Il saggio scrittore australiano Patrick White (1912-1990), provocatorio e ironico attivista per i diritti umani, premio Nobel per la letteratura nel 1973, si domandava, negli anni ’70, quando sarebbe venuto il tempo in cui i bianchi avrebbero considerato anche i propri luoghi come aree sacre “indigene” da proteggere dall’inquinamento, dalla devastazione, dalla speculazione, dal degrado, dalla cementificazione illimitata e da tramandare di generazione in generazione, come contenitori portatori di valori universali, non solo economici, così come ogni cultura del mondo.
Anche i luoghi abitati dagli europei, anche se gli europei se lo sono dimenticati (dimenticando la propria “indigenità”), sarebbero e sono sacri nell’accezione “indigena” del termine (se solo lo pensassimo), in quanto abitati nei secoli e nei millenni da generazioni, spazi che hanno accolto sentimenti, preghiere, speranze, vite vissute. Eppure gli europei non sono più “indigeni” (tutt’al più sono stati e sono di nuovo nazionalisti e sovranisti, cosa assai diversa, benché qualcuno insinui il contrario), hanno inventato gli indigeni, come qualcosa di distinto e completamente diverso da loro, nei secoli, li hanno trattati, perseguitati, deculturati, evangelizzati, acculturati, segregati, protetti, emarginati o studiati, ma sempre come alieni, come un corpo estraneo.
Del resto per un europeo (o per un “papalagi”, per citare il famoso libricino apocrifo) dove c’era una casa vecchia, per quanto piena di storia, se ne può costruire sempre una nuova, quella casa non ha un’anima da custodire e rispettare, la sua storia e le storie che l’hanno attraversata hanno perso importanza e valore se non è più utile, spendibile, economicamente profittevole. Basti pensare ai boom edilizi che hanno fatto scempio di svariati centri storici, italiani ed europei, per non parlare, ovviamente, di campagne, boschi, coste, montagne e fiumi.
Quando muore un bianco quasi nessuno tra i bianchi penserebbe che se ne vada con lui un mondo, che finisca un mondo (come invece pensavano e pensano i popoli ancestrali), tutto va inesorabilmente avanti, in una rigida divisione del tempo in passato, presente e futuro, in cui ogni idea o sospetto di ciclicità e immanenza scompare, in cui il destino è sempre una freccia che punta inesorabile e inarrestabile dritto, innanzi, a una sola direzione e dimensione.
Davi Kopenawa, con il suo memoriale, racconto o testo sacro: La caduta del cielo, pubblicato dall’antropologo Bruce Albert, nel 2013, sembra voler andare nella direzione di rammentare ai bianchi la via.
Kopenawa è nato nel 1959, capo sciamano e rappresentante internazionale del suo popolo amazzonico, gli yanomami (che contano oggi circa 30.000 individui, sul confine fra Brasile e Venezuela), fin dagli anni ’90 (grazie a Survival International), quando ci furono una serie di attacchi, repressioni, depredazioni efferate e massacri (si ricordi in particolare Haximu, 1993), ai danni del suo popolo, da parte di gruppi di cercatori d’oro, in combutta con esercito e polizia brasiliani. Prima, gli yanomami erano già stati perseguitati e depredati dai raccoglitori di gomma e poi a causa della costruzione di autostrade che attraversano la foresta.
Oggi sono decimati dal covid e dalle azioni repressive e devastatrici del presidente nazista Jair Bolsonaro e dei suoi sponsor industriali, il quale è per altro tornato a sostenere addirittura che i popoli indigeni non abbiano un’anima.
Kopenawa, combattente, dichiara fin dall’inizio di voler spiegare ai bianchi le cose che non sanno o hanno dimenticato, affinché possano saperle. A quanto si apprende dalla lettura del suo libro sognare, per gli yanomami, non è qualcosa di avulso dalla vita, anzi si viene educati ai sogni e dai sogni, nella sua cultura.
Kopenawa osserva che ciò che preoccupa i bianchi è soltanto il presente, come qualcosa di indipendente dal passato e dal futuro, “non pensano molto lontano davanti a sé”. Lo sciamano non ha istinti vendicativi o di rimprovero, il suo intento è dichiaratamente quello di far capire che la loro foresta è bella e silenziosa, lì vivono gli yanomami e vivevano senza inquietudine, fin dall’inizio dei tempi, fino all’arrivo dei bianchi.
Gli yanomami non sono interessati al progresso e al commercio, ma il loro destino non è diverso da quello di tutti gli altri popoli della terra, riguarda tutti gli uomini, anche i bianchi stessi. La loro foresta è metafora del mondo, della terra di tutti. Se non la proteggiamo, ci insegna Kopenawa, i nostri discendenti non avranno dove vivere felici come i loro antenati.
Kopenawa si spinge a dire che il suo libro dovrebbe servire a svegliare i bianchi, a far loro capire che la loro fame insaziabile li porterà all’autodistruzione (passando prima per la prevaricazione e l’annullamento di tutte le altre culture). I padri dei bianchi infatti, per Kopenawa, dovevano essere poco intelligenti per aver lasciato una terra nuda e ridotta in cenere, impregnata di fumi e veleni, ai loro figli.
La parola è vivente per lo sciamano, il suo testamento è come un essere vivente, la cui magica pelle, capace di creare immagini che gli sopravvivranno, come i demoni con i quali danzano gli sciamani (gli stessi spiriti che scelgono e affidano i nomi degli individui, non i genitori o la famiglia), e porteranno a tutti gli uomini lo spirito di Kopenawa, che è quello di far ascoltare la sua voce, e quella del suo popolo, ai bianchi distratti.
Gli yanomami non hanno bisogno di quelle “pelli di immagini” per impedire alle parole di scappare via, perché la loro memoria è un organismo vivente. E gli uomini senza memoria e senza attenzione dormono e vivono senza sogni, “come oggetti dimenticati”.
Prima che cadesse il cielo e gli dei se ne andassero i bianchi non esistevano, secondo Kopenawa, come gli hanno insegnato i suoi avi. Con i bianchi sono arrivati il morbillo e altre malattie, prima, secondo lo sciamano, gli yanomami non si ammalavano così spesso come accade oggi. Oggi per lo sciamano anche gli spettri dei morti si ammalano e cavalcano ammalati verso l’aldilà dove continuano a soffrire. Gli anziani si spegnevano come tizzoni di un fuoco, quando avevano la testa bianca ed erano ormai ciechi. Diventavano secchi come alberi morti e si spezzavano. Gli spiriti danzavano con gli uomini perché c’erano molti sciamani che li curavano e custodivano la foresta.
Kopenawa viene quindi a delineare una sorta di “età dell’oro”, negli ultimi capitoli del suo ricchissimo e lungo testo. Un’età nella quale il pensiero non era offuscato dalle merci dei bianchi e dalle loro epidemie, in cui gli uomini amavano le proprie parole e per questo erano felici, la loro mente non era altrove, lavoravano e parlavano di quel che facevano. Possedevano i propri pensieri. Oggi le preoccupazioni portate dai bianchi sono di ostacolo al pensiero, la foresta ha perso il suo silenzio, “le loro parole entrano nei nostri pensieri”. Kopenawa non crede che i bianchi se ne andranno e li lasceranno di nuovo soli, con i loro pensieri, nella foresta.
L’idea di ciclicità della storia sembrerebbe quindi persino essere scomparsa dall’orizzonte degli yanomami, il cerchio si è spezzato, il paradiso era (e forse sarebbe sempre) già qui a portata di mano, senza realizzazioni o sforzi o imposizioni particolari, ma nel silenzio, nel possesso dei propri pensieri, nella cura della natura e dell’esistente. Non a caso i malati si portano le loro malattie nell’aldilà perché quello che è di questo mondo riguarda anche l’altro mondo, che sia un tradizionale aldilà o che sia solo un luogo dell’anima, dentro noi stessi, è una dimensione che fa parte della vita dell’uomo, che lo cura, o si ammala e muore con lui, nel suo annichilimento. Senza sogni, fantasia, visioni, immaginazione si vive come cose dimenticate, così come senza cura per la natura.
Le parole di Kopenawa riecheggiano quelle del celebre uomo medicina sioux Alce Nero (1863-1950), sopravvissuto sia alla battaglia vittoriosa di Little Bighorn (1876), sia all’eccidio di Wounded Knee (1890).
Alce Nero infatti, ne La Sacra Pipa, ne Il sesto antenato, in Alce Nero parla, narra di un’epoca d’oro nella quale si era felici, non si pativa la fame e bipedi e quadrupedi vivevano come parenti, in armonia, con abbondanza per tutti.
Descrive il mondo come un cerchio che si è rotto, come un sogno ucciso e a volte i sogni sono più saggi della veglia. Il destino di tutti gli uomini, per Alce Nero, è comune, per quanti inverni gravino sulla testa di un individuo, tutti siamo destinati a diventare erba sui monti e quindi quel cerchio spezzato, quel sogno trafitto, quella visione, sono il vero destino che ci accomuna, il compito dovrebbe essere quello di ritrovare il centro di quel cerchio, in cui sta a ogni singolo uomo cercare una vita sacra e felice, da cui si parte per tornare e si inizia per finire, poiché Madre Natura e il Grande Spirito sono genitori generosi e misericordiosi, le sei direzioni (nella cultura Lakota che Alce Nero tramanda), nord, sud, est, ovest, sopra, sotto, sono come nonni affettuosi che accompagnano l’umanità con i loro doni, in una visione dell’uomo multidimensionale e non unidimensionale. Alce Nero parla chiaramente di un popolo costretto a fuggire da un rifugio all’altro in una terra in cui abitava dall’inizio dei tempi, in una visione della storia e del “potere del mondo” in cui tutto si muove in circoli, ovvero in cui tutto è ciclico.
Così credevano pressoché tutti i popoli antichi del mondo che ci è dato conoscere. Così credono ancora i popoli ancestrali.
Il gesuita eretico e mago normanno Guillaume Postel (1510-1581), di umili origini, elevatosi grazie alla sua intelligenza e cultura, nei suoi numerosi scritti (in particolare ne La chiave delle cose nascoste) teorizza qualcosa con affascinanti assonanze con Davi Kopenawa e Alce Nero.
Poliglotta, giovanissimo maestro, studioso di letteratura islamica e di cabbala ebraica, in seguito assunto alla corte di Francia come insegnante di lingue ed interprete-traduttore, Postel rappresentò il re di Francia presso il sultano, si dedicò in particolare allo studio di ebraico, aramaico e arabo, fu il primo traduttore del Vangelo in arabo, con l’intenzione di far conoscere il cristianesimo a un mondo apparentemente ostile e contrapposto. Attratto dalla cultura di Ignazio di Loyola, fu tra i primi ad aderire alla Compagnia di Gesù e si trasferì a Roma, da cui in poco tempo fu espulso e allontanato per la sua indisciplina teologica e filosofica.
Fu a Venezia ad assistere gli appestati all’Ospedale dei derelitti, dove incontrò Madre Giovanna, figura messianica per Postel, per niente persuaso dell’inferiorità delle donne, la vecchia suora secondo lui incarnava un Cristo femminile, la Madre Terra stessa, il cui culto è secondo Postel necessario quanto quello dello Spirito (Spirito Santo/Grande Spirito?).
Di qui incominciò il suo peregrinare, in buona compagnia nei secoli delle riforme e delle guerre di religione, insieme a diversi altri personaggi (come Giorgio Siculo, autore del misterioso scomparso Libro Grande), perseguitati da tutte le chiese e da tutte le fedi, per il loro ecumenismo, per il loro pacifismo, sempre oltre i tempi, alla ricerca di qualcuno che li potesse comprendere, ormai ci sono così estranei e lontani, sepolti come sono dalla polvere dell’impietosa “macchina della dimenticanza” della storiografia dei grandi fatti e dei grandi personaggi.
Postel cercò di persuadere prima il re di Francia (Francesco I), poi il re di Spagna e imperatore del Sacro Romano Impero (Carlo V), nonché suo fratello (l’imperatore Ferdinando) e infine il sultano ottomano (Solimano), ovvero i quattro maggiori poteri dell’epoca, a farsi portavoce, ciascuno con ciascun altro, di un programma di concordia universale, di un’unione dei popoli che potesse superare divisioni politiche e religiose.
Non solo Postel teorizzò un governo mondiale dei popoli, riuniti in una religione universale (nella quale tutti i profeti e i libri sacri sarebbero stati riuniti), ma teorizzò persino una “lingua di Adamo”, insieme ad altri eretici fiorentini, ovvero la lingua edenica, che gli uomini avrebbero parlato prima della Torre di Babele (la dimostrazione di tracotanza che, secondo la mitologia biblica, avrebbe comportato la punizione divina, rendendo gli uomini divisi, reciprocamente incomprensibili e dunque originato le diverse lingue).
Secondo un bizzarro mito infatti Noé sarebbe stato fondatore del popolo etrusco, l’etrusco quindi sarebbe stata la lingua indigena originaria del mondo (ancora oggi piuttosto misteriosa, sicuramente pre-indoeuropea), gli etruschi stessi sarebbero “indigeni” spazzati via dall’imperialismo latino-romano. Che questa teoria mistico-linguistica abbia a che fare con la forte aspirazione di certe consonanti, nel toscano, che fa pensare alle lingue semitiche? Chissà. Se aggiungiamo che gli etruschi, in quanto popolo precedente all’arrivo degli indoeuropei, furono ritenuti “antenati turanici”, dai sostenitori della teoria turanica (i turani sarebbero cugini primi dei popoli semitici), una teoria geografico-antropologica che pretenderebbe di affermare un’ancestrale comune origine, affinità e familiarità fra popoli non indoeuropei d’Europa (etruschi, baschi, sardi, magiari, estoni, finnici, turchi, lapponi) e popoli centro-asiatici, siberiani e nativi americani, il cerchio si potrebbe chiudere qui.
Ma al di là di fantasiose e affascinanti tesi che si perdono nei meandri della preistoria, la riflessione sulla sacralità della parola, il bisogno del ritorno a una parola che sia discesa direttamente dal divino, che coincida con il pensiero, una parola alla quale consacrarsi, che generi visioni e sogni è qualcosa che mette incredibilmente e poderosamente in relazione il pensiero di questo eretico mistico normanno cinquecentesco con il pensiero di Kopenawa.
Ci restituisce una “tradizione indigena” europea, repressa, silenziata, censurata e oscurata ma che tuttavia, anche qualora non ci possa consentire di aderire perfettamente alla coscienza e alla prospettiva di Kopenawa e della sua gente, dai quali ci separano atteggiamenti e tendenze accumulati nei secoli, ci può comunque far intuire che anche per qualche europeo, di secoli fa, senza grosse influenze ancora dal mondo indigeno americano, è stato possibile concepire una visione “indigena” (cosmopolitica) piuttosto originale di unione dei popoli della terra alla pari, che la Natura è Madre e genera figli fra loro diversi come alberi in una foresta, ma portati per natura stessa al ritorno a una storia ciclica in cui il ritorno dell’età dell’oro e dell’amore universale è imminente ed è un orizzonte sempre presente, che deve essere tenuto vivo dal dialogo interreligioso, interculturale, interlinguistico, in cui nessuno ha un peso maggiore o minore di un altro.
Per quanto riguarda la teorizzazione di una lingua universale, in strettissima relazione con l’idea di religione universale, come non pensare anche al linguista ebreo polacco Ludovico Lazzaro Zamenhof (1859-1917)? Che non si limitò ad inventare, alle soglie della Grande Guerra, una lingua universale: l’esperanto (da speranza), attingendo parole e grammatica e traendo ispirazione da tutte le lingue del mondo, ma sognò anche una religione universale: l’homaranismo, la cui lingua sacra è l’esperanto, la lingua di tutti, e la fede si sintetizza nel guardare l’intera umanità come un’unica famiglia e vedere in ogni uomo soltanto il suo valore personale e quello delle sue azioni, a prescindere da ogni altra cosa e contesto.
Tornando all’eretico Postel inutile dire che, pur riscuotendo un certo successo come mago e cabbalista, finì i suoi giorni in prigionìa, in Francia, e condannato all’oblìo, come tanti altri suoi contemporanei, i quali, predicando l’apertura e il dialogo, si ritrovarono condannati da tutte le chiese e da tutte le fedi, riformiste e controriformiste.
Tuttavia va notato come i gesuiti, che pure espulsero Postel, furono poi destinati a una storia di evangelizzazione degli indigeni, in particolare, come noto, fra i guaranì del Paraguay, dove, pur essendo in veste di evangelizzatori, appresero, raccolsero, custodirono, salvarono e tramandarono molto delle culture indigene (lingue comprese), in una brillante fusione culturale, tanto da diventarne parte fino a combattere e cadere per la difesa di quelle stesse comunità, generando un peculiare tipo di Chiesa che arriva finalmente sino al Querida Amazonia di papa Francesco (gesuita), del 2020, in cui il pontefice si è spinto ad esortare la Chiesa non solo all’ecologismo ma anche a scoprire il proprio “volto amazzonico e plurale”, aperto ai popoli piccoli, esclusi dalla Storia, ad imparare anche dai popoli non cristianizzati (già papa Paolo III ne aveva vietata, inascoltato, l’evangelizzazione forzata, nel lontano 1537, riconoscendo agli indios la dignità di persone con un’anima a prescindere dal battesimo).
Già l’inglese Thomas More, amico di Erasmo e condannato a morte da Enrico VIII, secondo gli antropologi Alfred Metraux e John Victor Murra, si ispirò per il suo Utopia, alle prime notizie che arrivavano sull’impero degli Inca e sulla loro forma di governo illuminata, sociale e al contempo meritocratica, che a quanto pare impressionò anche il filosofo rinascimentale francese Montaigne nei suoi Saggi, nei quali (a fine Cinquecento) dimostrò, senza peli sulla lingua, tutta la sua perplessità e contrarietà in merito alla congruità della definizione di “selvaggi”, per gli indigeni americani. Certo furono “voci nel deserto”.
È quell’immergersi nelle cose, cercare ed entusiasmarsi nel plurale come consacrazione di sé alla vita cosmica, in cui corpo e spirito non sono che specchi, in cui la creazione fa parte della salvezza e viceversa, perché l’uomo continua a creare a fianco di dio, come pastore, come custode della natura, non come padrone, un sentire che corrisponde anche alla figura ereticale del gesuita Pierre Teilhard de Chardin (1881-1955), discendente del filosofo illuminista Voltaire e non per niente accusato di “panteismo” (ovvero di credere che Dio sia tutto e in tutte le cose). Egli scriveva: “Nel mondo tutto accade come se l’universo potesse variare in una terza direzione, quella del complesso, dal momento che la vita è effetto della complessità”. Nella visione di Teilhard, prete naturalista, il pensiero umano non sarebbe che approdo e confluenza del cosmo, nel cosmo e per il cosmo, al di fuori del quale perde ogni senso, valore e significato.
In tempi di epidemie è un canto-preghiera navajo che ci soccorre e sembra ricucire insieme i fili di queste storie, che sembra mettere in comunicazione fra loro questi tempi, luoghi e personaggi, fratelli di pensiero, ma lontanissimi fra loro in tempo e spazio, dei quali ho parlato: quando il male uscirà da me, camminerò con la bellezza, attraverso l’avvicendarsi delle stagioni, sul sentiero segnato dal polline, con la rugiada attorno ai piedi, sarò leggero vagando su un sentiero di bellezza, le mie parole saranno bellissime.
Bibliografia:
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- L. Kuntz, Guillaume Postel: prophet of the restitution of all things. The life and thought, Springer Netherlands, Heidelberg, 1981.
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- Postel, La chiave nascosta delle cose nella costituzione del mondo, Fratelli Melita, La Spezia, 1987.
- Bonicelli Verrina, Pal Teleki, Elison, Novoli, 2016 (a proposito di teoria turanica).
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- Prosperi, L’eresia del Libro Grande, Feltrinelli, Milano, 2011.
- Prosperi, La vocazione. Storie di gesuiti fra Cinquecento e Seicento, Einaudi, Torino, 2016.
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- V. Murra, Formazioni economiche e politiche nel mondo andino, Einaudi, Torino, 1980.
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