Diego Armando Maradona – Divinizzazione

per Gian Franco Ferraris
Autore originale del testo: Fausto Anderlini
Divinizzazione
Per quest’uomo si inchinano oggi potenti e descamisados.
Sul gradiente di Hobsbawn che va dal bandito al rivoluzionario passando per il ribelle, Maradona sta in una zona di mezzo, fra il bandito e il ribelle. misto di smodatezza e di senso primordiale della giustizia, anelito alla gloria e inclinazione alla trasgressione sino alla depence.
Il suo genio è un dono divino che neanche gli appartiene. Infatti per questo parla di sè in terza persona come si rivolgesse a un altro da sè. Di Maradona ce n’è più di uno. Nella sua vita’si leggono come in un libro squadernato tutte e tre le istanze psichice. D’impulso egli mette questo dono al servizio di una causa ribelle e redentiva che ha per bersaglio l’establishment e il potere costituito. In un calcio che ha già toccato il top della sua configurazione economico-finanziaria, anticipando la globalizzazione.
Maradona non vuole solo emergere e vincere. come ogni altro campione che non ci sta a perdere. Una forza oscura e inconsapevole lo sospinge a entrare nel mito. Ed è in questo che si identifica intuitivamente l’onnipotenza del suo io bambino. Unendo il calcio (l’arte) e la vita. L’utopia di ogni grande artista, che necessariamente è un inviluppo di estasi collettiva e dissipazione personale, ascesi sublime e grottesca contorsione nel dolore iscritto nel background. Non gli basta il riscatto individuale dalla povertà (la lettura idiota che ne fa un esempio di successo meritocratico). Deve incarnare una missione nella quale possano identificarsi tutti i diseredati come lui. Dove risuona la voce del sangue e del luogo, cioè del barrio.
Nell’unico modo possibile. Non l’effettivo riscatto attraverso il cambiamento sociale (questo non si fa con il calcio), ma con il sogno, il mito, l’evasione. Non è il riscatto sociale, ma il sogno del riscatto come retribuzione della marginalità e oblio del mondo. Orgasmo sciamanico. Un religioso nirvana. Del resto è così per tutti i grandi leader profetico-carismatici, cioè incantatori, nel cui consuntivo non rientrano i successi in quanto statisti, ma la grandezza dei sogni che destano nelle masse. Dove ciò che conta è l’atto del sollevarsi da una triste condizione e vivere l’esperienza dell’estasi nella potenza della massa che si risveglia.
Tutto questo avviene nel calcio, non nella politica e men che meno nella religione. Gli anni ’80 sono anni di secolarismo e di incipiente post-modernità (l’edonismo reaganiano). L’elemento sacrale si sposta nel calcio e nell’eroismo delle stelle dello spettacolo in genere. Persino il papa se vuole riprendere un certo carisma, visto il totale esaurimento di quello d’ufficio incardinato alla chiesa come istituzione, deve esibirsi come sportivo e star mediatica (vedasi Wojtila). Il calcio, fra tutti gli sport, è quello che meglio si offre per la sua aderenza metaforica alla vita come lotta e continua metempsicosi. Ed è in questo teatro che un ragazzo di piccola statura nato in un barrio del terzo mondo e con un fisico necessariamente tarato dalla miseria, uno sporco sudamericano, emerge come un Dio. Un Dio ‘sporco’, come ha scritto Galeano, il più umano degli Dei. La meraviglia extra ordinaria, non paragonabile ad alcuno, celebrata da Sepulveda e Soriano. E perchè il mito si compia al prodigio e al miracolo deve necessariamente accompagnarsi il calvario, impasto di peccato e penitenza. Maradona è un mito cattolico e prende il posto di Disma alla destra di Cristo. Come che Dio compiendone il destino avesse provveduto a somministrargli ogni cosa in soprannumero: il dono del genio e le dosi di cocaina.
E’ per questo misterioso presagio che Maradona sceglie il Boca anzichè il River. A Barcellona, in un club che con la sua cantera e la sua esclusiva mitologia è al top del professionismo si sente fuori posto. Nel Barca si può essere accolti nel pantheon, a maggior ragione, in grazia del suo glocalismo, se si viene da fuori, ma non si può dar vita a un nuovo mito. In Spagna, peraltro, gli scassano impietosamente la caviglia. Sicchè, alla fine, sceglie Napoli. Facendo a ritroso il percorso degli assi, Una grande città gravida di miseria e decadenza, di struggente bellezza e di degrado, e il cui palmares sportivo vede molta serie b e qualche buon piazzamento per il soccorso di sporadici campioni lì approdati con contratti da pre quiescenza. Soprattutto una città magica e sciamanica, che affida al miracolismo le attese di protezione e di riscatto. Una dolente comunità di destino nella quale si identifica e dalla quale è ricambiato con un moto devozionale totale.
Con questa città negletta, così intimamente sud-americana, Maradona immediatamente si identifica e la fa sua, portandola alla conquista di due scudetti e di una coppa uefa. Scudetti fatti valere contro i club del Nord al loro apogeo grondanti di assi: la Juventus di Boniek e Platini e il Milan di Gullit e Van Basten. Mentre il Napoli di Maradona, come del resto l’Argentina con la quale vince il Mundial del 1986, è una ciurma di comuni pedatori proletari, come Bruscolotti, Renica, De Napoli e qualche buon giocatore come Ferrara, Careca e il reietto Giordano. Nessun dream team. Solo gregari, apostoli perfino brutti e sgraziati come i proletari dei ’50, e un capo carismatico che li guida dispensando inaudite parabole di gioco.
Nel calcio di Maradona si sintetizza la triade menottiana del tempo, dello spazio, e soprattutto dell’inganno. Che è prestigitazione ed astuzia che si esplica nello spazio-tempo. Essendo il tempo anticipo, ovvero un furto sulle intenzioni altrui, e lo spazio l’intuizione tattico-strategica che apre una breccia o chiude una diga.
Miscuglio di chissà quale incrocio fra contadini ispanici e nativi amerindi Maradona è poco più di un nano zazzeruto come Ninetto Davoli. Potrebbe sembrare un arabo, o uno scugnizzo napoletano concepito per opera di un marocchino. Col suo metro e sessantacinque è poco più su di Alessandro Magno, e appena più sotto di Napoleone. In linea con Lenin e tutta la genia degli ‘angeli dalla faccia sporca’ (come Sivori, Maschio e Angelillo) venuti in Italia quasi a preparare profeticamente il terreno del suo avvento.
Alieno a ogni stereotipo dell’armonia atletica in realtà anche il suo fisico è un dono. Baricentro rasoterra, rapporto peso potenza perfetto, Maradona non corre ma ruzzola, coincidendo anche morfologicamente con la palla. Può rialzarsi con una rapidità straordinaria, non salta, ma rimbalza, non scatta ma schizza.
Poi c’è il Maradona ‘politico’, anticipato da quel tatuaggio del Che sul braccio e poi coltivato nelle amicizie con Castro, Chavez, Maduro (che pure amano il baseball tanto quanto odiano gli yankees) e nella devozione per papa Francesco che tifa San Lorenzo. Ciò che i commentatori compiaciuti della cortigianeria verso i potenti di tanta parte dello star system, gli imputano come il peggiore dei suoi peccati subito dopo la droga e l’incontinenza sessuale. E che invece ne consegue come una necessità, perchè il calcio di Maradona è, in sè e per sè, la precipitazione estetica della grandezza umana degli eroi tragici. Del Che, di Sandino ‘e Bolivar….ma qui il discorso sarebbe lungo….
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