Fonte: Minima Cardiniana
“Quando il gioco si fa duro, i duri cominciano a giocare”. Non so se è vero in quanto ho sempre avuto pochissimo tempo per giocare e da tempo non pratico più neppure l’unico gioco che davvero mi piacesse, gli scacchi. Inoltre, non sono e non sono mai stato un “duro”. Vi sono però momenti nei quali il gioco si fa pesante: e allora, lo si voglia o no, bisogna accettare la sfida. Spero di non trovarmi ancora, ameno per il momento, in una condizione del genere. E allora mi limito a far mia una variante della massima dalla quale ho avviato il discorso: “Quando il gioco si fa serio, le persone serie cominciano a giocare come tali”.
Eh, sì. Perché si può anche giocare con allegria e leggerezza. D’altronde, sono stati Giovanni Pascoli e il grande Johan Huizinga (in Homo ludens) a ricordarcelo: il gioco può essere “serio al pari di un lavoro”, e perfino di più.
Qualche settimana fa, credevo che fosse lieve e amichevole il “gioco” – se e nella misura in cui tale si annunziava – al quale m’invitava dalle colonne del suo (e mio: ne sono sostenitore e, sia pur saltuariamente, collaboratore) “Diorama letterario” recensendo, nel n. 348 della sua bella rivista, il mio L’Islam è una minaccia? Falso! (Laterza). Gli risposi appunto da questa stessa sede, dai Minima Cardiniana, con una replica che – nelle mie intenzioni, che confermo come assolutamente oneste e, almeno nella forma, scherzose (ma nella sostanza non risentite né aggressive: o che appunto quanto meno tali non volevano essere) – era diretta a chiarire alcuni malintesi e a proseguire un dialogo che si profilava interessante. In pratica, la mia replica era del genere di quella che nel film Brancaleone alle crociate Boemondo “re di Sicilia” (nel costume di scena del Re di Picche delle carte da Poker)[1]indirizza all’emiro saraceno signore di Gerusalemme che lo sfida: “Cosa credi, mi ritiru? – Tu m’inviti a nozze, emiru!”.
Insomma, un incontro al fioretto. Mi sbagliavo. L’amico Marco, ch’è persona seria fino (lo dicono in molti: io mi limito a constatarlo) alla seriosità, aveva intenzioni più decise. Bene. Io francamente disdegno la sciabola, arma indegna d’un cavaliere. Ma accetto volentieri di misurarmi con lui e/o con i suoi collaboratori alla spada, arma nobile e reale. Non è che non gioco più. Si tratta di un duello sportivo, non di una tenzone all’ultimo sangue. Ma, dal momento che le mie intenzioni sono state fraintese, preferisco abbandonare il terreno della pura ludicità.
Sul n. 349 di “Diorama letterario” la “Polemica” che Marco Tarchi mi dedica (Cose minime, p. 40) si presenta come insolitamente – e a mio forse errato comunque sincero avviso – aspra e a dirla tutta sgradevole. Dico subito che mi meraviglia fino a un certo punto e che non gliene voglio affatto: Marco, ch’è lo studioso valorosissimo e l’uomo probo che conosciamo, è persona senza dubbio molto intelligente ma – anche qui accolgo e rilancio un parere comune di amici che pur lo amano e lo stimano – non particolarmente dotato di humour. Il che è una qualità – non certo un “vizio”: ma nemmeno necessariamente una “virtù” – che viceversa, a me, viene riconosciuta come abbondante e a volte persino eccessiva. Questo squilibrio tra un portato eccessivo e uno difettoso della stessa qualità può comportare, in caso di confronto, qualche sgradevole effetto. E forse siamo qui dinanzi a un esempio del genere.
Secondo Marco, dunque, “a Cardini non è piaciuta affatto la recensione critica che il sottoscritto gli ha dedicato”. Non direi che le cose stiano così. “Diciamo pure che lo ha fatto uscire dai… càrdini”. Dài, Marco, così è troppo facile! In realtà è dalla scuola elementare che sono tormentato dal giochino di parole càrdini-cardìni: ma non è questo il punto. Riconosco di essere, come sono stato definito da una tizia che mi faceva l’oroscopo, un “gioviale-iracondo”. Non mi sono mai granché riconosciuto nel primo di tali due aggettivi: è vero che posso sembrare friendlye perfino socievole, anzi estroverso, a chi mi conosce poco e da poco, mentre in realtà sono un timido e introverso che talora si finge titolare di apparenti qualità opposte, per un noto meccanismo d’inversione (nel quadro di ciò si colloca anche quella “incontinenza verbale” che Tarchi mi rimprovera, ma che riguarda solo le circostanze pubbliche: in privato soffro del vizio opposto). Sono invece davvero, e lo ammetto senza speciale dispiacere, un iracondo. Nell’episodio televisivo che Tarchi rammenta imputandomi un’effettiva violenza verbale e comportamentale (non fisica, beninteso), in effetti lo fui: per quanto a scatenarmi durante un dibattito a “Porta a Porta” fu un Gianni Baget Bozzo in quell’occasione particolarmente insopportabile. Potrei citare molti altri casi analoghi (ma quello che fece per molte settimane la fortuna di “Blob” fu il risultato di un’altra occasione, un mio esplosivo “Vaffanculo” platealmente espresso nel luglio del ’94 dinanzi ai dipendenti RAI riuniti in assemblea che, dopo avermi invitato a un dibattito, schiamazzavano con l’intento evidente d’impedirmi di prendere la parola). Ma la mia ira caratteriale mai si accompagna a rancore o a permalosità durevole: un difetto, questo, che tenderei purtroppo – e spero me ne perdoni – proprio a Tarchi. E, confrontando le nostre rispettive indoli, sono del tutto certo che i molti che ci conoscono entrambi (e fra i lettori di “Diorama” ne abbondano) imputeranno piuttosto a lui le caratteristiche di ombrosità ch’egli mi attribuisce. In effetti, ribadisco ch’egli è pedante e permaloso: il che non significa che non abbia molti, evidenti e apprezzabilissimi pregi che sono disposto a riconoscergli e che volentieri gli ho sempre riconosciuto.
Ma qui, nelle sue Cose minime, di granchi ne ha presi davvero troppi. Glissons sul fatto che nel suo testo manchino del tutto, com’egli afferma, “insulti e contumelie”; e ch’egli mi addebiti il fatto di avergli attribuito “un sospetto di disonestà intellettuale”. Gli insulti c’erano eccome, dissimulati quanto si voglia ma nemmeno troppo. Quanto ad averlo sospettato di disonestà intellettuale, è cosa che nego con forza: tuttavia, se ho involontariamente scritto qualcosa che possa averlo indotto a ciò, ne me scuso con molta umiltà e sincerità. Detesto la disonestà intellettuale e non sono amico di nessuno che ne sia portatore: in lui non l’ho mai sospettata. Che poi certi suoi atteggiamenti o pareri siano così bizzarri da poter a ciò indurre chi non lo conosca, può darsi. Per esempio, che nella mia replica io sfogassi irritazione per critiche nei miei confronti che mi sarebbero parsi “atti di lesa maestà” è affermazione talmente sconcertante – visto che mi conosce benissimo – che, se non provenisse da lui, farebbe davvero sospettare disonestà intellettuale. Chi mi conosce bene quanto e più di lui sa perfettamente che se c’è un difetto di cui sono immune è la boria tanto frequente tra molti miei accademici colleghi. Io sono del tutto esente dalla, diciamo così, “pallonegonfiatite”: da quella acuta come da quella cronica. Di superbia, forse, ne ho fin troppa: ma dalla suscettibilità che dipende dalla supposizione di credersi un Padreterno e da ritenere in quanto tale una bestemmia qualunque critica direttami, da ciò sono lontanissimo. E ne chiamo appunto a testimone chiunque mi conosca.
Al contrario, le critiche serie e fondate m’interessano molto: sono sempre grato a chi le formula. Proprio per questo gli contesto di aver mai pensato che L’Islam è una minaccia? Falso! fosse “un saggio attentamente pensato e corredato delle fonti necessarie”. Ho semplicemente sostenuto che, nonostante il suo carattere “pamphlettistico” derivante dal sottogenere letterario-editoriale della collana nella quale era uscito, esso derivava da una quantità di altri saggi, alcuni a carattere pubblicistico ma altri invece di più rigoroso argomento, nei quali le mie affermazioni erano fondate. Adesso, a distanza di alcuni anni, Tarchi se ne esce con l’affermazione che anche un altro libro, Astrea e i Titani, al quale io mi sarei comportato “autoassegnandosi bei voti” (Quando mai? Cose del genere non ne ho mai fatte) e che ora gli appare pieno di cose “non meno discutibili”. Proprio questo voglio: e lo pretendo adesso soprattutto appunto per Astrea e i Titani,libretto non strettamente scientifico ma certo neanche propriamente “divulgativo” e per giunta uscito, diciamo così, a corredo di quel La paura e l’arroganza che a suo tempo scrivemmo appunto Tarchi, io ed altri e che era autenticamente “fuori dal coro” (e come tale dette parecchia noia ai professionisti del Pensiero Unico).
Insomma, caro Marco, questa mia sfida (perché di sfida si tratta: e hai cominciato tu) è dannatamente, straordinariamente seria. Ed eccone limiti e contenuti. Dici che “anche con gli amici di lunga data le strade ad un certo punto possono divaricarsi. Ed occorre prenderne atto”. D’accordo: ma, ti replico, in che senso? Non certo sul piano dell’amicizia: quella per quanto mi riguarda resta salda e profonda: e si basa su cose che con la divergenza di idee e di argomenti non hanno nulla a che fare. Per me tu resti un caro e vecchio amico: a tuo proposito io sono convinto della reciprocità che però – sia chiaro – se anche non ci fosse dal canto mio non cambierebbe nulla. L’argomento della reciprocità, così unanimemente rispettato, in effetti è talora un po’ grottesco. Io sono, resto e voglio restare un uomo libero: e se tu dichiarassi di non essermi più amico replicherei dal canto mio che la cosa non m’interessa in quanto, da uomo libero, io voglio restarti anche unilateralmente tale.
Ma la materia del contendere, mio caro, non è affatto questa. Essa sta nella forma e nella sostanza delle tue “poche noterelle”, come le ho chiamate io, e nella “bazzecola di 207 righe”, come hai replicato di avere scritto tu. 207 righe sono più di dieci cartelle a macchina formato 2000 battute, come le si computavano nei vecchi beati tempi preinformatici. Beh, mi dispiace, ma tu 10 cartelle spazio 2000 battute di critiche al mio chiamiamolo pure pamphlet non le hai mai scritte, e quelle che hai scritto erano di gran lunga più generiche (altro che “l’abusato sfoggio di luoghi comuni” che mi rimproveri!) degli argomenti che m’imputavi. Ora ti sfido a esplicitarli bene: specie là dove sostengo la pluralità dei modi di essere musulmano, e la molteplicità e varietà dei modi di esserlo che non solo non sono pericolosi per la nostra civiltà (salvo per gli aspetti di essa che tu ed io, in modo sia pur diverso, abbiamo fino ad oggi ritenuto deteriori), ma che stanno in legittimo confronto con essa; e già che ci siamo, magari, torniamo un istante sulla bufala dei “cinquanta milioni di africani” che sarebbero pronti ad “invadere l’Europa”, frutto di un esilarante giochetto metodologico-statistico che tu mostri di prendere sul serio.
Avrei quindi commesso tanti errori, avrei sostenuto tante sciocchezze, starei davvero trasformandomi così rapidamente e totalmente dal magari mediocre ma comunque passabile dottor Jekyll studioso che ero in un grottesco, intollerabile mister Hyde polemista tuttologo capace solo di “interventi stonati e tendenti al politicamente corretto”? Senza ipocrisia, dici tu. Senza ipocrisia, replico io confermando la sfida. Come disse Quello in pieno parlamento, in quell’ormai lontano 3 gennaio 1925: “fuori la corda”. Mi s’impicchi alla forca del mio comprovato delitto di lesa verità storica.
Ed estendo la sfida a te rivolta anche ad altri tuoi peraltro eccellenti collaboratori, per i quali ho grande simpatìa e ai quali confermo tutta la mia stima e anche la gratitudine per quanto da loro, sulle colonne di “Diorama” e altrove, ho appreso. Ringrazio ad esempio il bravissimo Giuseppe Giaccio per la sua attenta lettura di un altro libretto che mi è molto caro, Gesù, la falce, il martello. Riconosco lealmente – l’ho già detto rispondendo a Tarchi: ho coscienza di essere un temperamento iracondo – l’eccessiva violenza di certi miei attacchi e, per quanto non riesca né a pentirmene né a vergognarmene, non ne vado certo fiero. Ma, nel contesto di molte osservazioni di Giaccio che mi trovano consenziente così com’egli si dichiara su più punti consenziente rispetto alle mie, debbo rilevare che a proposito di Fuga in Europa di Stephen Smith, libro a mio avviso trattato dagli amici di “Diorama” con molta più considerazione di quanta non ne meriterebbe, il discorso condotto sulla falsariga dei dati forniti dalla Banca Africana di Sviluppo è particolarmente indecoroso oltre che grottesco. Ancora una volta non si tratta di dati statistici, con il necessario corollario della nota critica trilussiana alla statistica (la famosa boutade su chi mangia un pollo e chi non mangia nulla, secondo la quale si può dimostrare che i due hanno mangiato mezzo pollo a testa). Quelli che vengono o che vogliono venire da noi a vivere e a lavorare (o magari a vivere sia pur senza bisogno di esercitare mestieri degni e legittimi) non sarebbero, secondo Smith e secondo quella Banca (e secondo Giaccio, par di capire) “dei disgraziati”, bensì una sorta di rappresentanti di una middle class africana che possiede o comunque è in grado di provvedersi dei mezzi (per il suo ambiente ingenti) necessari a pagarsi un pericoloso viaggio perché – scrive con efficacia Smith –, accecati da modelli avvicinati in TV o con i mezzi informatici, “vogliono vivere come i bianchi”. Ma, se ciò è anche lontanamente vero, siamo in una situazione ancora peggiore di quella che può apparire ai “buonisti” fautori del soccorso a tutti i costi. Perché – dati di elementare e irrinunziabile dovere umanitario, costi quello che costi e senza fare sconti a nessuno – il punto è che se da noi arrivassero davvero gli ultimi della terra saremmo quanto meno in grado di apprezzare il livello di una situazione inaccettabile e insostenibile. Però, se quelli che arrivano da noi sono non i peggiori disperati, bensì spesso gli appartenenti a una furbastra e quasi semiagiata middle class, allora abbiamo dinanzi ai nostri occhi lo spettacolo orribile, tremendo, irrimediabile di un continente davvero allo stremo. Da noi la middle class, con tutti i suoi limiti socioeconomici e culturali e tutto il suo non ingiustificato timore di proletarizzarsi, resta pur sempre uno strato sociale dotato di un’essenziale sovranità e comunque dignità alimentare e comportamentale. Ora, la stragrande maggioranza di questa magari disperata comunque intraprendente middle class africana sta di gran lunga peggio, incommensurabilmente peggio, del nostro Lumpenproletariat urbano. E allora, che senso ha rilevare la loro condizione miserabile relativamente migliore di quella di tanti che lasciano al loro paese? Non è essa stessa di per sé obiettivamente intollerabile?
E allora tutto si riduce all’ultimo periodo della recensione di Giaccio. La necessità di procedere a una ridistribuzione delle risorse economiche è una necessità obiettiva se vogliamo evitare a noi stessi il peggio. Non si tratta né di “ingenuità” mia né di “inapplicabilità” obiettiva. Lo so bene anch’io che “le leadershipsdei paesi occidentali hanno già fatto sapere che non intendono rinunciare a un bel niente, che il loro tenore di vita non è negoziabile”. Sarei appunto un ingenuo, se da esse mi aspettassi qualcosa. Io mi limito a dire che questo stato di cose, questa loro indisponibilità, debbono essere da ora in poi sempre più insistentemente e concretamente denunziate perché non si tratta di persuaderle a cambiare idea, si tratta di obbligarcele o di liberarci di loro. Che è un progetto non “ingenuo”, bensì rivoluzionario e magari utopistico: però necessario a evitare mali peggiori, in quanto il loro egoismo e la loro miopia ci conducono inevitabilmente verso il peggio.
Continuiamo dunque, cari amici di “Diorama letterario”, questo confronto. Precisiamolo, articoliamolo, approfondiamolo. Dal momento che fino a dicembre non avrò più disponibile la tribuna dei Minima Cardiniana, in caso di altri vostri interventi nei miei confronti vi chiederò di poter replicare appunto sulla vostra rivista, della quale sono peraltro collaboratore e fiancheggiatore. Lasciamo perdere gli spunti polemici e magari anche il sarcasmo e le contumelie (non semmai l’ironia, che è sempre necessaria). Le polemiche possono anche esser divertenti e qua e là cogliere nel segno, ma fanno perder tempo. Chiedo pertanto a Tarchi scusa delle mie intemperanze e gli perdono volentieri le sue. Certo che si tratta di verificare le divergenze, magari le divaricazioni. Ma si tratta di farlo serenamente e realisticamente: questa rimane una necessità insopprimibile.
Perché una cosa dev’essere chiara. E qui torno a rivolgermi al collega Marco Tarchi come al mio vecchio amico Marco, con il quale mi fa piacere discutere anche se ciò può talvolta equivalere ad accapigliarci. Vedi Marco, il punto non è affatto (e se pensi diversamente t’invito a ricrederti) che io sia una specie di studioso stanco di studiare, che un po’ per vanità un po’ per curiosità abbia deciso di darmi alla tuttologia. Le ragioni della mia “mutazione”, se c’è stata, le abbiamo vissute insieme, dal lontano meeting di Cison di Valmarino del 1981 al fatale 11 settembre 2011 e altre. Sono le ragioni della lotta contro gli aspetti più letali della globalizzazione, contro il prepotere delle lobbies multinazionali e del Pensiero Unico massificato.
Mi occupo di relazioni tra Europa e Oriente musulmano fino dagli Anni Sessanta, quando preparavo la tesi di laurea. Non sono mai divenuto né un arabista, né un orientalista, né un islamologo, ma ho accumulato un certo capitale di esperienze e di competenze al riguardo. L’indirizzo assunto dalla Modernità con il dilagare dell’individualismo e l’eclisse della civiltà comunitaria, con il primato dell’economia e della tecnologia, con l’eclisse del Sacro e il tramonto della politica, mi aveva indotto ad avvicinarmi una quarantina di anni fa a un gruppo di giovani che avevano l’aria di condividere il mio bonum certamen: non l’ho mai né dimenticato, né rinnegato. La preoccupazione per gli esiti delle istanzeneocons affiorate dopo il Nine Eleventh e in apparente conseguenza di esso, con il desolante panorama del contesto affiorante attorno alla War on Terror e l’evidenza della complicità tra le prospettive del fondamentalismo occidentalista e di quello islamico, mi hanno indotto a procedere in un’indagine contemporaneistica difficile, segnata da una difficoltà effettiva di gestire gli strumenti euristici non meno di quelli metodologici, su un sentiero disseminato dalle trappole delle disinformazione e della controinformazione. Per me, non c’è mai stata soluzione di continuità e tantomeno dicotomia o separazione schizofrenica tra professione di studioso, interessi pubblicistici e testimonianza civica: da qui, forse, gli inevitabili errori e le troppe lacune, esiti entrambi di uno sforzo continuo d’informazione e d’interpretazione. Non ho alcuna intenzione di vantare una “carriera di divulgatore parallela a quella dello storico”: ho ritenuto e continuo a ritenere che l’impegno di uno studioso che sia anche un cittadino possa proceder affiancando alla ricerca storica anche un’attività forzatamente diversa sul piano della qualificazione scientifica ma a sua volta eticamente necessaria. La ricerca della verità, nella coscienza che quella storica non coincide con quella assoluta e che quest’ultima è comunque inconoscibile, si può condurre con strumenti metodologicamente differenti e a un diverso grado di approssimazione: e con la sempre viva e vigile coscienza della sua imperfezione, quindi della sua perfettibilità. Ecco perché la tua rigorosa indagine inquisitoriale sulla qualità del mio lavoro come “divulgatore”-pubblicista, che tu hai l’aria di pronunziare come una minaccia, è per me una promessa che ti prego di mantenere. E, ça va de soi, una sfida: dal momento che sarò, come sai anche se forse non hai adesso voglia di ammetterlo, interlocutore equo e umile, ma non passivo.
[1]In realtà, rispetto al film di Monicelli, Boemondo d’Altavilla figlio primogenito di Roberto il Guiscardo e dal 1098 principe “crociato” di Antiochia, più tardi impropriamente denominato “di Taranto” e sepolto nel duomo di Canosa, non fu mai re, per quanto alla corona gerosolimitana finisse per dichiararsi pretendente in concorrenza con Baldovino di Boulogne.