di Alfredo Morganti – 26 giugno 2018
C’è chi dice Europa. Chi dice media. Chi addossa la colpa a una intera classe dirigente. Chi se la prende con D’Alema. Chi col destino cinico e baro. Io dico che tutto è cominciato (o ha preso forma) in particolare con la legge sui Sindaci: quando si è deciso di far convergere il voto di una città su una singola persona, conferendogli un ‘mandato’ diretto, gravandolo così delle responsabilità che prima appartenevano a un consiglio comunale rappresentativo, e quindi a tutti i cittadini. Con quella legge è nata la ‘personalizzazione’, o comunque essa ha prevalso su quello che era il sistema dei partiti che, per quanto in crisi, era comunque il collante che garantiva una seppur precaria unità e un sommario equilibrio tra istituzioni, amministrazione pubblica, partiti, associazioni, cittadini.
Con la venuta dei Sindaci rockstar (e quindi con il movimento di Centocittà, il partito dei Sindaci, la società civile pronta a piombare sugli assessorati fiera di non essere ‘condizionata’ dalla politica) mutava un panorama, nascevano nuovi poteri personali. Da un certo punto in poi non ha ‘deciso’ più la comunità (per quanto scombiccherata) ma ‘qualcuno’. Qualcuno che era eletto personalmente, o qualcun altro che non lo era affatto. La mediazione dei partiti (alleggeriti, privati dei funzionari, delle strutture intermedie, delle sedi, della partecipazione organizzata nei quartieri) scompariva, e il governo urbano si decideva nei privée, nei salotti, negli incontri riservati, nelle amicizie, nelle relazioni, nella contrattazione, nella comunicazione, ovunque, meno che in Consiglio Comunale, dove si agiva invece con l’ausilio e la forza dei partiti, dei Comitati di quartiere, delle consulte, delle associazioni.
Oggi il voto politico e amministrativo racconta che la valanga è giunta finalmente a valle col suo carico di macerie. L’alleggerimento dei partiti ha prodotto quel che doveva produrre: ossia un’opinione pubblica ischeletrita, ostaggio delle grida, delle comparsate tv, dei sentimenti più abietti, dell’uomo nuovo di turno, dei verticismi, dei patti segreti, della sfacciataggine, dell’arroganza, del comico-barzellettiere-intrattenitore assurto di getto e misteriosamente agli onori della cronaca e ai vertici dello Stato. È come se tutto andasse a meta, tutto facesse sintesi, tutto si compisse. Un cerchio che si chiude insomma, liberando i sentimenti peggiori, quelli che vediamo oggi scatenati contro i disgraziati sui gommoni o sulle carrette. Qui diventa inderogabile una ripartenza alla Sacchi: rubare palla per aggredire il campo avversario, partendo però da un buon assetto del proprio campo e da una buona organizzazione.
Il PD si è dimostrato essere quel che è: adesso va demolito e basta, senza tanti ripensamenti. Non superato, proprio demolito. Chi vuole ‘macronizzare’ lo faccia, intraprenda il proprio percorso e non se ne parli più. Tutto il resto della sinistra, dopo la demolizione, deve però impegnarsi a ricostruire. Un partito, un pensiero, una classe dirigente, una strategia, una visione, una ‘base’. Dire partito vuol dire strutture, personale politico, sentimento comune. Una cosa larga, plurale, democratica, dove anche le minoranze siano a casa loro, che intercetti quanto di buono circola oggi a sinistra. Un pensare che non si discosti dalla prassi, un’autocoscienza che viva del dialogo e della prossimità al mondo e alla vita. I semi ci sono, non si parte da zero. Sono piccoli semi, con un loro percorso. Penso a LeU, in special modo. Ma l’impegno deve essere particolarmente ampio, diffuso, come quando ci si guarda in faccia e senza dirsi nulla si capisce che c’è una strada da ritracciare e poi da percorrere. Non verranno tutti, e forse è meglio così. Ma dovremo essere molti, perché sarebbe la cosa migliore.