitare ed arginare gli eventuali abusi del principio di difesa della patria, nei confronti degli altri Stati del continente.
Nello stesso articolo è inoltre sancito l’obbligo di lavorare, ambiguo se si considera che nella Carta Africana non si fa esplicita e precisa proibizione del lavoro forzato, ma si vieta solo in generale lo sfruttamento dell’uomo all’art. 5. Tuttavia tutti gli Stati africani, incluso il Sud Sudan, nel 2012 hanno sottoscritto la Convenzione 105 dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro, che all’art. 1 vieta espressamente il lavoro forzato come strumento di mobilitazione ai fini dello sviluppo economico14.
Ambiguo anche l’art. 10 il quale afferma che “nessuno può essere obbligato a far parte di un’associazione con riserva dell’obbligo di solidarietà previsto all’art. 29”, principio che può legittimare l’esistenza del partito unico, molto presente nella realtà politica africana, dato che il concetto di “obbligo di solidarietà” si presta alle più svariate interpretazioni15. Basti pensare per esempio all’obbligo di tutti i cittadini congolesi di iscriversi al partito unico del presidente Mobutu, negli oltre trent’anni di esistenza del suo regime, tra l’altro presidente dell’OUA (dal 1967 al 1968)16. Esempi analoghi si possono trovare nella Storia africana anche in diversi altri Stati autori della Carta.
Risulta inoltre interessante osservare come in teoria la Commissione potrebbe adire la Corte per giudicare il mancato rispetto, da parte di uno Stato membro, dell’impegno ad assicurare l’osservanza degli obblighi collettivi degli individui al mantenimento dei propri genitori o alla promozione dell’unità continentale. Caso unico a livello internazionale17.
3-I Diritti dei Popoli
I diritti collettivi, in particolare quelli di solidarietà, presentano il rischio di pregiudicare la tutela dei diritti individuali dell’Uomo, dal momento che la nozione di Popolo non è definita dallo strumento africano, offrendosi quindi come facile appannaggio delle entità statali, né si trova nella giurisprudenza generale una chiara definizione formale di “popolo” che non lasci spazio ad ambigue interpretazioni. Si può dire che il “popolo”18 sia lo Stato (anche se ciò sembra lasciare porte aperte ad una certa concezione totalitaria dello Stato), oppure sia la popolazione permanente di uno Stato (secondo l’uso più diffuso), ma “popolo” è anche un gruppo coerente sotto certi aspetti evidenti, dominato da uno Stato straniero (o percepito tale), che però non si autodetermina separatamente in sé (interpretazione pericolosa per la stabilità se in senso secessionista, di secessione esterna).
È in questo senso interessante citare la storica sentenza dell’ottobre 2001 in merito al caso degli Ogoni nello Stato della Nigeria (comunicazione 155/96, presentata dal Centre for Economic and Social Rights). In quel caso la Commissione accertò la violazione da parte della Nigeria di diversi diritti collettivi dell’etnia degli Ogoni, nella fattispecie il diritto ad un ambiente soddisfacente e favorevole allo sviluppo ed il diritto a disporre liberamente delle proprie risorse e ricchezze naturali. La Commissione ha altresì stabilito che “ai popoli indigeni spetta il diritto alle risorse naturali contenute all’interno delle loro terre tradizionali”19 e prosegue: “le conseguenze dello sfruttamento coloniale hanno lasciato la popolazione e le preziose risorse africane ancora alla mercé della appropriazione indebita straniera”. Non viene certo contestato il diritto della Nigeria allo sviluppo, bensì il fatto che lo sviluppo non sia stato sostenibile e anzi il Governo Nigeriano del regime militare di Sani Abacha (e dei precedenti regimi) abbia non solo consentito ad attori privati, in particolare alle compagnie petrolifere, di “interferire in maniera devastante con il benessere degli Ogoni”, ma abbia addirittura dispiegato le proprie forze armate per consentire, attraverso la repressione violenta, lo sfruttamento da parte delle stesse compagnie straniere20 (in tale contesto è da inserire infine anche l’esecuzione dell’attivista Ken Saro Wiwa, attuata in segreto, malgrado le misure provvisorie cautelari indicate dalla Commissione). Violando altresì il diritto popolare alla protezione e all’informazione libera21. Gli Ogoni risiedono nella regione dove si collocano storicamente anche gli Igbo, presso il Delta del fiume Niger, nella regione dei fiumi, che si era già separata dalla Nigeria nel 1966, con la tristemente nota secessione del Biafra22.
Altre posizioni interessanti in materia sono state assunte dalla Commissione più recentemente in merito alla comunicazione 276/03 (presentata dal Centre for Minority Rights Development) sulla deportazione degli Endorois, a fini di sfruttamento delle risorse, in Kenya, ove si è richiamata la sentenza sul caso degli Ogoni, e prima in merito al caso del Katanga (comunicazione 75/92, presentata dalla Presidenza congolese) invitando qui la popolazione dello stesso Katanga anche ad “esercitare una variante dell’autodeterminazione compatibile con la sovranità e l’integrità territoriale dello Zaire”23, scongiurando quindi una secessione della regione diamantifera del Katanga (Repubblica Democratica del Congo meridionale), come già avvenuto invece nel 1960, sotto la protezione belga e con l’ambiguo intervento dell’ONU (in cui perse la vita l’allora Segretario Generale Hammarskjold) contro il legittimo governo di Patrice Lumumba24.
Accanto al diritto alla partecipazione ed alla direzione degli affari pubblici, alla libera informazione ed alla libertà di associazione, l’art. 13 della Carta sancisce un diritto che si è quindi richiamato più volte: il diritto a disporre liberamente delle proprie ricchezze naturali25.
Il diritto alla Pace e alla Sicurezza Internazionale è garantito dall’art. 23, che prevede l’obbligo da parte degli Stati di prevenire qualsiasi attività sovversiva e terroristica contro altri Stati membri, comprese le attività poste in essere dai rifugiati e prestandosi ad avere ampie interpretazioni la parola propaganda (qualsiasi attività ritenuta idonea a creare tensioni fra Stati membri), questo articolo potrebbe anche pregiudicare la libertà d’espressione da parte dei rifugiati.
In tale ambito la Commissione nel 2003 ritenne (a seguito della comunicazione 227/99, presentata dalla stessa Presidenza della Repubblica Democratica del Congo) violato il diritto alla pace ed alla sicurezza internazionale in Repubblica Democratica del Congo, da parte di Burundi, Rwanda e Uganda26, le cui armate si erano infiltrate nel Kivu (regione orientale) dal 1998, prima sostenendo la guerra civile contro Mobutu, guidata dallo stesso Kabila, poi Presidente “parte lesa”, rimanendo poi di fatto a fomentare lo scontro fra rifugiati tutsi e hutu e per controllare le risorse dell’area (in particolare il coltan).
Suscita sicuramente qualche perplessità il fatto che il Governo di uno Stato contraente possa nello stesso tempo rappresentare la popolazione il cui diritto sia stato pregiudicato e lo Stato apparato chiamato a rispondere della violazione, non a caso è prassi che una organizzazione non governativa si presenti in rappresentanza della popolazione in una class action27.
4-La Commissione dei Diritti dell’Uomo e dei Popoli
La Commissione Africana dei Diritti dell’Uomo e dei Popoli è stata creata dalla omonima Carta, tiene normalmente due sessioni ordinarie all’anno, della durata di circa due settimane, con la facoltà di convocare sedute straordinarie anche fuori sede ed ha la sua sede a Banjul, capitale del Gambia, dal 1989. È composta da undici membri che siedono a titolo personale e sono eletti a scrutinio segreto dalla Conferenza dell’UA. L’OUA si è trasformata in Unione Africana (UA) nel 2002, con il Segretario ivoriano Amara Essy, poi primo Presidente della Commissione dell’UA.
Il mandato dei commissari dura sei anni ed è rinnovabile, essi devono essere persone altamente qualificate nella materia dei Diritti dell’Uomo ed avere nazionalità di uno degli Stati parti della Convenzione (55 Stati). Non possono essere eletti due commissari con la stessa nazionalità. Una limitazione per certi versi è il fatto che la Commissione dipenda interamente dalla Conferenza dell’UA, dalla quale dipende in quanto a fondi, servizi e personale. Tuttavia i commissari, oltre a godere dell’immunità diplomatica, godono di una pressoché totale inamovibilità, essendo previsto che possano essere revocati solo su parere unanime degli altri commissari. Essi sono responsabili della promozione e della protezione dei diritti umani e, cosa più importante, della interpretazione degli articoli della Carta.
Ogni due anni gli Stati devono presentare una relazione alla Commissione, la quale può chiedere informazioni supplementari, stabilisce i termini e riprende gli Stati inadempienti, potendo addirittura elaborare essa stessa i rapporti, al posto degli Stati più recalcitranti, basandosi sulle informazioni disponibili. Nel 1993, dopo quattro anni dall’insediamento della Commissione, solo quindici Stati avevano consegnato il loro rapporto, tra l’altro per lo più limitandosi ad elenchi di misure legislative adottate e non di dati. Nel 2012 ancora ben undici Stati non avevano inviato il rapporto iniziale richiesto nel 1989 e si noti comunque che fra i gli Stati in regola si trovavano Paesi sicuramente non esemplari in materia di diritti umani, come Libia, Nigeria, Repubblica Democratica del Congo, Sudan.
La Commissione ha il compito di ricevere le comunicazioni in materia di diritti umani. Di regola la ricezione di esse è seguita da una fase di conciliazione, nella quale la Commissione tenta una negoziazione bilaterale, notificando la comunicazione allo Stato oggetto e richiedendo da questo una replica entro tre mesi, che contenga tutte le informazioni utili ad un regolamento amichevole soddisfacente della controversia, nel rispetto dei diritti fondamentali.
Quando ciò non avviene si avvia la procedura della comunicazione-reclamo, che si apre con una notifica al Presidente della Commissione, a quello dell’UA ed alla parte interessata nella controversia, ond’evitare il contatto diretto fra le due parti. Tale notifica conterrà le misure adottate fallite, il previo esaurimento dei ricorsi interni, tutte le altre procedure internazionali d’inchiesta alle quali le parti hanno fatto ricorso.
Condizioni imprescindibili di ricevibilità delle comunicazioni-reclamo sono il previo esurimento dei ricorsi interni, a meno che, a giudizio della Commissione, non sia evidente che la procedura relativa a questi ricorsi si prolunghi in maniera anomala o non siano giudicati conformi ai principi basilari di diritto internazionale generalmente riconosciuti. Possono essere presentate anche da qualsiasi persona fisica o giuridica, non possono essere anonime, incompatibili alla Carta, redatte in termini oltraggiosi, devono essere documentate e presentate “entro un termine ragionevole” (a differenza di quanto accade per la Convenzione Europea e per quella Americana che fissano un termine preciso di sei mesi dagli episodi), devono essere conformi al principio ne bis in idem (una comunicazione può essere per esempio giudicata irricevibile se già oggetto di un reclamo identico deciso da un altro organismo come l’ONU). Si giudicano irricevibili anche le comunicazioni inerenti Stati non facenti parte della Convenzione/Carta, come nel caso del contenzioso Sudan-Sud Sudan nel 2012 (quest’ultimo non è Stato parte) o nel caso della comunicazione presentata dalla Libia contro gli Stati Uniti nel 2011.
La Commissione può chiedere l’adozione di speciali misure provvisorie in situazioni particolari per prevenire un danno irrimediabile alla vittima di una presunta violazione, conformi all’urgenza della situazione, come avvenne nel 1995, nel caso Saro Wiwa (che fu comunque giustiziato in segreto insieme ad altri detenuti). Tali misure infatti sono consentite dal Regolamento dell’organo, non sono contemplate dalla Carta e ciò rende assai problematico il riconoscimento del loro carattere vincolante. La piena operatività ormai raggiunta dal 2004 dalla Corte Africana dei Diritti dell’Uomo e dei Popoli (in base al Protocollo del 1998) potrebbe portare a diverse dinamiche giuridiche, non tanto perché la Corte abbia il potere statutario di adottare misure provvisorie, quanto perché la mancata osservanza di queste misure disposte dalla Commissione costituisce uno dei casi in cui quest’ultima può deferire una comunicazione alla Corte stessa.
I lavori nelle sessioni della Commissione e i documenti da essa prodotti sono pubblici. Dopo aver ottenuto tutte le informazioni che ritiene necessarie e dopo aver provato tutti i mezzi adeguati per raggiungere una soluzione amichevole, fondata sul rispetto dei diritti umani, emana un rapporto che indica i fatti e le sue conclusioni, trasmesso agli Stati membri interessati ed alla Conferenza dei Capi di Stato e di Governo28.
5-Il Protocollo del 1998 e l’istituzione della Corte Africana dei Diritti dell’Uomo e dei Popoli e la Corte di Giustizia dell’Unione Africana
Alla Conferenza dei Capi di Stato e di Governo dell’OUA del Cairo (Egitto, giugno 1993), la Commissione svolse una campagna presso le varie delegazioni per promuovere l’idea di una Corte Africana.
La prima riunione di esperti giuridici si tenne a Città del Capo nel settembre del 1995, anno di svolta nella Storia africana e del Panafricanismo. La capitale sudafricana rappresentava in quel particolare momento storico un luogo simbolo per il continente, l’anno prima si erano infatti svolte le prime elezioni democratiche post-Apartheid, in Sudafrica, le quali avevano portato alla vittoria l’uomo simbolo della lotta per i diritti umani contro il regime boero dell’Apartheid (istituito nel 1960), Nelson Mandela, storico leader del processo di democratizzazione e riconciliazione sudafricana e figura simbolica dell’African National Congress, partito simbolo della lotta per i diritti degli africani e del Panafricanismo, il Sudafrica era inoltre appena stato riammesso all’Assemblea Generale dell’ONU.
Il progetto ivi redatto fu poi sottoposto alla rinuione ordinaria del Consiglio dei Ministri della Giustizia dei Paesi membri dell’OUA a Yaoundé, capitale del Camerun, nel 1996, che tuttavia decise di rinviare l’approvazione definitiva all’anno seguente, per consentire un’ulteriore circolazione del progetto tra gli Stati membri.
Nel 1997 veniva apportata una serie di emendamenti e si tenne dunque una riunione dei Ministri ad hoc sotto l’egida dell’OUA, ad Addis Abeba. Questa Conferenza presentò alla firma degli Stati, nel 1998, al vertice di Ouagadougou (capitale del Burkina Faso), un testo con modifiche limitate rispetto all’originale. In quella sede 30 Stati firmavano per consensus il Protocollo, entrato in vigore il 25 gennaio 2004. Nasceva finalmente la Corte Africana dei Diritti dell’Uomo e dei Popoli, con sede ad Arusha (Tanzania), anche se riunita per la prima volta a Banjul. Mentre il Protocollo del 2003, per l’istituzione di una Corte di Giustizia dell’UA, non è mai entrato in vigore.
Se al vertice di Maputo del 2003 si affermò che le due Corti sarebbero rimaste separate e distinte, la medesima decisione venne ritrattata nel 2004 al vertice di Addis Abeba, ove si deliberò che le due Corti dovessero essere accorpate in un’unica Corte. Qui il Ministro degli Esteri algerino presentò un progetto di Protocollo di fusione delle due Corti.
Si innescò un processo volto a procrastinare sine die l’effettivo insediamento della Corte dei Diritti dell’Uomo e dei Popoli, compromettendo ancora una volta la tutela degli stessi diritti umani fondamentali nel continente africano.
Nel luglio 2005 quindi, al vertice di Sirte (Libia), la Conferenza dell’UA, pur ribadendo l’opzione dell’integrazione delle due Corti in un unico organo giurisdizionale, stante lo stallo del Protocollo relativo alla Corte di Giustizia, ha deciso di procedere, senza ulteriori indugi, alla istituzione della Corte Africana dei Diritti dell’Uomo e dei Popoli. Gli undici giudici sono stati eletti nel 2006, anno in cui si è tenuta la prima storica riunione della Corte Africana, a Banjul (Gambia)29.
Il Protocollo di fusione è stato approvato nel 2008, a Sharm-el-Sheikh (Egitto), con il nome di Protocollo sullo Statuto della Corte Africana di Giustizia e dei Diritti Umani. La futura Corte sarà articolata in due Sezioni composte da otto giudici ciascuna, l’una competente a risolvere qualsiasi questione di diritto internazionale che coinvolga uno Stato membro dell’UA, l’altra ad accertare violazioni perpetrate da uno Stato membro dell’UA di qualsiasi accordo internazionale in materia di Diritti dell’Uomo, suddividendo su questo parametro anche le questioni inter-statali30.
Nello stesso momento si è assistito ad una proliferazione di costosi e ingiustificati tribunali a livello regionale e subregionale, competenti anche in materia di diritti umani.
Rispetto al Protocollo del 1998 la Corte deve assicurare la rappresentanza delle regioni africane e delle principali tradizioni giuridiche del continente. Ogni Stato parte del Protocollo può presentare fino a tre candidati giudici, dei quali almeno due devono essere cittadini dello Stato che li presenta. La procedura di nomina deve assicurare una adeguata rappresentanza femminile (art. 12 del Protocollo), disposizione che ha permesso anche la presidenza della Corte da parte della giudice ghanese Sophia Akuffo (2012-2014).
Gli undici giudici sono nominati dal Consiglio Esecutivo dell’UA e hanno un mandato di sei anni, rinnovabile per un ulteriore mandato. Presidente e vice Presidente sono eletti per un mandato di due anni, rinnovabile una sola volta. Il Presidente è impiegato a tempo pieno (art. 21) presso il tribunale dei Diritti dell’Uomo di Arusha, assistito da un Cancelliere ivi residente e da altri funzionari nominati fra cittadini degli Stati dell’UA (art. 24), mentre gli altri giudici lavorano a tempo parziale.
I giudici godono inoltre dell’immunità diplomatica e non possono giudicare casi nei quali siano precedentemente intervenuti come agenti, consulenti, avvocati, membri di un tribunale o di una commissione d’inchiesta o a qualsiasi altro titolo, né possono d’altra parte, in alcun momento, anche dopo la scadenza del loro mandato, essere perseguiti per le decisioni o i pareri emessi nell’esercizio delle loro funzioni (art. 17). Un giudice può essere sospeso o rimosso dalle sue funzioni unicamente secondo il parere unanime degli altri giudici della Corte (art. 19).
Nel caso in cui un giudice abbia la stessa nazionalità di uno Stato che è parte coinvolta in un caso egli si ricusa (art. 22) dal momento che la Corte ha bisogno di un quorum di sette giudici per l’esame di un caso (art. 23).
La Corte è chiamata a completare il mandato della Commissione e ad essa come a quest’ultima possono appellarsi gli stessi soggetti ed ovviamente la Commissione stessa e le organizzazioni non governative con status di osservatori presso di essa (art. 5 del Protocollo). La Corte si avvale di ogni strumento rilevante sui diritti umani ratificato dallo Stato interessato (art. 3 del Protocollo), giudica questioni interne ed inter-statali. Ad oggi solo sette Stati, dei 26 che hanno ratificato il Protocollo d’istituzione di Ouagadougou (Burkina Faso, Costa d’Avorio, Ghana, Malawi, Mali, Rwanda e Tanzania) hanno notificato la dichiarazione di ratifica del Protocollo, procedura per accettare cioè la piena giurisdizione della Corte sul proprio territorio.
Il Protocollo è emendabile a maggioranza assoluta dai membri della Conferenza degli Stati dell’UA, su proposta di uno Stato membro. Il budget della Corte dipende direttamente dalla stessa Conferenza.
Dunque ad oggi, benché facciano parte della Corte anche un giudice nigeriano, un burundese, un algerino, un senegalese, un kenyota, un tunisino, un ugandese, un mozambicano (nel pieno rispetto delle diverse tradizioni giuridiche, che rispecchiano in buona parte l’eredità delle precedenti dominazioni coloniali), di fatto la giurisdizione della Corte dipende essenzialmente dall’attivazione della Commissione e si estende autonomamente solo a sette Stati; persone fisiche e giuridiche e soggetti di diritto internazionale, di uno Stato che non abbia fatto la dichiarazione, non possono quindi appellarsi direttamente alla Corte, se non attraverso la Commissione, né la Corte può intervenire negli Stati che non abbiano fatto la dichiarazione, se non adita dalla Commissione.
Tra i due organi, Commissione e Corte, si è raggiunta quindi un’intesa, nel 2010, per un vero e proprio rapporto di complementarietà.
La Commissione deferisce una comunicazione alla Corte quando essa consideri che uno Stato non abbia adempiuto alle proprie raccomandazioni, non si sia conformato alle misure provvisorie richieste, in caso di rilevazione di gravi e sistematiche violazioni dei diritti umani. La Commissione dunque non opera necessariamente da filtro all’accesso alla Corte (a differenza del caso europeo e di quello inter-americano), la Commissione può spogliarsi di una comunicazione e deferirla direttamente alla Corte anche allo stadio iniziale della procedura, un soggetto può interpellare direttamente la Corte31.
Secondo l’art. 30 del Protocollo le sentenze della Corte Africana sono definitive e giuridicamente vincolanti per le parti in causa, che si impegnano a garantirne l’esecuzione nel termine stabilito dalla Corte.
Al Consiglio Esecutivo dell’UA, succeduto alla Conferenza dei Ministri, è affidato il compito di sorvegliare sull’esecuzione delle sentenze. La Corte può ordinare le misure giudicate idonee a rimediare ad una violazione, compreso un adeguato indennizzo. Le sentenze della Corte sono rese pubbliche al momento della loro emanazione e non a seguito dell’autorizzazione della Conferenza dell’UA. Non è pubblico invece il rapporto annuale della Corte al Consiglio Esecutivo dell’UA, nel quale sono menzionati gli Stati che risultano inadempienti per non aver seguito le sentenze della Corte32. Le udienze sono pubbliche ma la Corte ha anche discrezionalità di svolgerle a porte chiuse.
Pur trattandosi di una dinamica allo stadio iniziale, l’istituzione della Corte Africana segna indubbiamente l’apertura di una fase nuova nel sistema africano di protezione dei diritti umani, caratterizzata da un rapporto simbiotico fra Commissione e Corte. I due organi possono reciprocamente deferirsi istanze e consultarsi in merito all’ammissibilità di istanze.
Fra l’altro nel 2011 la Corte ha dimostrato di essere un attore di rilievo nell’attuale scenario internazionale ordinando misure cautelari relativamente alla comunicazione deferita dalla Commissione in merito alle violenze perpetrate contro la popolazione civile nella prima fase della crisi libica, chiedendo misure che il regime di Gheddafi si è rifutato di adempiere, altre misure cautelari sono state raccomandate nel 2012 con riguardo alla sistematica violazione dei diritti degli Endorois in Kenya, forzatamente trasferiti dalle loro terre ancestrali, dal Governo. Nel 2013 la Corte ha raccomandato alla Tanzania di prendere tutte le misure necessarie per garantire la libera partecipazione dei cittadini al Governo, indipendentemente dall’affiliazione partitica. Nel 2014 ha condannato il Governo del Burkina Faso per non aver saputo prevenire ed impedire l’assassinio del giornalista Norbert Zongo (il caso fu portato davanti alla Corte dalla stessa famiglia Zongo, poiché cittadini di uno Stato che aveva fatto la dichiarazione di adesione al Protocollo) e non essere riuscito a proteggere altri giornalisti e attivisti.
Forti del progetto di una Corte Africana integrata, Gambia, Sudafrica e Burundi, nell’ottobre 2016, hanno annunciato la loro intenzione di ritirarsi dalla Corte Internazionale, seguiti da Kenya, Uganda e Namibia. L’accusa mossa alla Corte Internazionale è stata quella di occuparsi solo di violazioni in Africa, mentre violazioni altrettanto gravi accadono ai quattro angoli del globo. La Corte Internazionale è stata definita “uno strumento imperialista controllato dagli ex colonizzatori”. Va detto che quegli stessi Stati non hanno nemmeno accettato la giurisdizione della Corte Africana in casa loro. Per quanto riguarda il Gambia, si tratta di un regime oppressivo, da ventidue anni nelle mani di Yahya Jammeh, mentre il Burundi, nuovamente afflitto da una spirale di violenze inter-etniche, ha proprio fatto tale annuncio a seguito dell’indagine preliminare condotta sul suo territorio da parte della Corte dell’Aja. Il presidente sudafricano Zuma non si è certo fatto notare infine come erede di Mandela, ma piuttosto come Presidente abbastanza autoritario a capo di un’amministrazione notevole per casi di corruzione, lo stesso dicasi per i Governi di Kenyatta e Museveni (quest’ultimo particolarmente attivo tre anni fa in una grave campagna omofoba).
Botswana, Nigeria, Costa d’Avorio, Senegal e Tunisia si sono pubblicamente e tempestivamente dissociati da questa ipotesi paventata da alcuni altri membri dell’UA33.
Il rapporto di Amnesty International 2014-2015 ha lanciato un appello, che si spera non cada nel vuoto, ai cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza dell’ONU, a rinunciare al diritto di veto nei casi di genocidio ed altre atrocità di massa.
Inoltre mentre la percentuale di povertà complessiva in Africa è diminuita nell’ultimo decennio, è aumentata la quota di africani sotto la soglia di povertà (1,25 dollari al giorno). C’è un forte legame fra conflitti e fragilità politica dei Paesi africani e la negazione dei diritti fondamentali della popolazione, alla salute, all’ambiente, all’informazione, a periodiche elezioni libere e democratiche, accanto all’intensificarsi dei conflitti in varie aree e al crescente potere dei gruppi armati non statali, con l’impunità di autorità che spesso ostacolano i lavori della Corte. Appare evidente la necessità di una svolta nella volontà politica dei leaders africani, che non può prescindere dalla sempre più forte affermazione dei diritti umani e quindi da una sempre più ampia adesione alla giurisdizione di tutte le Corti dei Diritti dell’Uomo, non impedendone il lavoro e consentendone l’esecutività delle sentenze, lo stesso atteggiamento è ovviamente allo stesso modo necessario da parte di tutti gli attori stranieri coinvolti34.
BIBLIOGRAFIA FONDAMENTALE:
C. Zanghì, La protezione internazionale dei diritti dell’uomo, G. Giappichelli Editore, Torino, 2013
B. Conforti, C. Focarelli, Le Nazioni Unite, CEDAM, Padova, 2012
Carta Africana dei Diritti dell’Uomo e dei Popoli
Protocollo alla Carta Africana del 1998
C. Zanghì, La protezione internazionale dei diritti dell’uomo, G. Giappichelli Editore, Torino, 2013 (p. 477).
1 C. Zanghì, La protezione internazionale dei diritti dell’uomo, G. Giappichelli Editore, Torino, 2013 (p. 477).
2 C. Zanghì, La protezione internazionale dei diritti dell’uomo, G. Giappichelli Editore, Torino, 2013 (p. 480).
3 C. Zanghì, La protezione internazionale dei diritti dell’uomo, G. Giappichelli Editore, Torino, 2013 (p. 479).
4 C. Zanghì, La protezione internazionale dei diritti dell’uomo, G. Giappichelli Editore, Torino, 2013 (p. 480).
5 C. Zanghì, La protezione internazionale dei diritti dell’uomo, G. Giappichelli Editore, Torino, 2013 (p. 481).
6 Una vera e propria Carta autonoma, non un Protocollo, come quello sui diritti delle donne.
7 dirittiumani1.blogspot.it/2014/10/sud-sudan-ratificata-la-carta-africana.html (24/03/2017).
8 C. Zanghì, La protezione internazionale dei diritti dell’uomo, G. Giappichelli Editore, Torino, 2013 (p. 482).
9 C. Zanghì, La protezione internazionale dei diritti dell’uomo, G. Giappichelli Editore, Torino, 2013 (p. 483).
10 C. Zanghì, La protezione internazionale dei diritti dell’uomo, G. Giappichelli Editore, Torino, 2013 (p. 493).
11 C. Zanghì, La protezione internazionale dei diritti dell’uomo, G. Giappichelli Editore, Torino, 2013 (p. 484).
12 Sebbene possa risultare ambigua tale affermazione si ravvisa in essa un indirizzo filosofico molto ben espresso dal Nobel nigeriano Wole Soyinka nel suo Africa, Bompiani, Milano, 2015, nel quale lo scrittore, giunto alla conclusione di una lunga pluridecennale riflessione sui fatti politici africani che lo hanno portato anche all’esilio in Europa, fa emergere forte e chiaro come l’Africa non possa più permettersi di importare e applicare maldestramente ideologie e strutture concepite altrove ma debba cercare di esprimere e sviluppare quanto di meglio possa trovare nella propria particolare tradizione e civiltà, storicamente svilita e minimizzata dagli stessi africani.
13 C. Zanghì, La protezione internazionale dei diritti dell’uomo, G. Giappichelli Editore, Torino, 2013 (p. 485).
14 C. Zanghì, La protezione internazionale dei diritti dell’uomo, G. Giappichelli Editore, Torino, 2013 (p. 487).
15 C. Zanghì, La protezione internazionale dei diritti dell’uomo, G. Giappichelli Editore, Torino, 2013 (p. 487).
16 M. Wrong, In the footsteps of Mr Kurtz: Living on the brink of disaster in Mobutu’s Congo, Harper Perennial, New York, 2002.
17 C. Zanghì, La protezione internazionale dei diritti dell’uomo, G. Giappichelli Editore, Torino, 2013 (p. 486).
18 Štefan Polakovič, antropologo slovacco naturalizzato argentino, nel suo volume Pensando la Nacion, facendo proprio riferimento all’irriducibilità dei numerosi popoli indigeni del mondo (con particolare riferimento alla realtà africana e proprio agli Ogoni) auspicò che l’ONU potesse diventare una Organizzazione di tutte le Nazioni-popoli, anche quelle minori, inglobate negli Stati, dimenticate ma eredi di un patrimonio culturale autonomo anche quando non assimilabile alla cultura ed alla civiltà europee e non standardizzabile o incanalabile nella forma di Stato (E. Polakovic, Pensando la Nacion, Grupo Editor Latinoamericano, Buenos Aires, 1986). Secondo il ceco, naturalizzato francese, Karel Vašak, Segretario Generale dell’Istituto Internazionale dei Diritti Umani (1969-1980), la Nazione come Popolo significa tradurre una determinata concezione della vita in comunità, realizzabile attraverso gli sforzi di ogni uomo e di tutti gli uomini di una comunità, presi collettivamente (K. Vašak, The International Dimensions of Human Rights, Westport, Greenwood Press, 1982).
19 C. Zanghì, La protezione internazionale dei diritti dell’uomo, G. Giappichelli Editore, Torino, 2013 (p. 488).
20 C. Zanghì, La protezione internazionale dei diritti dell’uomo, G. Giappichelli Editore, Torino, 2013 (pp. 488-489).
21 C. Zanghì, La protezione internazionale dei diritti dell’uomo, G. Giappichelli Editore, Torino, 2013 (p. 490).
22 F. Forsyth, The Biafra Story, Pen & Sword, Barnsley, 2007.
23 C. Zanghì, La protezione internazionale dei diritti dell’uomo, G. Giappichelli Editore, Torino, 2013 (p. 488).
24 D. van Reybrouck, Congo, Feltrinelli, Milano, 2010; Conforti, Focarelli, Le Nazioni Unite,CEDAM,Padova,2012
25 C. Zanghì, La protezione internazionale dei diritti dell’uomo, G. Giappichelli Editore, Torino, 2013 (p. 489).
26 C. Zanghì, La protezione internazionale dei diritti dell’uomo, G. Giappichelli Editore, Torino, 2013 (p. 491).
27 C. Zanghì, La protezione internazionale dei diritti dell’uomo, G. Giappichelli Editore, Torino, 2013 (p. 491).
28 C. Zanghì, La protezione internazionale dei diritti dell’uomo, G. Giappichelli Editore, Torino, 2013 (pp. 493-506).
29 C. Zanghì, La protezione internazionale dei diritti dell’uomo, G. Giappichelli Editore, Torino, 2013 (pp. 508-510).
30 C. Zanghì, La protezione internazionale dei diritti dell’uomo, G. Giappichelli Editore, Torino, 2013 (p. 510).
31 C. Zanghì, La protezione internazionale dei diritti dell’uomo, G. Giappichelli Editore, Torino, 2013 (p. 512).
32 C. Zanghì, La protezione internazionale dei diritti dell’uomo, G. Giappichelli Editore, Torino, 2013 (pp. 512-513).
33 eastwest.eu La Corte Africana dei Diritti Umani celebra dieci anni (25/11/2016).
34 nigrizia.it Diritti Umani calpestati in Africa (M. Simoncelli) -26/02/2015-.