di Nicola Boidi, 2 ottobre 2018
« Con usura nessuno ha una solida casa di pietra squadrata e liscia, per istoriarne la facciata. Con usura non v’è chiesa con affreschi di paradiso , harpes et luz, e l’Annunciatore dell’angelo con aureole sbalzate……il tuo pane sarà staccio e vieto,arido come carta, senza segala né farina di grano duro, … con usura nessuno trova residenza amena….Con usura la lana non giunge al mercato e le pecore non rendono….Duccio non si fè con usura nè Piero della Francesca o Zuan Bellini né fu “La Calunnia” dipinta con usura….usura arrugginisce il cesello, arrugginisce arte e artigiano, tarla la tela nel telaio ….usura soffoca il figlio nel ventre, arresta il giovane amante, cede il letto a vecchi decrepiti, si frappone fra giovani sposi…carogne crepulano ospiti d’usura».
With Usura , Ezra Pound
Se c’è un punto su cui tanto i sostenitori che gli oppositori al governo Cinque stelle-Lega, guidato dall’avvocato Conte,concordano, è che, comunque la si veda, qualunque sia il giudizio che si dà sull’aggiustamento del DEF (Documento Economia e Finanza) con un piano di politiche economiche espansive con l’aumento di deficit annuo di spesa al 2,4, in vista della promulgazione della prossima Legge di Bilancio 2019, il debito pubblico è il nodo da affrontare, in nessun modo eludibile: hic rodus hic saltus.
Gli uni, i sostenitori, affermano che pur nella consapevolezza degli stretti vincoli (o catene?) che i parametri economici dell’Unione europea o i mercati finanziari, sostanzialmente tra di loro unanimi, impongono, questi obblighi non debbano però comportare una prosecuzione dello strozzamento della crescita dell’economia italiana qual è si è verificata a partire dalla crisi finanziaria dell’economia del 2008, e che le decisioni di politiche economiche appena prese vadano nella giusta direzione.
Gli altri, gli oppositori, evidenziano che i rigidi criteri del controllo del debito pubblico, con tutto ciò che questo comporta sulla spesa pubblica, sullo stato sociale, sui redditi dei cittadini, delle famiglie e dei lavoratori, sui profitti delle imprese, sulla messa in crisi del funzionamento del sistema bancario nazionale, ciò nonostante siano da rispettare rigorosamente, pena in caso contrario una fuga irrazionale e irresponsabile in avanti che non calcola adeguatamente le ripercussioni negative se non disastrose che la loro mancata osservanza da parte del governo comporterebbe.
Ne è un esempio plastico il giudizio sulle nuove manovre di politica economica espresso dall’ex ministro dell’Economia e delle Finanze,Giancarlo Padoan, il «guardiano » par excellence dell’ortodossia neoliberista in Italia, che con le sue passate Leggi di Bilancio che tendevano ad applicare puntigliosamente il Fiscal Compact, ossia a ridurre tendenzialmente a zero il deficit annuo di spesa dello Stato e ad accelerare il processo di privatizzazioni, ha dato un contributo non indifferente alla prosecuzione dello strozzamento dell’economia italiana.
I primi , i sostenitori, affermano con forza che gli esiti negativi e la distruttività si siano già abbattuti sul nostro sistema economico in questi ultimi dieci anni, proprio nel voler perseguire la filosofia dell’austerity, della ricerca tendenziale ideale del pareggio di bilancio (tanto esce come spesa dallo Stato tanto vi deve rientrare), del taglio della spesa e degli investimenti pubblici.
Essi portano a sostegno della loro tesi argomenti suffragati da cifre e dati oggettivi di per sé inoppugnabili. In dieci anni persi 9 punti percentuali del Pil (pari a circa 150 miliardi di euro) oltre a quelli non realizzati in condizioni di economia sana; il 25 % della produzione industriale e il 33% della produzione manifatturiera persi per cessata attività o per passaggio nelle mani di multinazionali straniere e /o relative delocalizzazioni all’estero delle attività delle imprese. Un aumento della povertà vertiginoso (5 milioni di poveri assoluti, altri 5milioni in povertà relativa, più una platea indefinita« in sospeso» tra condizione dignitosa di vita e caduta nel girone dei dannati). Un tasso di disoccupazione ufficiale intorno al 11/12 % , un tasso «ufficioso» (comprendente gli scoraggiati non più iscritti agli uffici di collocamento) molto più alto.
Un esercito di lavoratori a contratto di lavoro precario, sottopagato o saltuario, in seguito alle«riforme del mercato del lavoro» (job acts e dintorni). Un grande numero di pensionati al regime minimo, altri sospesi nel limbo degli«esodati» , non più lavoratori, non ancora pensionati, dall’azione delle Riforma Fornero. Una crescita esponenziale di nuova emigrazione all’estero, sparsa per l’intero globo terracqueo (2 milioni circa negli ultimi dieci anni, con la punta di 285.000 emigrati nel 2017) con una presenza massiccia di under 30 e under 40 di alta formazione scolastica (i cosiddetti« cervelli in fuga»). Un sistema creditizio sottoposto negli ultimi sette anni a forti pressioni e condizioni di stress ( i primi fallimenti di banche a memoria d’uomo accaduti a ripetizione in Italia in questi ultimi anni) tanto dalla recessione economica che dai nuovi regolamenti dell’Unione Bancaria Europea. Un Stato sociale (sanità, scuola, diritto alla casa e disoccupazione) sottoposto a pesanti tagli e giri di vite.
Nel complesso un quadro comparabile solo a quello post bellico. Eppure, ammoniscono gli oppositori «attenzione che nel voler forzare le sbarre della gabbia debito pubblico-euro-BCE, non si ottengano dei risultati migliori, ma solo un’ ”eterogenesi dei fini”, parolone che stanno a indicare che una persona può agire con la migliore delle intenzioni, ma essendo sprovveduta finisce per ottenere solo dei risultati imprevisti e disastrosi. Insomma i sostenitori del cambio di regime di politica economica possono incorrere nell’accusa di essere un partito di «anime belle», idealisti senza senso della realtà, o peggio ancora «demagoghi populisti». Da parte loro i fautori della continuità del rigorismo di bilancio dello Stato, i«pareggisti di bilancio», pur presentandosi come semplicemente dei realisti, possono invece essere accusati di scetticismo, di fatalismo, di cinismo o nella peggiore delle ipotesi, di interessi di parte a proseguire lo status quo. L’intera gamma di posizioni è contemplabile nel partito dei « contabili rigoristi».
Da che parte stanno le ragioni e i torti? Se guardiamo alle cifre, ai dati oggettivi nudi e crudi, al quadro desolante della distruzione del sistema della domanda, e di conseguenza, anche dell’offerta economica del nostro paese, si dovrebbe propendere dalla parte dei riformisti o «rivoluzionari» delle forze di governo, a seconda di come li si giudica. Ma davvero hanno unicamente e completamente torto coloro che ammoniscono a non pensare che sia così semplice, indolore, non pericoloso , uscire dal sistema economico debito-centrico, e rivoltare o far saltare la sua armatura d’acciaio?
Fatto salvo che l’attuale orientamento delle politiche economiche del governo è quello non di prendere risoluzioni drastiche della questione, ma solo misure in grado di far ripartire la crescita economica anche all’interno della gabbia in cui ci ritroviamo rinchiusi, possibili strategie di soluzione alla situazione data richiedono di inoltrarci almeno per un po’ dentro i meccanismi del debito pubblico, del funzionamento della moneta a cambi fissi denominata euro, dello statuto e delle politiche della BCE, poiché la comprensione di alcuni tecnicismi economico- finanziari rivelano questioni e possibili soluzioni di natura squisitamente politica, anzi relative alla nuda vita. Ci faremo guidare in questo tipo di considerazioni dalla competenza, onestà intellettuale e brillante lucidità, dell’economista e analista finanziario Alberto Micalizzi.
Cominciamo con il dire che il sistema economico basato sulla moneta « senza stato» o « straniera » Euro, sulla Banca Centrale Europea indipendente dal potere politico e sul finanziamento della spesa dello Stato mediante indebitamento sui mercati finanziari, non è la condizione fisiologica del funzionamento economico di uno Stato e del suo debito pubblico, ma un’assoluta anomalia, una sua condizione patologica.
In uno Stato in «salute», in condizioni fisiologiche nella norma, la sovranità monetaria farebbe normalmente parte delle sue prerogative, al pari della sovranità sulla popolazione e sui propri confini (parliamo qui naturalmente di una sovranità democratica secondo il modello dello Stato liberale) . Checchè ne dicano i liberali più oltranzisti non c’è Stato ad economia di mercato al mondo che non controlli la creazione, emissione e distribuzione nel proprio sistema economico della propria moneta nazionale. A questo scopo uno Stato sovrano controlla, per tramite del proprio ministero dell’Economia o del Tesoro, la propria banca centrale che ha il compito statutario di o «stampare» direttamente moneta o di comprare i titoli di Stato emessi dal Tesoro e rimasti invenduti alle aste mensili dei titoli di Stato e questo con una doppia finalità:
1) immettere liquidità o denaro per conto dello Stato nel sistema economico;
2) calmeriare i tassi d’interesse dei titoli di Stato impedendone il gioco speculativo del rialzo dei tassi d’interesse da parte dei mercati.
La vendita dei titoli di Stato in questo caso sarebbe principalmente rivolta ai privati residenti (individui, famiglie, imprese, fondi istituzionali e banche nazionali) per dargli la possibilità di ricavarci un piccolo profitto e così gradualmente accumulare risparmio. Questa funzione di immissione di liquidità nel sistema economico da parte dello Stato tramite Banca centrale pubblica è paragonabile all’immissione del sangue nel corpo umano: una persona adulta ha bisogno di 8 litri di sangue per poter vivere in maniera sana, e quindi di un adeguato flusso sanguigno Il debito pubblico e la spesa annuale in deficit dello Stato corrispondono a questa immissione di liquidità o di «flusso sanguigno » nel corpo sano della società e dell’economia.
Senza questo flusso permanente di liquidità il corpo sociale ed economico diventa anemico con il rischio di agonizzare, al pari di un corpo umano. Ed è quello che è regolarmente successo con la condizione patologica del finanziamento della spesa pubblica mediante una Banca centrale indipendente dallo Stato e la dipendenza dai «vampireschi» mercati finanziari. Questa condizione anemica, che è quella in atto all’interno dell’Eurozona, con grandi assimetrie tra i diversi Stati, produce «emorragia di sangue»: deflazione monetaria e a cascata riduzione dei consumi (la domanda interna), riduzione della produzione, degli investimenti, degli stipendi, disoccupazione o sottoccupazione, povertà , emigrazione etc.
In una condizione fisiologica e non patologica, il debito pubblico adempie a diversi compiti: spesa corrente (stipendi degli impiegati statali, assunzione diretta dei medesimi) investimenti pubblici (ospedali, scuole, edilizia pubblica, infrastrutture – strade, ferrovie, telecomunicazioni, fonti energetiche, riassetto idrogeologico del territorio- beni ambientali e culturali) controllo del credito e agevolazione del risparmio. Di queste ultime due funzioni, decretate dagli articoli di materia economica della Costituzione della Repubblica italiana (in partic. l’articolo 47), la prima , il controllo del credito, indica la necessità che vi sia, oltre a una Banca Centrale subordinata allo Stato, anche un numero rilevante di banche commerciali di statuto pubblico, con l’unico esclusivo mandato della raccolta dei risparmi (depositi e conti correnti) e della attività di credito ai privati (individui, famiglie e imprese). Inutile ricordare che allo stato dell’arte tale funzione fondamentale è disattesa per la pressochè totale privatizzazione degli istituti di credito italiani.
La seconda, l’agevolazione della formazione del risparmio dei privati, è una conseguenza logica degli altri compiti svolti dalla spesa pubblica mediante deficit e debito dello Stato, perché, se non fosse ancora chiaro, in una condizione normale, il debito pubblico non è, come strombazzato sotto forma di fake news dal sistema mediatico main stream (televisioni e giornali) un debito che ricade sulle spalle di ogni singolo italiano, ma al contrario il credito della società dei privati cittadini, il loro« sangue vitale». Questa funzione fisiologica del debito pubblico era quella svolta pienamente dallo Stato italiano fino al celebre divorzio tra ministero del tesoro (dell’economia) e Banca Italia avvenuto nel 1981, e poi via via sempre più svuotata, con la delega di «regolatori» della spesa pubblica data prima ai mercati finanziari e poi alla BCE e alla Commissione Europea.
Questa funzione del debito pubblico viene proseguita invece in Stati con sovranità monetaria, Banca centrale pubblica e sistema misto, in parte pubblico e in parte privato, delle banche commerciali, in paesi quali il Giappone, La Gran Bretagna, gli Stati Uniti; non solo ma la funzione di credito pubblico viene«insospettabilmente» svolta anche in Paesi sottoposti a regime moneta unica euro, quali Germania e Francia, tramite l’opera di finanziamento pubblico svolta dalla loro Cassa depositi e prestiti e dalle loro banche a statuto pubblico, rientrando questa funzione pienamente nel mandato statutario della BCE .
Se questa è la funzione fisiologica del debito pubblico in Stati a sovranità monetaria, l’Italia però, e in modo peculiare, vive in un regime patologico del debito pubblico, e in una patologia grave. La patologia è quella, come già detto, del delegare il finanziamento della spesa pubblica del governo ai seguenti soggetti:
1) i mercati finanziari ( banche private);
2) una Banca centrale Europea indipendente dalla politica, tenuta per statuto a non finanziare la spesa pubblica degli Stati ma solo la spesa o il credito delle banche private, notoriamente banche universali commerciali/ speculative;
3) i commissari alle materie economico- finanziarie dell’Unione Europea totalmente sintonizzati nei loro diktat agli Stati alla filosofia neoliberista in economia.
Filosofia neoliberista? Rammentiamo in estrema sintesi, per sommi capi, in cosa consiste tale filosofia economica:
1) il mercato economico si autoregola senza bisogno dell’intervento pubblico dello Stato, e quindi meno Stato c’è a vantaggio del mercato e meglio è;
2) la funzione prioritaria delle politiche monetarie di una Banca centrale deve essere mantenere la stabilità del valore della moneta mediante la stabilità dei prezzi, e cioè la prevenzione dell’inflazione, e solo secondariamente ( in evidente contraddizione con la funzione primaria) , il sostegno alla domanda interna, alla piena occupazione e alla crescita delle economie nazionali;
3) di conseguenza ai primi due«comandamenti» il bilancio di uno Stato nazionale deve tendere al pareggio di bilancio, obbiettivo che può essere raggiunto solo mediante il taglio sistematico della spesa pubblica ordinaria e straordinaria, l’inasprimento fiscale, la svendita ai privati dei beni pubblici e un generale piano di privatizzazione dello Stato sociale.
Tutti e 3 gli obbiettivi rispondono all’interesse dei grandi enti finanziari multinazionali, le banking holding companies (« compagnie comprendenti banche ») o hedge fund («fondi speculativi»), interesse a fare tanto dello Stato che dei privati (cittadini, famiglie, imprese, altre banche) un debitore permanente a cui fare pagare lucrosamente i tassi d’interesse sui titoli di Stato acquistati o su cui innestare i giochi speculativi dei derivati strutturati collegati tanto ai titoli acquistati che ai crediti concessi. Gli scopi di queste elites finanziarie non contemplano solo l’ovvia ricerca della massimizzazione del profitto, ma, trattandosi ormai di un ‘oligarchia economico-finanziaria potentissima a livello planetario, anche la ricerca di un potere che sovrasti e determini le decisioni degli Stati ex sovrani, in barba a qualsiasi sovranità democratica.
Con questi metodi di governo sovranazionali e oligarchici lo Stato nazionale viene declassato da ente pubblico a ente privato, a una SPA come qualunque altra, sottoponibile a procedura di fallimento. Non a caso, ad es. l’Italia e il suo debito pubblico hanno un codice d’identificazione che serve ai mercati finanziari per collocarla nella valutazione delle agenzie di Rating.
Si potrebbe dire che l’Italia ha perso la propria sovranità economica, e con essa la sovranità tout court, in tre «mosse» o fasi tutte ruotanti intorno al suo debito pubblico:
1) con il famigerato divorzio tra ministero del Tesoro e Banca Italia del 1981;
2) con l’adesione ai trattati fondativi di Maastricht e poi confermativi di Lisbona, e in particolare alle regole di funzionamento dell’euro (con i famosi protocolli aggiuntivi della regola del deficit annuo al 3% e della riduzione progressiva del debito pubblico al 60 % del Pil) e della BCE ;
3) con il «giro di vite» ulteriore dell’approvazione dei Trattati economici europei del 2013, giunti alla notorietà sotto il nome di Fiscal Compact, che hanno fatto assurgere la Commissione Europea e istituzioni ad essa collegate al ruolo di contabile o « usuraio» intransigente.
Soffermiamoci su quest’ultima fase. Il Fiscal Compact detta quelle rigide regole fiscali e di bilancio a cui accennavano in precedenza, regole che i singoli Stati devono seguire pedissequamente per raggiungere l’obiettivo (nel caso italiano) del dimezzamento del debito pubblico e, ben oltre l’osservanza della regola del 3% di deficit annuo, la tendenza progressiva al pareggio annuo di bilancio. Per fare un esempio, il sacerdote del pareggio di bilancio dei precedenti governi, il ministro dell’economia Padoan, era riuscito a scendere al 0.9 % del deficit annuo nel 2017, perseguendo le politiche di austerity.
Oltre a questo capitolo di « riforme » strutturali e fiscali il Fiscal Compact comprende il MES (Meccanismo Europeo di stabilità): un fondo monetario europeo comune finanziato dagli Stati membri, a cui i singoli Stati sono obbligati ad aderire (l’Italia sotto il governo Monti ha vincolato una somma di 125 miliardi di euro , di cui 15 miliardi già versati) che dovrebbe servire a finanziare un singolo Stato in caso di emergenze nazionali a cui far fronte.
Peccato che questo finanziamento «fatto con i propri soldi» avvenga sotto forma di prestito «condizionale», cioè alla seguente condizione: «tu Stato italiano hai bisogno di finanziare la tua spesa pubblica per fare investimenti per le zone terremotate o per altre emergenze, lo potrai fare a patto che tu faccia le riforme strutturali di cui sopra». Oltre al MES il Fiscal compact comprende anche le Clausole di salvaguardia: se uno Stato, nonostante l’applicazione di rigide regole di bilancio, ha a fine anno attuato un deficit superiore al 3 % rispetto al Pil, deve fare aggiustamenti strutturali, il che significa aumentare la pressione fiscale sulle tasse indirette tramite l’aumento dell’Iva su beni e servizi.
A questo punto dovrebbe ormai essere chiaro al paziente lettore che la deflazione (riduzione) monetaria è il migliore sistema per tenere Stati e individui in una permanente condizione di debitori insolventi che non potranno mai liberarsi dalle loro catene di debito. Il debito pubblico italiano diventa così l’arma in mano ai mercati finanziari e alla BCE per non fare uscire il nostro Paese da un regime di usura che ha come propri strumenti di ricatto il Rating del debito e lo spread interbancario.
Il Rating è il voto, la valutazione della solvibilità del debito pubblico che viene assegnata dalle agenzie appositamente istituite. Sostanzialmente le agenzie di Rating che contano sono tre: Fitch, Standard & Pools e Moodys. Tutt’e tre sono possedute dalle più importanti Banche d’affari del mondo: Black Rock, Vanguard, Barclays, Goldmann Sachs, Morgan Stanley, e da tutti i più grandi gruppi misti (corporations e enti finanziari).
Le agenzie di rating decidono se uno Stato, attraverso diverse gradazioni e voti, è in grado di pagare i suoi interessi sui titoli di debito e quindi, collateralmente determinano l’andamento di questi titoli di stato scambiati sui mercati finanziari, facendo scendere o aumentare il valore/tasso d’interesse di questi titoli e di conseguenza diminuire o aumentare il debito pubblico. Il rating diventa un’arma di ricatto per chi dice: «se tu non fai questo, io taglierò il rating. Abbassando la tua valutazione aumenterò il tuo rischio di fallimento e quindi o i creditori non ti comprano più i tuoi titoli oppure vogliono tassi d’interesse più alti». In base all’andamento del rating si muove lo Spread– la differenza di tasso d’interesse interbancario rispetto al tasso bench mark («modello») dei titoli di stato tedeschi– che determina le oscillazioni sui tassi d’interesse dei titoli di stato.
Il rating e lo spread sono forse criteri «severi ma imparziali»,« oggettivi», con cui le agenzie di rating e i loro padroni , le grandi banche di affari e i fondi speculativi, giudicano l’affidabilità dei titoli di debito pubblico? La risposta è già nella domanda: evidentemente no, essendo gli arbitri o giudici in questione parti in causa del «gioco speculativo » in ballo. Eppure di fronte all’evidente assurdità e follia di un tale sistema di finanziamento dell’economia (si dovrebbe parlare di« usura » o«truffa criminale» se non fosse che è tutto legale) a maggior ragione se confrontato con i Paesi che ancora, beati loro, godono della loro sovranità monetaria, coloro che ammoniscono che evadere da una tale galera non sia così facile e indolore non devono rimanere ignorati né inascoltati.
Infatti una volta entrati in questa macchina di tortura soluzioni semplici per uscirne non esistono. Come c’invita a fare Alberto Micalizzi, le soluzioni di salvataggio devono essere attentamente calcolate e articolate in una strategia complessiva.
Consideriamo la natura del debito pubblico italiano. Esso ammonta a circa 2.300 miliardi di euro ( il 131% del nostro Pil annuo) ma a sua volta può essere suddiviso in due metà circa ridenominabili rispettivamente in «debito strutturale» e debito «fittizio». Questa ridenominazione può suonare sorprendente ma in realtà ha i suoi fondamenti. Né il debito «strutturale» né il debito «fittizio» (vedremo fra poco in cosa consiste quest’ultimo) non sono facilmente aggirabili o risolvibili, ad es. con la loro ridenominazione in una valuta domestica in sostituzione dell’euro (ad es. introducendo una nuova lira al posto dell’euro con un decreto unilaterale e immediato dello Stato italiano). Questo perché ci sono regole giuridiche e meccanismi contabili che ostacolano ciò.
Se consideriamo il debito strutturale, esso è quello che può e deve essere effettivamente rimborsato: è il debito contratto nei confronti di individui, famiglie, imprese, fondi pensione e assicurativi residenti (cioè con residenza in territorio italiano) o esteri, che hanno acquistato i titoli di stato italiani con soldi effettivamente preesistenti all’acquisto dei titoli. Questa massa di liquidità ammontante a 1.200 miliardi di lire (M1) è suddivisa nelle seguenti componenti: 180 miliardi (le famiglie), 475 miliardi (fondi pensione e assicurativi) e 550 miliardi ( soggetti non residenti).
Di questa massa solo 180 miliardi sono costituiti da contanti, mentre il resto( 975 miliardi) deriva da depositi (conti correnti) e depositi a vista (prestiti accreditati sui conti correnti dalle banche). Se si pensasse di liberarsi del debito pubblico strutturale con un’ immediata conversione dall’euro a una nuova valuta domestica, la fisionomia di questo debito creerebbe notevoli difficoltà. Innanzitutto non è detto che tutti coloro che possiedono i 180 miliardi di euro in contanti andrebbero a convertirli in « nuova lira», una quota consistente potrebbe essere trattenuta dai possessori come«valuta pregiata» estera, a maggior ragione se la nuova valuta fosse soggetta a una prevedibile svalutazione sul mercato dei cambi monetari di un 25 , 30% rispetto all’euro.
Rammentiamo brevemente che il contante (banconote e monete) viene messo in circolazione nel sistema economico dalle banche commerciali dopo averle prelevate dall’ente emittente (Banca Italia in coordinamento con la BCE) in cambio di titoli del tesoro che la banca commerciale ha lasciato in deposito su un conto corrente appositamente aperto presso Banca Italia. Nel momento della conversione dall’euro alla lira le banche commerciali potrebbero a sua volta trattenere le banconote in euro ricevute oppure versarle sul apposito conto corrente per riavere indietro i titoli del Tesoro.
Al massimo (ed è dubbio che ciò possa accadere) Banca Italia potrebbe raccogliere la somma di circolante di 180 miliardi di euro per cedere i titoli ad essa corrispondenti. Per quanto riguarda la riconversione dei depositi «ordinari» e depositi a vista, bisognerebbe considerare le seguenti caratteristiche contabili di questa ingente massa di debito strutturale:
1) i depositi bancari che originano dal risparmio, e cioè da redditi passati, sono iscritti nel bilancio passivo di una banca in contropartita di una voce «cassa» iscritta nell’attivo della banca stessa;
2) i depositi a vista che originano da prestiti bancari che vengono messi a disposizione dalle banche ai propri clienti sono ugualmente iscritti nel passivo del bilancio di una banca, ma a fronte di un «credito verso la clientela», che sarebbe iscritto dalla banca nel suo attivo di bilancio.
Soffermiamoci un istante sulla natura dei crediti concessi dalle banche commerciali ai loro clienti. Oggi le banche creano crediti o prestiti« dal nulla», con una semplice digitazione della tastiera di un computer, e poi alla fine dell’anno devono versare l’1 0 il 2% della somma prestata come deposito di garanzia (riserva frazionaria). Fino a vent’anni anni fa questa percentuale di versamento obbligatorio era del 28 % , ora è quasi a zero, concedendo praticamente alle banche di creare moneta bancaria dal nulla. Un rafforzamento incredibile del potere creditizio delle banche private.
Ora, la conversione dell’euro in lira creerebbe i seguenti inconvenienti. Al momento della conversione la banca sarebbe obbligata convertire anche i suoi attivi, di cassa e di crediti, perché in caso contrario la banca si ritroverebbe con un credito in euro verso un soggetto che non c’è più (avrebbe supponiamo un credito di 1000 euro verso un soggetto che invece riconoscerebbe solo un debito di 1200 lire) e non starebbe in piedi né contabilmente né giuridicamente.
Inoltre qui interverrebbero ulteriori difficoltà legate alla natura dell’altra metà del debito pubblico , il cosiddetto debito«fittizio» (denominabile anche Target 2). La denominazione in «debito fittizio» indica la natura opinabile e criticabile di tale quota del debito. Ma dato che tale procedura di contestazione non è stata attivata fin’ora dalle nostre istituzioni nazionali, se si convertisse sic e simpliciter tale quota del debito pubblico dall’euro alla lira, sorgerebbero notevoli problemi. Infatti Banca Italia ha in questo momento un debito verso le banche dell’ eurozona di 350 miliardi di euro. Questi soldi sono i trasferimenti valutari dei residenti italiani verso i non residenti dell’ eurozona. Questi 350 miliardi di debito di Banca Italia sono stati convertiti in titoli depositati dalle banche commerciali presso di essa in cambio dei bonifici effettuati verso i creditori esteri.
Facciamo un esempio concreto: Io sono cliente di Banca intesa, mando 1.000 euro di bonifico in Germania, Banca Intesa sposta 1.000 euro di titoli o di cassa (banconote) in Banca Italia e Banca Italia non sposta 1.000 euro in Germania ma scrive un debito verso la Bundess Bank che provvederà a mettere 1.000 euro sul conto del cittadino tedesco. Banca Italia ha quel debito o passivo ma avrà anche come attivo i titoli di stato corrispondenti depositati presso di lei da Banca Intesa. Finchè siamo dentro l’euro l’attivo è pari al passivo ed è sempre denominato in euro, il passaggio a una nuova valuta comporterebbe una sua svalutazione rispetto alle altre valute ( euro, dollaro, yuan) di circa il 25, 30%.
Così Banca Italia si troverebbe all’attivo titoli svalutati di circa il 30% , mentre al passivo avrebbe un debito in euro che rimarrebbe al valore nominale. Il 30% di 350 miliardi fa oltre 100 miliardi di euro, che sarebbe la perdita secca di Banca Italia. L’unica contropartita possibile sarebbe che Banca Italia investisse i titoli o la liquidità che ha all’attivo in titoli tedeschi o di altri paesi interni all’eurozona.
Ricordando che il debito pubblico è suddiviso in quota parte al 63 % in mano a creditori residenti in Italia e al 37% in mano a creditori esteri, un ulteriore ostacolo si frapporrebbe alla conversione immediata e unilaterale dall’euro alla lira. Sono le cosidette «Clausole di azione collettiva», le norme inserite nei contratti di emissione dei Btp (dei titoli di Stato) dal 1 gennaio 2013. Queste clausole (di cui si è avvalso l’emittente dei titoli di Stato, il ministero del Tesoro o dell’Economia, una scelta non obbligata ma volontaria) dicono che la denominazione della valuta, la scadenza dei titoli, il tasso d’interesse, e tutta una serie di parametri sul debito possono essere rinegoziati dall’emittente alla loro scadenza, se non c’è l’opposizione di almeno il 25 % dei creditori/ detentori di titoli. Siccome il nostro debito pubblico si rinnova ogni 7 anni, e siamo al sesto anno di scadenza, ciò significa che tra due anni il debito pubblico sarà modificabile in ridenominazione etc, se non c’è l’opposizione del 25% dei creditori. Ma il 37 % dei creditori non residenti in Italia è plausibile che non accetterà queste modifiche perché non vorrà avere il suo credito ridenominato in una valuta domestica svalutata. Queste Clausole bloccano la ridenominazione in lire o fiorini che dir si voglia.
Una mossa importante, non volta ad aggirare il debito pubblico italiano ma a ridurre la sua massa ingente, come accennavamo sopra, sarebbe quella invece di contestare la legittimità giuridica di denominazione di debito a quella metà soggetta al Target 2, la volontà di ridenominarlo «debito fittizio» . Questa metà circa (1100 miliardi di euro) è costituita da titoli di Stato venduti dal nostro Tesoro ai soggetti bancari dell’ Eurozona: 600 miliardi alle banche commerciali dell’eurozona, 250 miliardi alla BCE , 250 miliardi a Banca Italia.
Ma qual’è la caratteristica di questa massa di moneta ( M2 o Target 2) ? Questi soldi che sono stati dati in prestito nelle aste in cui il Tesoro vende i titoli di Stato sono stati in larghissima parte creati dal nulla dalla BCE che li ha accreditati sui conti di corrispondenza che le banche commerciali detengono presso di essa. Se Deutsche Bank fa un offerta di un miliardo di euro per acquistare Btp o Bot italiani alle aste mensili del Tesoro (ogni mese circa 35/ 40 miliardi di euro) al tasso del 1% , il bonifico che la banca commerciale fa al tesoro arriva da un conto corrente che la stessa banca ha aperto presso la Bce.
Quando parliamo di quantitative easing, di facilitazione d’immissione di liquidità nel sistema da parte della Bce, è esattamente questa partita di giro. Non è un debito, è semplicemente una posta contabile che contabilizza o formalizza l’entrata di liquidità nel sistema. Questa funzione potrebbe essere restituita a quello che era il circuito interno tra Banca Italia e Tesoro, prima del 1981. Questo debito non debito dovrebbe essere più correttamente chiamato «emissione di liquidità» e posta come tale nel passivo del Tesoro; una posta o somma che non è rimborsabile perché sarebbe come ridare soldi alla tastiera di un computer.
E come si può farlo praticamente? Sostituendo i titoli di Stato in scadenza con una rendita irredimibile e non fruttifera. Questa funzione di tesoreria è delegata alla Bce secondo il TFUE (Trattato di Funzionamento dell’Unione Europea) , quindi non è da rimborsare come debito. I principi di contabilità internazionale che si chiamano IAS, a cui tutti i bilanci pubblici e privati fanno riferimento per la contabilizzazione di costi, ricavi e debiti, impongono delle caratteristiche ben precise per l’iscrizione di un credito / debito che mancano nel caso della BCE: il principio che qui manca è che la moneta prestata deve essere preesistente al momento dell’effettuazione del prestito.
Questa moneta non è preesistente perché viene creata dal nulla nello stesso momento in cui una banca commerciale creditrice attinge al conto corrente presso BCE per fare un bonifico al Tesoro dei titoli che ha appena acquistato da esso. Quindi manca il requisito per l’iscrizione di questi titoli da parte della banca commerciale come credito nei confronti del Tesoro. Questa parte del debito non debito, «il debito fittizio» appunto, è quasi il 50 % del debito pubblico totale, su cui il Tesoro paga anche il tasso d’interesse sull’emissione dei suoi titoli.
La mossa di contestazione della legittimità di questa parte ingente del debito pubblico sarebbe certamente non meno radicale dell’uscita unilaterale dall’euro, ma avrebbe, in caso di successo, conseguenze liberatorie nei confronti della schiavitù del debito a differenza dell’altra. Richiederebbe un governo e un ministero dell’economia decisi e coraggiosi, caratterizzati da un unità d’intenti e da una chiara visione globale anti neoliberista (in poche parole una visione macroeconomica). L’attuale governo è pressato e attaccato da più parti, non solo dalle tradizionali opposizioni parlamentari che svolgono legittimamente il loro ruolo, ma anche e sopratutto dal sistema dei media main stream uniformemente schierato, al pari delle prime, su posizioni a difesa dell’ establishment dell’oligarchia economica-finanziaria, così come dalle principali istituzioni della UE, e, insospettabilmente anche da supreme istituzioni nazionali che dovrebbero, secondo mandato costituzionale, svolgere il ruolo di arbitri imparziali, in nome dell’interesse nazionale.
Inoltre quella coesione interna alla compagine governativa, che sarebbe richiesta per resistere a queste pressioni, non è resa possibile dalla presenza di personalità dall’atteggiamento e dallo spirito ambiguo nei confronti del dettato del programma di governo. Ogni riferimento al ministero dell’economia e a quello degli esteri non è puramente casuale. La manovra economica in corso è quella resa possibile dall’attuale temperie.
La considerazione di mosse giuridico-contabili finalizzate a creare una strategia di uscita dalla trappola del debito pubblico e a neutralizzare il ricatto dei mercati finanziari, così come delle contromosse della BCE e della Commissione europea, di cui la contestazione del debito fittizio è sola una tra le diverse possibili, allo scopo di ridare fiato alla domanda interna e agli investimenti, tanto pubblici che privati, sarà però una necessità impellente nell’immediato futuro di questo governo. A questa strategia ci dedicheremo nei prossimi contributi.