di Lia Sellitto – 29 agosto 2017
Spesso mi sono imbattuta in quelle che Carl Gustav Jung definisce: “Sincronie”. E, “Diamo parole al dolore” che da qualche giorno mi ballava nella mente…proprio nel giorno della morte di Cesare Pavese… ne è la prova. (prima sincronia) Ancora, Pavese ha nutrito la mia adolescenza… (seconda sincronia). Gian Franco Ferraris riferisce … “nel diario di Bianca, che praticò la psicoanalisi junghiana, si trova questo ricordo”: «Ho scritto, su queste pagine, che Pavese si è suicidato? (…). Pavese, sciocco, non potevi farti aiutare? Io forse, adesso, ti potevo aiutare». (terza “sincronia”)
“Diamo parole al dolore…”
Quando non possiamo penetrare il mistero dell’essere umano, perché tale rimane, dobbiamo rispettare colui che decide di non continuare la propria esistenza sulla terra e di “andare via da questo mondo”. Ciononostante abbiamo il dovere di non restare in silenzio e interrogarci, perché la nostra mente è fatta anche per non smettere mai di tentare di capire.
“Come negare- scriveva Francesco Saverio Festa (Professore del Dipartimento di Scienze del Patrimonio Culturale, università di Fisciano, Salerno) sulle pagine de “Il Mattino” di Napoli qualche anno fa, -che in un tempo che s’allunga in modo inusitato, s’avanza il nodo di una forte ripresa di soggettività e consapevolezza umana che induce anche a poter scegliere di non vivere più”?
Tutto vero. Scegliere, però, ecco il punto. Siamo proprio sicuri che una scelta guidi sempre i nostri gesti, che anche un gesto, estremo, come il suicidio, sia dettato in molti casi da una scelta? Immagino che dietro questa parola aleggi il concetto di libertà e di responsabilità, eppure quando penso alle parole dolenti che ho sentito tante volte dai pazienti: “Se potessi vivere in modo meno doloroso sceglierei la vita, non la morte”. Capisco che la morte, a chi soffre, se non ha dato parole a questa sofferenza, appare, paradossalmente, meno straziante della vita.
Ma se diamo parole al dolore, come aveva già intuito secoli fa William Shakespeare nel Macbeth: “Date al dolore la parola; il dolore che non parla, sussurra al cuore oppresso e gli dice di spezzarsi”. Ma se diamo a noi stessi la possibilità di nominarlo, rintracciandolo negli accadimenti, nelle aspettative deluse, nelle incomprensioni, nelle perdite, nelle sottrazioni di cui ogni umano vivere è costellato, ricercando le ragioni più intime di un malessere, attraversandolo fino in fondo, affrontando un viaggio dentro di noi, possiamo sperare di stemperarlo, lenirlo, superarlo.
“Quanto devo piangere prima di riuscire a liberarmi della mia tristezza? Mi sembra di aver già pianto a lungo”.” La mia risposta-dice Alexander Lowen, padre della Bioenergetica -è che non ha importanza la durata del pianto, ma la sua intensità, che deve portare a toccare il fondo del pozzo, del pozzo del ventre. Quando l’onda convulsiva dei singhiozzi si estende alla base del bacino provoca l’apertura di una botola e la persona emerge alla felicità”
Invece l’impossibilità di dare parole o comunicare ad altri il proprio malessere, la propria angoscia, immaginando che nulla possano fare per noi, per la nostra disperazione, rabbia e solitudine, né che si debba chiedere aiuto per qualcosa di così intimo, personale, né si abbia diritto ad essere fragili o che le nostre vicende non riguardino gli altri, ci impedisce di trovare soluzioni.
Luigi Cancrini con il suo “Date parole al dolore”, libro/ intervista sulla sofferenza mentale e la depressione, squarcia il velo e grida una verità “sul male dell’anima” di questa fine millennio: “Ciò che una volta si chiamava tristezza, nostalgia, malinconia, oggi si chiama “depressione” allo stesso modo si chiama depressione quel dolore feroce che paralizza e annienta, toglie il sonno e l’appetito , o, al contrario fa dormire o mangiare senza tregua, quella sofferenza che guasta e consuma la voglia di vivere, il tutto in una grande confusione clinica e culturale.”
Così, un sintomo dell’umano soffrire, cifra dell’esistenza da cui il dolore non si può espungere, pena mutilare una parte viva di noi stessi, diventa “malattia” da curare con farmaci.
“Posso aiutarti, ma non posso guarirti dalla vita” rispondeva una straordinaria psicoterapeuta a una paziente che le chiedeva di toglierle il suo “sentire”.
Uomo/macchina è il rischio grande che corre l’uomo del nostro tempo. L’“umano” di cui come un odioso fardello ingombrante e inutile, improduttivo, vorremmo liberarci. E non capiamo che è proprio lì da ricercare la radice, il bandolo della matassa, nel corpo che patisce ciò che una mente inconsapevolmente elabora e di una mente che ha smesso di cogliere i segni e i segnali che un corpo manda. Due abitanti di uno stesso territorio separati in casa.
Come si cura questa infelicità? Sempre Cancrini: “Il più delle volte non si indaga sulle cause “oscure” della sofferenza, si finisce per convincere il paziente che la sua è solo una “malattia” esterna sulla quale egli non può nulla, può solo cercare di tenerla lontana con quelle pillole blu o rosse o verdi. Si grida alla depressione ma la cura è il silenzio”.
Invece, riconoscere che siamo unità di mente e corpo e nei pensieri e nelle emozioni ricercare il senso di quanto accade nella nostra vita, quello che ci sembra distante, messo fuori di noi, in una scissione pericolosa, che non collega il prima e il dopo, l’accaduto ieri con quello di oggi e con quello che da qui accadrà domani, è la strada.
E se pure siamo “ammalati” nell’anima e abbiamo perso i fili che ci orientano nel labirinto che è diventata la nostra vita, possiamo ritrovarli quei fili. Dentro di noi, non fuori di noi si gioca la partita, non è medicalizzando, consegnando ad altri la cura di noi stessi ma riprendendo in mano la nostra vita, certo accompagnati nel cammino da un altro che si fa “presenza”, che ci sta accanto in questa discesa agli inferi, ma non si sostituisce a noi, né finisce per convincerci che la nostra è solo una “malattia” esterna, e la tiene sedata con un po’ di quelle pillole colorate.
“Dottore, sono malata da molto tempo. Sono scappata da una clinica per venire da lei. Non ce la faccio più a vivere”. E lui per sette lunghi anni ascolta le sue parole con la sapiente coscienza del silenzio, che interrompe a tratti, con la domanda giusta al momento giusto. E, a poco a poco, la parola “diventa viva”.
E’ quello che racconta nel libro,” Le parole per dirlo”, Marie Cardinal. Ci porta insieme a lei lungo il vicolo che per sette anni, ha percorso fino in fondo, fino al cancello di sinistra da “quell’ ometto”.
Il dolore è profondo e lacerante, ma solo attraversandolo si arriva alla consapevolezza e alla “ri-nascita”. Non ci sono scorciatoie. Per nessuno.