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di Franco Cardini, 29 gennaio 2017
Il saggio Décadence di Michel Onfrey, del quale torneremo prossimamente a parlare, è uscito da non molto in Francia e ha già fatto molto rumore. Non so né se, né quando verrà pubblicato in Italia: dove comunque, intanto, stanno uscendo altri saggi da autori illustri dedicati ad argomenti affini. Le incertezze legate al “nuovo corso” inaugurato dal presidente Trump, alla quasi-guerra che dopo il Brexit il governo britannico ha dichiarato all’Europa minacciando addirittura di trasformare l’isola di Albione in un “paradiso fiscale”, le polemiche scatenate attorno al summit di Davos a proposito della spaventosa concentrazione della ricchezza del mondo nelle mani di poche decine di soggetti, hanno d’un tratto strappato il velo della residua incoscienza di molti di noi, dell’omertà politico-mediatica che c’impediva di riconoscerlo appieno: siamo sull’orlo di un abisso, a un passo dal precipizio. Chissà se i ripetuti episodi sismici che hanno turbato l’Italia negli ultimi giorni non siano apparsi a molti un’avvisaglia, non abbiano provocato per analogia una sorta di pànico diffuso a proposito del nostro futuro. Se non altro di noi “europei”, di noi “occidentali”: ma che cosa significano poi queste due qualifiche? Stiamo parlando di sinonimi o di qualità differenti?
Due brevi ma densi saggi recenti, entrambi editi dal Mulino – una delle case editrici che negli ultimi tempi si sta mostrando più attenta al presente e più sensibile ai mutamenti storici e politici –, possono forse aiutarci a dipanare il filo di quell’infida Arianna ch’è la nostra ragione all’interno del labirinto del presente. Paolo Prodi, alla recentissima scomparsa del quale non ci siamo ancora abituati, e Massimo Cacciari ci offrono Occidente senza utopie: un libro risultante dall’incontro di due saggi, Profezia, utopia, democrazia di Prodi e Grandezza e tramonto dell’utopia di Cacciari. Luciano Canfora con La schiavitù del capitale proietta, invece, un fascio di luce tagliente, livida e impietosa su quella che in un’intervista pubblicata su “La Repubblica” del 22 novembre 1991 (un quarto di secolo fa!), Gabriel García Marquez definiva “Il fondamentalismo democratico”: cioè – commenta appunto Canfora, p. 34 – “l’idea (dominante nel mondo euro-atlantico solo dopo la fine dei fascismi e durante la contrapposizione nei confronti dell’est ‘comunista’) che la democrazia parlamentare come si è venuta configurando nel mondo euro-atlantico sia, oltre che caratteristica di quel mondo, l’unica buona forma di governo, o, ad ogni modo, la migliore”. Ma se, dopo le pelose illusioni dell’aggressione all’Iraq del 2003 – allorché con leggerezza idiota si parlava di “esportazione della democrazia” –, oggi si dubita che essa sia in realtà esportabile fuori dell’Occidente, che cosa si vuol significare? Ch’essa, sistema per definizione perfetto o comunque migliore, non è adatta a popoli in un modo o nell’altro “inferiori”? O che invece alternative ad essa possono esserci state in passato ed esserci ancora oggi, e che sta a noi partire alla loro scoperta piantandola una buona volta con le nostre pretese di superiorità (una superiorità, fra l’altro, contraddittoriamente “democratica”) e riconoscendo che esistono valori anche nelle esperienze altrui?
Il libro di Canfora porta, in copertina, una frase che ne è il sigillo: “Campeggiano sulla scena del mondo due diverse utopie, tra loro molto distanti ma entrambe in difficoltà: l’utopìa della fratellanza e l’utopia dell’egoismo”. La riflessione sull’utopia sembra pertanto la cerniera fra i due libri e fra i tre autori. Il vecchio Joseph de Maistre avrebbe notato che in realtà la due utopìe sono sorelle, entrambe figlie del materialismo moderno che le ha generate. Ma alla base dell’utopia della fratellanza c’è comunque la memoria desacralizzata della fede cristiana, c’è l’ombra della fame e sete di giustizia della quale parla il Discorso delle Beatitudini. Alla base dell’utopia dell’egoismo c’è lo squallore dell’auri sacra fames, il materialismo non “scientifico”, non dialettico, bensì volgare e bulimico dell’avere per l’avere, del possedere per il possedere, la cecità di un mondo che ha progressivamente trattato un mezzo – la ricchezza – come se fosse un fine.