Autore originale del testo: Alfredo Morganti
Deserti e praterie
Ci sono due locuzioni che mi disturbano. Una è “traversata nel #deserto”, l’altra è “ci sono #praterie”. Ce ne sarebbero anche altre a dire il vero, tipo “mettere a terra i soldi”, ma sono più tecniche e mi interessano meno. Veniamo alla prime due. Il significato lo conoscete: la prima, indica la necessità di mollare e ripartire daccapo nell’impresa, soprattutto se si vivono momenti difficili o di crisi; la seconda, indica gli spazi a disposizione di chi voglia essere audace e propositivo.
Cosa mi dà fastidio, in particolare? Che entrambe (accumunandosi) facciano riferimento al “vuoto”: del deserto, delle praterie. Come se una rigenerazione, uno slancio in avanti possano esservi solo se si metta da parte il mondo, per andare alla ricerca o a caccia del nulla, immaginando una vita nuova a patto che sia libera dalla storia, dai fatti, dalle vicende quotidiane, dalla prassi e prima di tutto dalle persone e dalle loro opinioni, per quanto non apprezzabili. Si dovrebbe marciare nel vuoto, nell’assenza, per generare un pieno, una presenza: non vi pare un paradosso, se non addirittura una contraddizione in termini?
Qual è stato, qual è, il male della sinistra popolare, in questi decenni? Quello di essere stata una sinistra subalterna all’egemonia della destra, che voleva (e vuole) decisionismo, tecnica, uomo solo al comando, comunicazione vs politica, governismo, antiparlamentarismo, maggioritario, partiti ridotti a lobby, ecc. Una sinistra dunque incapace di contendere questa egemonia, di non accorgersi che ultimi e penultimi della scala sociale non la seguivano più, abbacinati in gran parte dall’ideologia (e dalla pratica) del mercato, dei consumi, della competizione, della solitudine sociale, dell’astensione elettorale. A voi pare la risposta giusta quella di tentare ancora il vuoto del deserto, della prateria, del piano liscio, affilato, levigato della tecnica, se non addirittura della riflessione solitaria, pensando che si tratti della soluzione appropriata ai fini di un rilancio di massa?
E se, al contrario, la soluzione fosse, invece, una traversata coraggiosa, consapevole e anche rischiosa della città più densa e più viva di donne e uomini, piuttosto che il deserto, piuttosto che le praterie? E fosse quindi il ripristino di un agire politico di cui non abbiamo più la percezione effettiva, la dimensione, il disegno? Persi come siamo in un imbroglio politico quotidiano, mediatico, di cui abbiamo smarrito il bandolo? Quel deserto invocato, quelle praterie indicate, sono il segno di una malattia, non la possibile medicina. La fine della politica, non il nuovo inizio. È anche per questo che l’ottimismo può essere solo della volontà.