Fonte: ytali.com
Url fonte: https://ytali.com/2018/09/25/conversando-con-dalema-di-politica-internazionale/
Dall’America Latina alla Cina, passando per l’era Trump e la crisi della sinistra in Europa. Quella concessa a ytali. da Massimo D’Alema, già presidente del consiglio e ministro degli esteri, oggi alla guida della Fondazione ItalianiEuropei, è davvero una intervista a tutto campo. Un campo globale.
Cominciamo dalla tua ultima missione. In Brasile, dove hai anche avuto modo d’incontrare Lula nella sua detenzione. Ci racconti com’è andata?
Innanzitutto vorrei dire una cosa, perché il grande pubblico italiano forse non ha una informazione precisa su quanto accade in Brasile. Lula è vittima di una persecuzione priva di qualsiasi fondamento. I molti ed eminenti giuristi che hanno esaminato il caso, e tra questi vorrei citare Luigi Ferrajoli, hanno rivoltato criticamente, entrando nel merito, un processo che ha portato a una condanna mostruosa, dodici anni di prigione per un procedimento acceleratissimo il cui fine evidente era di escluderlo dalla campagna presidenziale. Una campagna che Lula avrebbe vinto a mani basse. I sondaggi lo indicano come il primo, con venti punti di vantaggio sul secondo. Ebbene, i giuristi che hanno letto le carte, seguito il dibattimento, hanno, tutti, evidenziato che si è trattato di un processo basato sul nulla.
Lula è accusato di aver ricevuto in dono una casa, di cui non ha mai preso possesso. E non esiste un atto che attesti la sua proprietà. Anzi, è di un altro. Questa accusa è suffragata esclusivamente da testimonianze, non esistendo alcuna prova documentale, di pentiti, cioè di persone condannate a lunghe pene detentive per corruzione, alle quali è stato promesso la libertà in cambio del fatto che denunciassero Lula.
Un’operazione incredibile!
Il Comitato dell’Onu per i diritti umani ha chiesto che si consentisse a Lula di partecipare alla campagna elettorale, dopotutto non è neppure condannato in via definitiva per un reato che non ha commesso. Vorrei che ci si rendesse conto che quello che accade in Brasile, al di là degli errori che sono stati compiuti dal Pt, dal governo, è una sorta di vendetta di classe.
Si è costruita una violentissima campagna d’informazione contro Lula, soprattutto da parte del Globo, che è il gruppo assolutamente dominante del sistema informativo brasiliano. C’è stata una forte pressione delle forze armate: il capo di stato maggiore delle forze armate alla vigilia del pronunciamento della Corte suprema, ha detto che l’esercito non avrebbe tollerato un pronunciamento che apparisse debole nei confronti della corruzione.
Il messaggio era indiscutibile.
Non dimentichiamo che stiamo parlando di un Paese che fino agli anni Ottanta ha avuto la dittatura militare. E non è un caso che questa vicenda abbia suscitato un allarme diffuso e trasversale. Io sono stato lì a fare una iniziativa sulle minacce alla democrazia, nella quale i relatori non eravamo soltanto il sottoscritto e Zapatero, che possiamo essere sospettati, a ragione, di una simpatia politica e umana verso Lula, ma c’era, ad esempio, Dominique de Villepin, un conservatore francese che è stato anche primo ministro. Starei molto attento a considerare il caso di Lula come un caso di corruzione.
È una vicenda che ha ben altro profilo. Baltasar Garzon, che è stato il “Di Pietro spagnolo”, ha firmato un appello a favore di Lula e di condanna del modo in cui è stato processato, senza garanzie. La cosa che veramente colpisce, è che malgrado tutto questo, Lula resta la personalità politica di gran lunga più popolare del Brasile. Che gode del più alto consenso, della più alta credibilità. Esiste una connessione sentimentale tra lui, chiuso lì nella custodia del Distretto federale di polizia di Curitiba dove io sono andato a trovarlo, e il popolo brasiliano. E questo è un evento persino “misterioso”. Ora ti faccio vedere una cosa (e nel dirlo apre il suo iphone…)
Prego, presidente…
Sono gli ultimi sondaggi che ho ricevuto stanotte dal Brasile. Il candidato di Lula, il 20 agosto era al quattro per cento. Guarda ora dove sta: al 22, a soli sei punti dal candidato della destra. Guarda ora la simulazione del ballottaggio: questo candidato è sconosciuto ai più. Mi ha raccontato lui la sua passeggiata nella favela di Rio. Passava questo uomo attraente, la gente un po’ incuriosita lo era pure, ma poi qualcuno ha detto: “è il candidato di Lula”. A quel punto la gente è uscita dalle case, si è riversata nelle strade: una cosa è impressionante. Ti vorrei far osservare (sempre dall’iphone, ndr) la simulazione del ballottaggio tra lui e il candidato della destra: lo danno di vantaggio di sei punti, con una crescita esponenziale.
Il Brasile è un Paese immenso, dove la memoria che questo Lula ha liberato trenta milioni di persone dalla fame e dalla povertà, è una memoria che è rimasta nella coscienza del popolo, malgrado che la televisione lo tratti come un bandito, e lo stesso dicasi per i grandi giornali, ma questo elemento di riconoscenza è fortissimo. Quella di Lula, a mio avviso, è una personalità che segna la storia.
In che senso?
Intanto è stato il più grande presidente del Brasile. Ne ha fatto un Paese protagonista sulla scena mondiale. Se si fosse ricandidato nel 2014 – non ha voluto per generosità verso Dilma Rousseff – avrebbe stravinto le elezioni. Ha fatto l’errore della vita. E un uomo politico, è un combattente… Abbiamo parlato per un’ora e quaranta, e per almeno mezz’ora ha parlato della lotta alla fame nel mondo. Non ha mai parlato delle sue vicende giudiziarie, salvo che per dire una cosa: che gli era arrivato il rumor che se accetta il braccialetto elettronico lo liberano. Lui ha detto
è un’umiliazione che non accetterò, meglio rimanere qui dentro a testa alta, aggiungendo che è anche più utile per la campagna elettorale. Io voglio un processo giusto.
Ha proibito al candidato del Pt, Fernando Haddad, di parlare di indulto, che è nei poteri presidenziali.
Ora la vicenda è di fronte a una sorta di Corte di cassazione che se rileverà, come secondo me è evidente, dei vizi formali, obbligherà a una ripetizione del processo e lui punta a questo e non ad avere altre vie di uscita. L’uomo è notevolmente forte. C’è una mobilitazione del Brasile democratico, e una disponibilità di altri candidati, in particolare quello del centrosinistra, Ciro Gomes, che è una personalità molto forte, il quale ha già detto che se va al ballottaggio Haddad, lo sosterrà. Dall’altra parte c’è il candidato delle forze armate: il vice presidente scelto da Jair Bolsonaro, un uomo di estrema destra, è un generale in pensione. Bolsonaro è ostacolato dalla sua misoginia. Ha fatto una violenta campagna contro le donne, e questo non lo aiuta, perché si è formato un grande movimento di donne contro di lui. È un candidato che ha un forte consenso ma che ha anche un forte rifiuto. A fronteggiarlo è il capo del Pt che ha come sua vice presidente indicata la giovane leader del partito comunista.
Hai fatto riferimento a Lula come a un leader carismatico. Ma se si volge lo sguardo più in generale, al continente latinoamericano e ci si concentra su ciò che avviene a Caracas, a Managua, a La Paz: personaggi carismatici dell’America Latina sono oggi considerati autocrati pericolosi ubriacati dal potere. Come spieghi questa deriva e venendo in particolare al Venezuela, che considerazioni fai sulla crisi che vive quel Paese?
Sono casi che bisogna stare attenti, a mio avviso, a non mettere sullo stesso piano. Nei confronti di un Daniel Ortega invecchiato e in rotta fra l’altro con le ragioni originarie del movimento sandinista e anche con una buona parte di quello che resta del gruppo dirigente di quel movimento, io sono molto critico e verso di lui lo sono anche, e molto, i brasiliani. Non metto sullo stesso piano Evo Morales e la situazione della Bolivia, e questo perché penso che il presidente Morales continui a rappresentare qualcosa di significativo, e che goda di un consenso reale non fondato sulla violenza della polizia o delle forze armate. Penso che quella del Venezuela sia indubbiamente una situazione grave e ritengo che a differenza di Hugo Chávez, che sicuramente aveva una componente autoritaria ma aveva anche un forte consenso, Nicolás Maduro sia uno che s’atteggia a Chávez senza esserlo.
La crisi del Venezuela è una crisi molto preoccupante. Intendiamoci, però: tutte le situazioni di questi Paesi sono rese molto più complicate, difficili, dall’atteggiamento degli Stati Uniti. Compreso il Brasile. La svolta reazionaria degli Usa ha un peso molto rilevante. Non è un caso che – non direi la fine della “Primavera latinoamericana” – sicuramente le difficoltà attuali, corrispondano con la svolta a destra degli Stati Uniti.
La presidenza Obama, pur con tutti i suoi limiti, aveva incoraggiato un processo progressista e democratico. Adesso s’incancrenisce un conflitto tra il nazionalismo populista latinoamericano e gli Stati Uniti d’America, e questo assume a volte anche i caratteri di spigolosità autoritarie.
Gli Stati Uniti non riescono a normalizzare l’America Latina, di certo, però, non aiutano un processo di crescita di una sinistra democratica, semmai di una sinistra populista e in qualche caso anche autoritaria in funzione “anti yankee”.
Prendi il Messico. Un Paese dove è molto complesso il fenomeno López Obrador. Tieni conto che la sinistra tradizionale messicana l’ha contrastato fino all’ultimo: “AMLO” ha creato un proprio movimento che noi definiremmo “populista”. Questo movimento ha avuto un successo enorme per due ragioni: in primo luogo, perché ha fatto della lotta alla corruzione la sua bandiera, e in effetti il livello di corruzione, soprattutto del partito-regime tradizionale, il Pri, era un livello insostenibile, e poi perché ha cavalcato il nazionalismo messicano contro gli Stati Uniti del Muro, contro Trump. Trump gli ha fatto la campagna elettorale, diciamo. Il populismo reazionario degli Stati Uniti eccita altri populismi, c’è poco da fare.
López Obrador ha avuto un successo travolgente: è raro che un presidente eletto messicano, abbia la maggioranza al senato e alla camera dei rappresentanti. Dove vada il Messico non lo sappiamo, ma è difficile pensare che López Obrador, che è un leader storico della sinistra messicana, lo porti a destra.
Non è finita la stagione progressista, però sicuramente l’accentuarsi di un conflitto con gli Usa tende a caratterizzare questo mondo progressista latinoamericano in chiave nazionalista e populista. Per questo è importante quello che può accadere in Brasile: perché la sinistra brasiliana non è populista. Capisco che questo attacco alla sinistra brasiliana possa avere dei sostegni internazionali.
A tal proposito, faccio una piccolissima notazione per capire fino in fondo lo scenario: uno dei punti di forza del governo del Pt è stato il fatto di aver stabilito per quanto riguarda lo sfruttamento del pré-sal – al largo delle coste brasiliane è stato trovato un giacimento di petrolio pari alle riserve dell’Arabia Saudita – che nessuno può trivellare se non in società con la compagnia statale brasiliana. Uno dei primi provvedimenti del governo golpista, dopo che la destra brasiliana ha cacciato con un colpo di mano la presidente eletta, è stato l’annullamento di questa misura.
Non è difficile capire come le grandi compagnie petrolifere nordamericane abbiano potuto apprezzare la svolta politica e quanti interessi sono in ballo, tanti e talmente rilevanti che spiegano molto del tentativo di distruggere Lula e il Pt.
Anche alla luce di queste riflessioni, ti chiedo: la sinistra, nelle sue diverse declinazioni, può reggere di fronte alle trasformazioni radicali che investono le diverse parti del mondo?
Io penso che noi stiamo vivendo una crisi di quella parte significativa della sinistra che sostanzialmente ha accettato il paradigma neoliberale. Per ragioni anche storicamente comprensibili. Perché all’indomani del crollo dello statalismo comunista, ma anche della crisi del modello socialdemocratico di fronte alla globalizzazione economica, è parso che la contaminazione con la cultura liberale fosse la nuova frontiera della sinistra.
La sinistra ha cercato di dare un’anima politica alla globalizzazione, elaborando una dottrina, un pensiero politico sintetizzabile in un liberalismo temperato del solidarismo socialista e cristiano.
Intendiamoci. Io mi sento partecipe di questa stagione e penso anche che abbia prodotto dei frutti. Ma è indubbio, però, che a partire dal 2008 si è sostanzialmente aperta una crisi di questo pensiero. Questo pensiero si è dimostrato non in grado di governare il mondo. Anzi, ha portato a una sottovalutazione delle diseguaglianze che si determinavano proprio per i caratteri assunti da una globalizzazione selvaggia.
La crisi della sinistra è lì. E siccome noi viviamo ancora questo lungo interregno di una crisi del neoliberismo, senza che però venga avanti un nuovo pensiero, una nuova pratica politica in grado di sostituirlo, è chiaro che in questa fase succede che la crisi della globalizzazione neoliberista genera i mostri del nazionalismo, i dazi, le guerre doganali. E la destra appare più in grado di interpretare questi processi, il che non significa che la sinistra è finita. Non è un destino ineluttabile. La sinistra deve lavorare a costruire una nuova stagione. Ma per farlo deve necessariamente partire da una riflessione critica su questa esperienza.
Cambiamo quadrante ma non tema. Nel tuo ultimo soggiorno a Pechino hai partecipato a una conferenza nella quale hai pronunciato un discorso su Marx. Ma non credi che il marxismo abbia oggi molto poco a che fare con l’attuale politica cinese?
Intanto va rimarcato il fatto che i cinesi abbiano organizzato un congresso mondiale sul marxismo, che era abbastanza impressionante per la rilevanza delle partecipazioni, la presenza del mondo intellettuale, in particolare americano. Ciò dimostra che c’è un ritorno di interesse per una cultura critica del capitalismo, che non è casuale, in quanto è legato proprio a quella crisi di cui abbiamo appena parlato.
I cinesi sono i primi che sanno benissimo che il loro legame con il marxismo è un legame non dogmatico. In questo congresso ho partecipato alle sessioni plenarie, ero uno degli speaker di quella iniziale, ma poi ci sono state delle sessioni di studio, più ristrette. Se ne sono svolte quattordici e io ho partecipato a quella sul marxismo e il socialismo con caratteristiche cinesi. Ero molto interessato a capire come loro tematizzavano questa questione.
La sessione era co-presieduta da un grande sinologo americano che insegna a Stanford e dal capo della scuola centrale del Partito comunista, praticamente uno degli intellettuali più importanti dell’establishment cinese. Questo signore ha fatto una relazione estremamente interessante. Ha detto, in sintesi: vedete, è chiaro che il nostro marxismo è temperato dall’esperienza e anche dal fatto che per noi, accanto al marxismo una fonte importante è la saggezza tradizionale cinese. Io sono in partenza per Pechino dove parteciperò a un dialogo su Confucio e la globalizzazione. Può sembrare una stravaganza, ma i cinesi ritengono che una visione armoniosa, come dicono loro, della globalizzazione ha il suo fondamento nel pensiero di Confucio. Non s’atteggiano a marxisti ortodossi. Non solo. Lo stesso capo della scuola di partito, la prima cosa che ha detto è che è evidente che l’idea marxiana dell’abolizione della proprietà privata non funziona e che noi anzi riconosciamo che la proprietà privata svolge un ruolo importante, è un forte stimolo alla produzione di ricchezza, al dinamismo della società… Però, ha aggiunto: il nostro marxismo critico parte dalla seguente considerazione, e cioè noi guardiamo all’esperienza della modernità come segnata da due grandi vie verso la crescita: una è stata l’esperienza sovietica, che ha peccato di un eccesso di statalismo, di un’ipertrofia della dimensione politica, ed è crollata per questo. L’altra è l’esperienza occidentale, che ha peccato di un’assenza della politica, di una progressiva cancellazione del ruolo della politica e dello Stato per affidarsi al mercato, e questo ha sì prodotto ricchezza ma anche instabilità, squilibri, crisi.
Ecco noi, ha proseguito, stiamo cercando, a partire da queste due esperienze, di costruire un rapporto bilanciato tra il mercato e la funzione di guida che deve essere esercitata dalla politica e dallo Stato. A questo discorso si possono fare molte osservazioni, ma non è così campato in aria. Loro ritengono orgogliosamente che questo loro modello sia quello che funziona meglio. Fin qui sicuramente hanno ottenuto risultati importanti. Poi, certo, loro sono alle prese con un grandissimo problema del quale sono consapevoli: dopo aver modernizzato l’economia, dovremmo modernizzare la società. Sono alle prese con problemi molto complessi di libertà dell’informazione, di pluralismo, il tutto con un incubo.
Qual è questo incubo?
L’esperienza gorbacioviana. Se nomini Gorbaciov, subito s’allarmano. Perché l’apertura politica che non aveva una solida base economica ha portato al crollo e noi, dicono i cinesi, non vogliamo crollare. Vogliamo governare il cambiamento. Le resistenze sono tante e diverse, ma prima di dire sommariamente che i cinesi sono un modello di capitalismo selvaggio, starei un po’ attento. Perché loro hanno avuto questa fase del capitalismo selvaggio, però adesso sono in piena revisione di quel modello di sviluppo.
Il tema dell’ultimo congresso del Partito comunista cinese è stato come correggere il modello di sviluppo selvaggio, in particolare sotto il profilo degli squilibri ambientali e delle diseguaglianze sociali e territoriali, soprattutto quelle tra città e campagna. Loro si sono posti il problema di come ridurre l’impatto ambientale dello sviluppo industriale, con grandissimi progetti, e di come avviare un’opera di riequilibrio sociale, ad esempio introducendo la pensione per i contadini, e dicendo che per fare questo avremo inevitabilmente un rallentamento del tasso di crescita, perché dovremo destinare una parte degli investimenti che prima orientavamo verso la crescita industriale, al risanamento ambientale e alla creazione di elementi di welfare. I cinesi lo stanno facendo.
La necessità di correggere rispetto a una logica di crescita selvaggia è un tema vivissimo del dibattito politico cinese. E anche da qui che è nata una leadership meno industrialista e più consapevole della necessità di uno sviluppo più equilibrato. La Cina è più complicata. Questo non vuol dire che non abbiano enormi problemi, la repressione del dissenso, il controllo di internet, tutte cose che noi non possiamo approvare, ma credo che si debba cercare di capire la complessità. E poi quando loro dicono, badate che se crolla la Cina non è un problema solo nostro ma è un problema del mondo, dicono una cosa che non è priva di una sua saggezza.
A proposito della potenza globale cinese, come degli accadimenti in America Latina, abbiamo incrociato l’America di Donald Trump. Gli Stati Uniti s’avvicinano alle elezioni di midterm. Pensi che l’eventuale sconfitta dei repubblicani possa rimettere in questione il ciclo trumpista? E con esso l’ondata che questa presidenza ha attivato nel mondo, e in particolare in Europa?
Io spero che le elezioni di midterm possano rappresentare quanto meno un freno, un argine. Ma francamente non credo che questa spinta nazionalista, sovranista, abbia esaurito la sua capacità propulsiva, né negli Stati Uniti né in Europa. Anche perché, ad ora, non c’è una risposta alternativa forte, persuasiva, un’altra visione strategica in grado assicurare uno sviluppo, per tornare ai cinesi, armonioso del mondo. Non credo che una pura linea difensiva come quella a cui si accenna in Europa, il fronte degli europeisti contro i biechi sovranisti, possa funzionare. Per quante cose aberranti questa destra porti con sé, temo che siamo di fronte a un ciclo che non si è esaurito e che non basti denunciare, cosa che va comunque fatta, quelle aberrazioni per riconquistare consensi e identità. Il nazionalismo, il sovranismo sono una risposta sbagliata a un problema reale. Finché non si trova una risposta giusta, efficace, al problema, ho l’impressione che sia difficile liberarsene.
UMBERTO DE GIOVANNANGELI
Umberto De Giovannangeli, da inviato speciale ha seguito per l’Unità gli eventi in Medio Oriente negli ultimi trent’anni. Collaboratore di Limes, è autore di diversi saggi, tra i quali “L’enigma Netanyahu”, “Hamas: pace o guerra”, “Al Qaeda e dintorni”, “L’89 arabo”, e “ Medio Oriente in fiamme”.