Il compiacimento dell’Europa per l’uscita della Grecia è follia

per Gian Franco Ferraris
Autore originale del testo: Markus Diem Meier und Simon Schmid
Fonte: http://tt.bernerzeitung.ch/ La Repubblica
Url fonte: http://tt.bernerzeitung.ch/wirtschaft/Die-Selbstgefaelligkeit-in-Europa-ist-verrueckt/story/12258938

L’economista Lucrezia Reichlin è convinta che i politici sottovalutano il rischio di fuoriuscita della Grecia dalla zona euro. Ma questo non è affatto l’unico errore della UE e dell’unione monetaria.

Intervista a Lucrezia Reichlin di  Markus Diem Meier e Simon Schmid, 

La Grecia è vicina al default. Ma in Europa, nessuno sembra avere paura di un’uscita del paese dalla zona euro. Hanno ragione?

E’ pazzesca la presunzione con cui l’Europa guarda alla Grecia. Certo: il rischio del contagio nel sistema bancario è diventato più piccolo. Tuttavia, per il progetto europeo l’uscita della Grecia sarebbe un duro colpo.

Per l’economia degli altri paesi della zona euro? c’è il rischio che i tassi di interesse dei paesi estremamente vulnerabili si impennino?
Certamente altri paesi torneranno sotto pressione. Ma l’uscita della Grecia finirebbe per rendere chiaro a tutti che l’euro non è una moneta unica, bensì solo un sistema di valute nazionali fisso, “stabilizzato”.

Quante probabilità esistono di un’uscita della Grecia?
Un incidente è possibile in qualsiasi momento. Presumibilmente, i negoziatori troveranno qualche soluzione creativa per mantenere a galla la Grecia fino all’estate, ma i negoziati sono difficili.

Gli economisti come Kenneth Rogoff considerano inevitabile una riduzione del debito.
In realtà, si sarebbe dovuto procedere a ridurre il debito della Grecia già in precedenza. Un intervento vigoroso avrebbe portato alcuni benefici. Invece si è proceduto a salvataggi effettuando implicitamente una conversione del debito implicito – con il risultato che la Grecia continua ad essere esclusa dal mercato. Oggi, il problema più importante della questione del debito, sono tuttavia, quali misure il governo greco deve attuare e quanto spazio di manovra ha per far ripartire l’economia.

Abbiamo bisogno di una soluzione definitiva per il debito sovrano in Europa?
Il volume del debito condiziona in modo significativo la crescita – non solo in Grecia, ma anche in Italia e in Francia. Probabilmente le cose miglioreranno, quando verrà affrontato il problema del debito in un’unica operazione che coinvolga tutti i paesi europei. Poi sarebbe necessario riformare il sistema delle finanze pubbliche in modo che, in tempi normali, i paesi siano penalizzati automaticamente se ignorano i criteri di stabilità condivisi.

Queste idee non sono comunque all’ordine del giorno.
Ciò è dovuto alla politica monetaria. La pressione per le riforme fondamentali dell’Eurosistema si è allentata per via dei bassi tassi di interesse – purtroppo – poiché la vulnerabilità di alcuni paesi rimane alta.

I recenti dati di crescita economica della zona euro non spingono ad essere ottimisti?
Infatti, i dati attuali indicano sviluppi positivi. I progressi registrati nel quarto trimestre del 2014 si mantengono nel primo trimestre 2015. Una previsione di crescita di 1 a 1,5 per cento per la zona euro sembra ragionevole. Non solo la Germania, ma anche paesi come l’Italia, dove gli ultimi due anni sono andati particolarmente male, sono attualmente in ripresa.

La ripresa sarà duratura?
La crescita economica non si riflette nel mercato del lavoro. Se le più recenti previsioni della BCE sono corrette, il tasso di disoccupazione non scenderà sotto al 10 per cento neppure nel 2017, anche se l’inflazione dovesse tornare al target programmato del 2 per cento. Questo è molto brutto.

Perché questa discrepanza?
Ci sono sempre periodi di crescita dell’economia senza corrispondenza di rilievo con il mercato del lavoro. Conosciamo la situazione degli Stati Uniti negli ultimi anni e lo stesso fenomeno attualmente lo osservate in Europa. Anche se ci fossero posti disponibili,  i disoccupati non hanno le giuste conoscenze e competenze per questi lavori. Il mio grande timore è l’aggravarsi della dicotomia tra i precedenti lavori e le esigenze del mondo attuale..

Tuttavia, la domanda europea è scesa drasticamente durante la crisi. I disoccupati sono aumentati e i giovani scolarizzati non trovano un buon lavoro.
La disoccupazione è salita:  all’inizio della crisi del 2008 i primi segnali sono pervenuti  dagli Stati Uniti, mentre sino al 2010, l’economia europea è stata relativamente forte. Allora il tasso di disoccupazione si è impennato vertiginosamente e si è veificata una seconda recessione. Molte persone che hanno perso lavoro, sono state a lungo – più di un anno – disoccupate. Così oggi si ripete  un fenomeno già avvenuto negli anni 1980. A quel tempo la disoccupazione strutturale era già grande, ora risorge.

Alcuni economisti criticano la Banca centrale europea (BCE) e le politiche di austerità dei governi.
La BCE ha agito a volte, in modo troppo conservatore. L’austerità del governo è stata pagata a caro prezzo da molti paesi. Ma all’origine stessa dei problemi, ci  sono istituzioni europeee che si sono dimostrate inadeguate alla prova dei fatti. Nel 2008, le istituzioni europee non erano adeguate e abbastanza robuste per fare le scelte di politica economica idonee  per affrontare una grave crisi come lo era allora.  Abbiamo, per esempio, il problema di molte  banche non solo troppo grandi per essere salvate, ma anche con una  maggiore forza finanziaria dei loro paesi d’origine. Quindi abbiamo avuto soprattutto nel 2011 e 2012, una stretta creditizia, come gli Stati Uniti non hanno sperimentato. Di fatto non c’era unione bancaria.

Quanto è stabile la situazione generale della zona euro secondo te?
Si sono fatti dei passi avanti rispetto al culmine della crisi. Oggi esiste un’unione bancaria, una vigilanza bancaria comune e un meccanismo di salvataggio permanente. Tuttavia, i meccanismi di protezione sono insufficienti. Manca una suddivisione razionale del rischio in caso di crisi nei singoli paesi.  Ci sono ancora banche che potrebbero essere travolte e trascinare le altre istituzioni.  Inoltre, l’elevata disoccupazione comporta costi enormi. La zona euro non è così robusta come dovrebbe essere. Soprattutto, la credibilità di tutto il progetto europeo ha subito gravi danni.

Parli del ruolo della politica nella crisi dell’euro.
Purtroppo, non vedo la volontà politica di affrontare i problemi a livello europeo. Il nazionalismo è così pronunciato come mai dalla creazione dell’unione monetaria. E ‘ difficile immaginare che gli elettori restino favorevoli al  progetto europeo quando la disoccupazione strutturale è consolidata per un tempo molto lungo oltre il 10 per cento. Non vedo una riflessione di Bruxelles  determinata a cambiare la situazione. Francamente, io non sono particolarmente ottimista circa la stabilità politica in Europa.

Pensa anche al suo Paese, l’Italia?
La politica italiana è relativamente stabile in questo momento. Il governo è forte, e l’opposizione è frammentata. Tuttavia, le sfide sono enormi. Grandi fasce della popolazione si sono allontanate dal sistema politico. La povertà, la disoccupazione e le differenze regionali rimangono importanti. E lo Stato non ha – nonostante l’attuale favorevole fase economica – i soldi per fare qualcosa al riguardo. L’unico strumento che rimane è la flessibilità del mercato del lavoro. Tuttavia, questa politica aiuta solo a lungo termine. Immediatamente hanno addirittura creato disoccupazione supplementare.

Cosa consiglia ai politici europei?
Si dovrebbero fare progetti a lungo termine. Sarebbe utile stabilire una assicurazione contro la disoccupazione comune per l’intera unione monetaria. Sarebbe anche un importante segno simbolico che aiuta non solo le banche, ma anche la popolazione in generale. Ma io sono scettica che le autorità europee possano intraprendere decisioni di questo tenore.

Come valuta le recenti infusioni di contante attraverso acquisti di obbligazioni da parte della BCE – il cosiddetto Quantitative Easing?

Nel complesso, il quantitative easing è sicuramente utile. Già solo il semplice annuncio ha dato dei risultati. L’euro si è deprezzato. Ma non ci saranno miracoli sul’inflazione, che è attualmente di gran lunga al di sotto dell’obiettivo della banca centrale del 2 per cento. Tuttavia, questa politica è solo uno dei numerosi componenti del puzzle e non elimina le debolezze strutturali.

Quali sono le altre parti?
L’unione bancaria, una migliore condivisione del rischio nel settore delle finanze pubbliche, un’Europa più sociale.

Quali lezioni la Svizzera deve trarre dalla crisi dell’euro?
La Svizzera è un buon esempio delle difficoltà che i piccoli paesi possono avere nell’economia globalizzata. L’esperienza della Svizzera dovrebbe far pensare soprattutto i cittadini europei – quelli che ritengono che al di fuori dell’unione monetaria, sarebbe meglio. È necessario affrontare le notevoli oscillazioni del tasso di cambio, con il quale la Svizzera ha attualmente a che fare, per esempio……. se il mondo globalizzato è difficile, una piccola economia non può fare molto.

Conviene alla Svizzera aderire all’euro?
Se non avesse perso in questi ultimi anni la sua credibilità, la zona euro, non sarebbe una cattiva idea. Tanto più che la flessibilità che promette una propria moneta, in situazioni estreme come ora, diventa un’illusione. Se l’unione monetaria verrà realizzata con le istituzioni giuste, aderire avrebbe senso per i paesi come la Svizzera e il Regno Unito. (Tages-Anzeiger)

(Creato: 2015/04/04)

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dal sito tt.bernerzeitung.ch la versione originale dell’intervista:

«Die Selbstgefälligkeit in Europa ist verrückt»

Mit Lucrezia Reichlin sprachen Markus Diem Meier und Simon Schmid. Aktualisiert am 04.04.2015  

Die Ökonomin Lucrezia Reichlin ist überzeugt, dass die Politiker die Gefahr eines Austritts von Griechenland aus der Eurozone unterschätzen. Doch das sei bei weitem nicht der einzige Fehler der EU und der Währungsunion.

Die Ökonomin Lucrezia Reichlin sorgt sich um die politische Stabilität in Europa. Foto: Luca Bruno (Keystone)

Lucrezia Reichlin

In einem vom Internationalen Währungsfonds verfassten Porträt wird die 60-jährige Ökonomin als «Königin der Zahlen» vorgestellt, weil sie führend darin war, ökonomische Prognosemodelle zu verbessern. Auch deshalb hat sie bereits die US-Notenbank beraten und sie war als Forschungschefin bei der Europäischen Zentralbank tätig. Aktuell leitet sie die volkswirtschaftliche Abteilung der renommierten London Business School.

Die Italienierin verdankt ihren Namen einem aus der Schweiz nach Italien ausgewanderten Vorfahren.

Aufgewachsen ist Lucrezia Reichlin in Rom als Tochter von politisch stark engagierten Eltern. Ihre Mutter Luciana Castellina ist als Buchautorin, Europaparlamentarierin und Intellektuelle der kommunistischen Partei nach dem Zweiten Weltkrieg bekannt. Die Partei hat sie später aus Protest verlassen. Ihr Vater Alfredo Reichlin kämpfte im Krieg gegen Diktator Mussolini. Die Tochter wollte sich nicht in diesen Fussstapfen bewegen und hat sich auch deshalb der ökonomischen Forschung verschrieben. (mdm)

Griechenland steht nahe an der Zahlungsunfähigkeit. Doch in Europa scheint sich niemand mehr vor einem Austritt des Landes aus der Eurozone zu fürchten. Zu Recht?

Es ist verrückt, mit welcher Selbstgefälligkeit Europa auf Griechenland blickt. Klar: Die Ansteckungsgefahr im Bankensystem ist kleiner geworden. Doch für das europäische Projekt wäre der griechische Austritt ein schwerer Schlag.

Und für die Wirtschaft der anderen Euroländer? Besteht diesmal kein Risiko mehr, dass die Zinsen für die gefährdeten Länder extrem steigen?
Doch. Auch andere Länder würden wohl wieder unter Druck kommen. Denn ein Grexit würde allen letztlich klarmachen, dass der Euro doch keine Einheitswährung ist – sondern nur ein System von fixierten, nationalen Währungen.

Wie wahrscheinlich ist ein Austritt von Griechenland?
Als Unfall ist er jederzeit möglich. Vermutlich werden die Verhandlungspartner irgendeine kreative Lösung finden, um Griechenland bis zum Sommer über Wasser zu halten. Dann sind harte Verhandlungen angesagt.

Ökonomen wie Kenneth Rogoff halten einen Schuldenschnitt für unvermeidbar.
Eigentlich hätte man Griechenland die Schulden bereits in einem frühen Krisenstadium erlassen sollen. Ein beherztes Eingreifen hätte manche Vorteile ­gebracht. Stattdessen hat man Rettungskredite vergeben und so eine implizite Umschuldung vorgenommen – mit dem Resultat, dass Griechenland nach wie vor vom Markt ausgeschlossen ist. Wichtiger als die Schuldenfrage ist heute ­allerdings, welche Massnahmen die griechische Regierung umsetzen muss und wie viel Spielraum sie erhält, um die Wirtschaft wieder in Gang zu bringen.

Braucht es eine Gesamtlösung für die Staatsschulden in Europa?
Die Schulden lasten deutlich auf dem Wachstum – nicht nur in Griechenland, sondern auch in Italien und Frankreich. Ein «wohlwollender Diktator» würde in dieser Situation wohl die Verschuldung in einer einmaligen Operation unter ­Einbezug aller europäischen Länder ­reduzieren. Danach würde das System der Staatsfinanzen reformiert. Dieses müsste so ausgestaltet werden, dass Länder automatisch stärker bestraft werden, wenn sie die Stabilitätskriterien in normalen Zeiten missachten.

Solche Ideen stehen aber nicht auf der Agenda.
Grund dafür ist auch die lockere Geldpolitik. Der Druck für grundlegende Reformen des Eurosystems ist angesichts der Tiefzinsen nicht gegeben – leider. Denn die Verwundbarkeit mancher ­Staaten bleibt gross.

Sind die jüngsten Wachstumszahlen in der Eurozone kein Anlass zum Optimismus?
Die aktuellen Daten zeigen tatsächlich positive Entwicklungen an. Die Fortschritte, die im vierten Quartal 2014 gemacht wurden, schreiben sich im ersten Quartal 2015 fort. Eine Wachstumsprognose von 1 bis 1,5 Prozent für die Eurozone scheint vernünftig. Nicht nur Deutschland, sondern auch Länder wie Italien, wo die letzten zwei Jahre besonders schlecht waren, sind derzeit im Aufwind.

Wie nachhaltig ist der Aufschwung?
Das Wirtschaftswachstum schlägt sich nicht auf dem Arbeitsmarkt nieder. Stimmen die jüngsten Prognosen der EZB, dann sinkt die Arbeitslosenquote auch im Jahr 2017 noch nicht unter 10 Prozent, obwohl die Inflation dannzumal wieder beim Zielwert von 2 Prozent liegen soll. Das ist sehr schlecht.

Woran liegt diese Diskrepanz?
Es gibt immer wieder Wachstumsphasen der Wirtschaft, ohne dass sich dies auf dem Arbeitsmarkt bemerkbar macht. Man kennt diese Situation aus den USA, derzeit beobachtet man sie in Europa. Es wären zwar offene Stellen vorhanden, doch die Arbeitslosen haben nicht die richtigen Kenntnisse und Fähigkeiten dafür. Meine grosse Befürchtung ist, dass viele der früheren Vollbeschäftigten nun auf dem Abstellgleis landen.

Dennoch ist die Nachfrage in Europa in der Krise massiv eingebrochen. Dass Arbeitslose jetzt kaum mehr zu vermitteln sind, liegt doch auch daran, dass sie lange keinen Job mehr hatten. 
Die Arbeitslosigkeit stieg zum Krisenbeginn im Jahr 2008 nicht an, anders als in den USA. Bis 2010 war die europäische Wirtschaft relativ stark. Dann schoss die Arbeitslosigkeit hoch, es kam zu einer zweiten Rezession. Viele der damals Betroffenen blieb lange – mehr als ein Jahr – arbeitslos. So wiederholt sich heute ein Phänomen aus den 1980er-Jahren. Damals war die strukturelle Arbeitslosigkeit bereits gross, jetzt steigt sie erneut.

Einige Ökonomen kritisieren die Europäische Zentralbank (EZB) und die Sparpolitik der Regierungen.
Die EZB hat zeitweilig zu konservativ agiert. Auch die Sparpolitik der Regierungen war für viele Länder sehr kostspielig. Doch am eigentlichen Ursprung der Probleme liegen mangelhafte Institutionen der Eurozone. 2008 waren die Möglichkeiten für eine angemessene Wirtschaftspolitik in der Eurozone nicht robust genug, um mit einer schweren Krise wie damals umzugehen. Wir haben zum Beispiel das Problem, dass viele Banken nicht nur zu gross sind, um gerettet zu werden, sondern auch grösser als die Finanzkraft ihrer Heimatländer. Deshalb hatten wir vor allem 2011 und 2012 eine Kreditknappheit, wie sie die USA nicht erlebt haben. Man schob die Anpassungen im Bankensektor auf, weil es noch keine Bankenunion gab.

Wie stabil ist die Gesamtsituation der Eurozone Ihrer Ansicht nach?
Seit dem Höhepunkt der Krise ist man zweifellos weitergekommen. Heute existiert eine Bankenunion, eine gemeinsame Bankenaufsicht, ein permanenter Rettungsschirm. Doch die Schutzmechanismen reichen nach wie vor nicht. Es fehlt eine bessere Verteilung der Risiken, wenn einzelne Länder in eine Krise geraten: Es gibt noch immer Banken, ­deren Heimatländer mit überfordert ­wären, wenn sie diese retten müssten. Zudem sind die Kosten der hohen ­Arbeitslosigkeit enorm. Die Eurozone ist nicht so robust, wie sie sein sollte. Vor allem aber hat die Glaubwürdigkeit des ganzen europäischen Projekts dadurch grossen Schaden erlitten.

Sie sprechen die politische Dimension der Eurokrise an.
Leider sehe ich keinen politischen Willen, die Probleme auf europäischer Ebene anzugehen. Der Nationalismus ist so ausgeprägt wie nie seit der Schaffung der Währungsunion. Es ist schwer vorstellbar, dass die Wähler proeuropäisch eingestellt bleiben, wenn sich die strukturelle Arbeitslosigkeit über eine sehr lange Zeit auf 10 Prozent beläuft. Der Support für Brüssel wird rapide schwinden, sollte sich daran nichts ändern. Offen gesagt bin ich nicht besonders optimistisch, was die politische Stabilität in Europa betrifft.

Denken Sie hier auch an Ihr Heimatland Italien?
Die italienische Politik ist im Moment vergleichsweise stabil. Die Regierung ist stark, die Opposition fragmentiert. Trotzdem sind die Herausforderungen riesig. Grosse Bevölkerungsteile haben sich vom politischen System entfremdet. Armut, Arbeitslosigkeit und regionale Unterschiede bleiben gross. Und dem Staat fehlt – trotz des aktuellen, leichten Wirtschaftswachstums – das Geld, um etwas dagegen zu tun. Das einzige Mittel, das bleibt, ist die Flexibilisierung des Arbeitsmarkts. Doch diese Politik hilft nur langfristig. Unmittelbar erzeugt sie sogar zusätzliche Arbeits­losigkeit.

Was raten Sie den europäischen Politikern?
Man müsste langfristige Projekte in Angriff nehmen. Sinnvoll wäre die Schaffung einer gemeinsamen Arbeitslosenversicherung für die gesamte Währungsunion. Sie wäre auch symbolisch ein wichtiges Zeichen dafür, dass man nicht nur den Banken, sondern auch der breiten Bevölkerung hilft. Doch ich bin skeptisch, dass auf dieser Ebene tatsächlich etwas passiert.

Wie beurteilen Sie die jüngsten Geldspritzen durch Anleihenkäufe der EZB – das sogenannte Quantitative Easing?
Insgesamt ist das Quantitative Easing ­sicher nützlich. Bereits dessen Ankündigung hat einiges bewirkt. Der Euro hat sich abgewertet. Die Anleihenkäufe werden aber keine Wunder bei der Inflation bewirken, die aktuell weit unter dem Ziel der Notenbank von 2 Prozent liegt. Doch diese Politik ist nur eines von mehreren Puzzleteilen und beseitigt die strukturellen Schwächen nicht.

Was sind die anderen Teile?
Die Bankenunion, eine bessere Risikoteilung im Bereich der Staatsfinanzen mit Auflagen, ein sozialeres Europa.

Welche Lehren muss die Schweiz aus der Eurokrise ziehen?
Die Schweiz ist ein gutes Beispiel für die Schwierigkeiten, die kleine Länder in der globalisierten Wirtschaftswelt haben können. Die Erfahrung der Schweiz sollte vor allem den Menschen in Europa zu denken geben – jenen, die glauben, ausserhalb der Währungsunion wäre es besser. Sie sollten sich die hohen Schwankungen beim Wechselkurs vor Augen führen, mit denen die Schweiz derzeit beispielsweise umgehen muss.

Ist es richtig, dass die Nationalbank der Schweiz den Mindestkurs aufgegeben hat?
Der Entscheid ist nachvollziehbar, obwohl manche Wirtschaftsteilnehmer darunter leiden. Die Nationalbank hatte wohl gar keine andere Wahl. Wer gleichzeitig ­offene Kapitalmärkte haben und eine ­eigene Geldpolitik führen will, muss solche Schwankungen manchmal in Kauf nehmen. Wenn das Umfeld schwierig ist, kann eine kleine Volkswirtschaft da nicht viel machen.

Soll denn die Schweiz dem Euro beitreten?
Hätte die Eurozone in den letzten Jahren nicht ihre Glaubwürdigkeit verloren, so wäre das gar keine schlechte Idee. Zumal sich die Flexibilität, welche die eigene Währung verspricht, in extremen Situationen wie jetzt als Illusion erweist. Sollte die Währungsunion dereinst mit den richtigen Institutionen vollendet werden, so würde ein Beitritt auch für Länder wie die Schweiz oder Gross­britannien Sinn machen.(Tages-Anzeiger)

Erstellt: 04.04.2015, 08:56 Uhr

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