di Pino Sansò – 3 luglio 2017
Un gran numero di persone, dopo cento lanci di una moneta con esito “croce”, scommetterebbe con sicurezza su “testa” al lancio successivo, certo della evidente maggiore possibilità di questo evento.
Sono convinto del fatto che, in analoga misura, la maggior parte delle persone interrogate sulla consistenza di se stesse manifesterebbe l’opinione di avere il merito del proprio essere, della sua costruzione nel tempo. Un gran numero di persone è convinta di aver raggiunto una forma di personalità, “intelligenza”, dote intellettuale e critica e culturale (senza contare il benessere economico, la posizione sociale, un rango gerarchico) grazie alle proprie forze, alla propria forza costruttiva, alla propria iniziativa. Indipendentemente dalla nascita, dal censo, dall’ambiente sociale e scolastico e culturale che avessero fatto da alveo a questo stesso sviluppo.
Moltissime persone sono convinte, sinceramente, di queste circostanze aleatorie ed esistenziali.
Mi è difficile, per impreparazione, filosofeggiare su questa realtà. Ma più occasioni recenti mi hanno permesso, hanno permesso a me, per me, di chiarirmi qualche idea. Mi hanno indotto a cercare chiarezza.
La prima è stata l’affermazione pubblica della presidente regionale e deputata e dirigente Debora S. a proposito di un episodio di cronaca triestina. Afferma, la persona: “La violenza sessuale è un atto odioso e schifoso sempre, ma risulta socialmente e moralmente ancor più inaccettabile quando è compiuto da chi chiede e ottiene accoglienza nel nostro Paese. In casi come questi riesco a capire il senso di rigetto che si può provare verso individui che commettono crimini così sordidi. Sono convinta che l’obbligo dell’accoglienza umanitaria non possa essere disgiunto da un altrettanto obbligatorio senso di giustizia, da esercitare contro chi rompe un patto di accoglienza. Per quanto mi riguarda, gesti come questo devono prevedere l’espulsione dal nostro Paese, ovviamente dopo assolta la pena. Se c’è un problema di legislazione carente in merito bisogna rimediare”
La sostanza del discorso è che un “atto odioso e schifoso” compiuto da un nativo -un italiano- e quello compiuto da un ospite accolto non hanno lo stesso valore (in negativo). Quello compiuto da uno straniero è più inaccettabile. Come dire che l’essere nati in questo Paese, in un Paese, rende meno riprovevole (non oso dire meno accettabile) il fattaccio. Cioè che non essere straniero pone al riparo da un ulteriore provvedimento. Dunque c’è uno scarto di merito tra chi è nativo e chi è ospite.
La conclusione è che essere nati nel Paese in cui si vive è un merito.
Mi è tornata in mente la mia adolescenza vissuta decorosamente, grazie ai miei genitori e poi a mia madre rimasta vedova giovanissima, ma in una condizione di marginalità sociale dovuta alle ristrettezze economiche. Sapevo che non era responsabilità di quella giovane coppia se disponevo di pochi o nulli libri scolastici oppure se avevano dovuto ricorrere ad un impiego dignitoso si, come lo è qualsiasi lavoro onesto, ma esposto più di ogni altro alla supponenza di troppi che pensavano di trovarsi in una condizione di superiorità. Ebbene, ciò che ricordo di quegli anni, nella mia relazione con gli adulti, è la trasparente convinzione di questi che quella superiorità sociale, economica, di benessere e impropriamente gerarchica, non dipendesse dal caso, ma da meriti personali, familiari e dinastici di cui erano depositari mentre io (la mia famiglia) ne ero privo oppure possedevo in minor (molto minore) misura.
Ripenso ad una lettura di molti anni dopo: “Tutto mi sembra affidato ad un fragile gioco; qualcuno ha scoperto una carta, ed era per mio padre, per me, la buona; la carta che ci voleva. Tutto affidato alla carta che si scopre.” Queste parole sono di Leonardo Sciascia in “Le parrocchie di Regalpetra”.
Nel famoso e citatissimo volumetto “Destra e sinistra”, Norberto Bobbio esamina a fondo questa “diade” nel tentativo di definirne la sostanziale differenza. Nella maggior parte delle sue pagine lo studioso riferisce di saggi ed indagini di altri ricercatori come Elsabetta Galeotti, Dino Cofrancesco e Marco Revelli.
So quanto sia riduttivo riassumere il saggio di Bobbio ma, ma in sostanza, egli sintetizza il tema della differenza tra Destra e Sinistra come “contrapposizione tra visione orizzontale o egualitaria della società, e visione verticale o inegualitaria”. E citando la Galeotti afferma “Quanto al domandarsi chi siano gli eguali, e chi i diseguali, è un problema storico, non risolvibile una volta per sempre, perché i criteri che vengono di volta in volta adottati per unire i diversi in una categoria di eguali o disunire gli eguali in una categoria di diversi, sono mutevoli”.
Nelle pagine del volumetto viene citato anche Massimo Cacciari, con una nota che riporto integralmente, in seguito a uno dei tanti paragrafi dell’Autore che appaiono di carattere… definitivo:
“Dalla ricerca condotta sin qui, di cui pur conoscendo i limiti ritengo non si possa escludere se non altro l’attualità, e dallo spoglio che ho condotto in questi anni su giornali e riviste, mi risulta che il criterio più frequentemente adottato per distinguere la destra dalla sinistra è il diverso atteggiamento che gli uomini viventi in società assumono di fronte all’ideale dell’eguaglianza, che è, insieme a quello della libertà e a quello della pace, uno dei fini ultimi che si propongono di raggiungere e per i quali sono disposti a battersi”
Ed ecco la nota:
“In un recente Dialoghetto sulla «sinisteritas», di Massimo Cacciari, che si svolge tra Tychiades, l’interlocutore, e Filopoli, che esprime le idee dell’autore, alla domanda del primo, che cosa dovrebbe convincere i ceti abbienti ad accettare politiche ridistributive, Filopoli dà questa risposta: «L’esistenza di condizioni di base d’uguaglianza, e dunque di politiche di difesa dei ceti meno protetti, più deboli, vale per me come componente essenziale della qualità della vita». Poi precisa: «L’uguaglianza è componente della qualità della vita, come un certo reddito, come un certo ambiente, come certi servizi […]. È l’uguaglianza che rende possibile la diversità, che rende possibile ad ognuno di valere proprio come persona – non certo quell’astratta totalitaria idea di uguaglianza che significa l’eliminazione dei non uguali» («Micromega», 1993, 4, p. 15)”
Faccio fatica a conciliare le precedenti osservazioni del nostro televisivo filosofo nazionale con una recente intervista in cui dichiara:
“Basta pensare che la prima clamorosa mossa di Trump è stata riavvicinarsi a Putin e che nel frattempo Putin si è ancor più clamorosamente avvicinato alla Turchia per intuire la portata del cambiamento rispetto al quale i concetti di destra e sinistra non spiegano più niente. O capiamo che i parametri del passato sono finiti, e non per incultura ma per motivi strutturali, o andremo incontro alla catastrofe”.
Cacciari: la sinistra in Europa è morta per ragioni strutturali, pubblicata il 12 maggio 2017.
Dunque dovremmo concludere con Sartre che “destra e sinistra sono due scatole vuote” (ancora dal saggio di Bobbio, prime pagine) e che sia destra che sinistra tendano entrambe all’eguaglianza oppure, se testimoni di una diversa realtà, chiederci da dove nascano gli opposti concetti di eguaglianza e diseguaglianza.
Bobbio non sembra interessato a questo aspetto, oppure non intende spingersi, nel suo lavoro, in un campo, diciamo… filosofico, benché fosse una delle sue specializzazioni. Io che di filosofia non posseggo alcuna competenza, sempre nell’alveo di una riflessione mia, per me stesso, ritengo invece che una sensata (e fondata) ipotesi possa essere avanzata.
Il concetto di eguaglianza (eguali tra diversi) non può rimanere un principio astratto da accettare per una forma di altrettanto astratta giustizia oppure “come componente essenziale della qualità della vita”. L’eguaglianza nasce da una precisa consapevolezza del determinismo che dà forma al nostro essere, al nostro carattere, alla nostra conformazione come persona. Tutto ciò che siamo, per quanto lo “stato di coscienza” ci porti a credere altrimenti, deriva da infinite (e in gran parte imperscrutabili) condizioni, da innumerevoli fattori sui quali ci è difficile indagare ma che determinano, istante per istante, il nostro essere attuale.
Così come può apparire contraddittorio il binomio eguali-diversi senza una opportuna analisi dei significati, anche il binomio casualità-determinazione (se escludiamo il poco laico concetto di predestinazione per cui la romantica affermazione “Io sono il mio destino e in quanto (questo) volere di dio, io stesso sono dio”) è suscettibile di conciliante spiegazione. Pensiamo al gioco del lancio della moneta: l’esito testa-croce appare davvero casuale e imprevedibile, ma solo perché nessuno potrebbe registrare le condizioni innumerevoli in cui si svolge. La forza nel pollice che sferza, il peso della moneta, il punto in cui viene sollecitata, la densità dell’aria, la sua temperatura, il momento angolare che determina la rotazione, la posizione del piano su cui atterrerà e centinaia di altre circostanze ancora. Sconosciute e forse inconoscibili, ma non per questo meno vere e determinanti.
Attingendo ad una letteratura “alta”, rispetto a queste mie osservazioni, riporto le parole di Carlo Rovelli in “Sette brevi lezioni di fisica”:
“C’è una questione in particolare, riguardo a noi stessi, che ci lascia spesso perplessi: che significa che siamo liberi di prendere delle decisioni, se il nostro comportamento non fa che seguire le leggi della natura? Non c’è forse contraddizione fra la nostra sensazione di libertà, e il rigore con cui abbiamo ormai compreso si svolgono le cose del mondo? C’è forse qualcosa in noi che sfugge le regolarità della natura, e ci permette di torcerle e sviarle con il nostro libero pensiero?
No, non c’è nulla in noi che sfugge le regolarità della natura. Se qualcosa in noi violasse le regolarità della natura, l’avremmo ormai scoperto da tempo. Non c’è nulla in noi che violi il comportamento naturale delle cose. Tutta la scienza moderna, dalla fisica alla chimica, dalla biologia alle neuroscienze, non fa che rafforzare questa osservazione.
La soluzione della confusione è un’altra: quando diciamo che siamo liberi, ed è vero che possiamo esserlo, ciò significa che i nostri comportamenti sono determinati da quello che succede dentro noi stessi, nel cervello, e non sono costretti dall’esterno. Essere liberi non significa che i nostri comportamenti non siano determinati dalle leggi della natura. Significa che sono determinati dalle leggi della natura che agiscono nel nostro cervello. Le nostre decisioni libere sono liberamente determinate dai risultati delle interazioni fugaci e ricchissime fra i miliardi di neuroni del nostro cervello: sono libere quando è l’interagire di questi neuroni che le determina.
Questo significa che quando decido sono «io» a decidere? Sì, certo, perché sarebbe assurdo chiedersi se «io» posso fare qualcosa di diverso da quello che decide di fare il complesso dei miei neuroni: le due cose, come aveva compreso con lucidità meravigliosa nel XVII secolo il filosofo olandese Baruch Spinoza, sono la stessa cosa. Non ci sono «io» e «i neuroni del mio cervello». Si tratta della stessa cosa. Un individuo è un processo, complesso, ma strettamente integrato.
Quando diciamo che il comportamento umano è imprevedibile, diciamo il vero, perché è troppo complesso per essere previsto, soprattutto da noi stessi. La nostra intensa sensazione di libertà interiore, come Spinoza aveva visto acutamente, viene dal fatto che l’idea e le immagini che abbiamo di noi stessi sono estremamente più rozze e sbiadite del dettaglio della complessità di ciò che avviene dentro di noi. Noi siamo sorgente di stupore per noi stessi. Abbiamo cento miliardi di neuroni nel nostro cervello, tanti quante le stelle di una galassia, e un numero ancora più astronomico di legami e combinazioni in cui questi possono trovarsi. Di tutto questo non siamo coscienti. «Noi» siamo il processo formato da questa complessità, non quel poco di cui siamo coscienti.”
Appare chiaro che una lettura deterministica delle sorti individuali sembra escludere il caso (come nelle parole di Sciascia) e soprattutto il libero arbitrio nel comportamento umano. Ma è altrettanto ovvio che noi si eviti il conseguente appiattimento delle competenze e delle responsabilità individuali, almeno in virtù del fatto che quel caso è talmente complesso da non poter accogliere le vicende umane come conseguenze di successive causalità, perciò libere, almeno per un principio di funzionalità esistenziale.
Dunque il “merito” delle azioni personali, che discende dalla maggiore o minore maturità sociale, dalle competenze e dal livello di consapevolezza raggiunti, deve essere certamente approvato ed apprezzato, ma sempre nell’ambito, più vasto, di una lettura deterministica delle sorti individuali. Ralph Waldo Emerson (Poeta e Saggista Americano 1803 – 1882) scriveva “Il silenzio che intende il merito come la cosa più naturale del mondo è la forma più alta d’applauso” e mi pare segnali l’ovvietà del merito, applaudibile e tuttavia atteso da chi abbia ricevuto dalla propria storia, dalle proprie vicende, dall’eredità sociale le doti necessarie alle proprie imprese ed ai propri successi.
So bene a quale paradosso possa condurre impostare le cose in questo modo: se il nostro comportamento ha un’origine deterministica allora “salta” il concetto di libertà che pure è connesso ad una visione “di sinistra” (ma non solo, ovviamente). Tuttavia mi conforta il pensiero che in un organismo “sano”, cioè rivolto alla propria sopravvivenza vige il principio della collaborazione tra le sue componenti, siano essi ingranaggi di un macchina che cellule di un corpo. La collaborazione è il principio su cui la natura, la biologia come la meccanica fondano il funzionamento di un essere animato o inanimato. La concorrenza, invece, la Natura la riserva al principio di evoluzione delle specie. Ma poiché qui sto riflettendo sulla “comunità” dei cittadini, ritengo debba prevalere il senso della collaborazione. Ed affinché questa abbia buon esito, efficace azione, occorre che quelle disparità che mostrano “diversificati” i cittadini in quanto a competenze (meriti, se vogliamo, ma di cui nessuno ha veramente merito) debba essere riversata nell’attenuare le diseguaglianze sociali, le inaccettabili condizioni di vita, le impari risorse.
Sinistra significa, dunque, non provare alcun senso di merito (oppure demerito, ma potremmo dire brutalmente superiorità o inferiorità) nella propria condizione con la consapevolezza che i propri vantaggi possano, anzi debbano essere impiegati per l’appianamento delle differenze sociali, come per un organismo l’attenuazione dello stato di sofferenza, grazie ad opportuni anticorpi.
Essere “Sinistra”, in definitiva, significa mettere al servizio della comunità le proprie doti per il raggiungimento – almeno il tentativo di raggiungimento – di una sempre maggiore equità e giustizia sociale. Da ciò i principi di inclusione, giustizia, libertà e pace.