Dalla rabbia alla politica

per Gabriella
Autore originale del testo: Paolo Desogus
Fonte: facebook Mal Volio

di Paolo Desogus – 13 dicembre 2014

“C’è rabbia contro la politica” dice D’Alema, ed è vero. Il comportamento della sinistra PD non ha però certo contribuito a placarla e anzi l’atteggiamento ambiguo degli ultimi mesi ha legittimato l’accusa di collaborazionismo con l’ideologia neoliberista. Quel che è peggio dal mio punto di vista è che D’Alema, Cuperlo, Fassina e Bersani sanno perfettamente come stanno le cose. Chiunque infatti oggi voglia farsi un’idea può trovare nel dibattito interno e semiclandestino della sinistra PD analisi molto dettagliate (molto più dettagliate e realistiche di quelle che si leggono tra gli intellettuali della cosiddetta sinistra radicale) sulle condizioni in cui versa il paese e sul pericolo in cui ci sta trascinando il governo.

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Ma allora perché a questa consapevolezza non segue lo strappo definitivo con il governo? Le ragioni addotte sono tante. Nella sinistra PD vi è anzitutto il timore della scissione e del rischio – per la verità fondato – di svolgere un ruolo politico puramente di testimonianza in un partitino costretto per sopravvivere ad acchiappare i voti con inutili proclami o con proposte velleitarie, un po’ come fa la lista Tsipras ad esempio, quando propone sciocchezze come il reddito di cittadinanza. Il realismo politico e l’efficacia dell’azione è infatti tanto più forte quanto più si articola in una grande forza di governo.

Una seconda ragione riguarda invece la sopravvivenza del governo Renzi. Con le elezioni anticipate vi è il rischio di trascinare il paese in un cammino imprevedibile a causa della debolezza strutturale e di pensiero dei soggetti politici che formano l’attuale tripolarismo. Un PD fiaccato da una scissione e reso ancor più fragile dalla caduta del governo lascerebbe inoltre spazio a una ulteriore e, chissà, forse ancora più pericolosa soluzione cesaristica di destra, magari con un Passera alla guida di un nuovo contenitore politico organizzato intorno a quei soggetti come Confindustria e Comunione e Liberazione. L’associazione cattolica fondata da Don Giussani è del resto l’ultimo luogo in cui è possibile ritrovare un minimo di riflessione e di educazione politica aperto a una élite allargata. Da noi, a sinistra, le scuole di partito sono il ricordo di un passato che evoca il bianco e nero.

Le motivazioni sono dunque forti e niente affatto secondarie. Ma allora fa bene D’Alema a difendersi adducendo a una generica disaffezione politica dei lavoratori? No, niente affatto. Se esistono fondate ragioni per non mandare oggi il governo a casa, dall’altro lato risulta irragionevole l’immobilismo politico dentro il partito. Il giorno dopo il congresso che ha visto Renzi trionfare si sarebbe dovuti ripartire con un’opera di riorganizzazione. Ma non è stato fatto nulla. Dopo i disastri del voto in Emilia si è ripresentata ora una nuova occasione. Non mi pare però, e la cosa è alquanto sorprendente, che siano state chieste le dimissioni della segreteria provinciale di Bologna, ad esempio. E invece sarebbe importante proprio ripartire da questa città per ricostruire un minimo di pensiero e di politica capace di riportare i ceti popolari all’interno della vita di partito. Ci vorrebbe in altri termini un congresso, un congresso vero in cui discutere con costrutto e per dar seguito i fatti alle parole.

Nelle affermazioni di D’Alema (“C’è rabbia contro la politica”) è perfettamente percepibile l’oramai inveterata diffidenza verso le classi sociali lavoratrici, le stesse da cui si pretende poi il voto e il sostegno. A sinistra si è sedimentata una antropologia negativa tale per cui il “popolo” è corrotto dal consumismo e dall’individualismo; e dunque è necessario agire in suo favore, ma senza il suo apporto diretto. Inutile constatare che in questo modo, negli ultimi anni la sinistra italiana non abbia affatto rappresentato le istanze dei ceti popolari e che abbia acuito la disaffezione politica. Non solo, procedendo di questo passo ha in qualche modo arato il terreno al renzismo che nel PD non ha trovato sufficienti anticorpi.

La mia idea è che la crisi economica, la precarietà diffusa e la proletarizzazione dei ceti medi possa essere ora l’occasione per rimettere in discussione quella visione del mondo neoliberalista che avrebbe corrotto le masse. Certo, la questione è estremamente complessa e difficile. sessant’anni di consumismo non si cancellano con un congresso né con le intenzioni ragionate e sostanziate da un pensiero critico di un partito popolare in via di costruzione. Ma è proprio per questo che è necessario ripartire almeno da Bologna, da una città che più di altre conserva la memoria di un fare politico nobile. E’ insomma necessario ricostruire la politica e arrestare l’opera di demolizione condotta da Renzi e dalla sua ideologia neoliberale.

Ps  – Massimo D’Antoni:interessante, ma ho diverse osservazioni
1. Il “cesarismo di destra” con Passera non mi sembra una prospettiva realistica in questo momento. Difficilmente un Passera potrebbe riaggregare una destra che coltiva atteggiamente sempre più euroscettici. Molto più probabile un progetto neocentrista, in piena continuità con Renzi.
2. Se non si vuole finire col rincorrere proposte velleitarie da sinistra radical tipo Tsipras, bisogna condividere un’analisi profonda dell’attuale fase di crisi. Se tale analisi comincia ad emergere, essa non è ancora ben definita, e non è condivisa nella cosiddetta minoranza del Pd. Questo mi pare il punto centrale: un’uscita senza una proposta forte sarebbe semplicemente un’uscita “contro” con poche speranze di successo

Mal Volio Sì, ho scritto cesarismo di destra, ma sarebbe stato più corretto parlare di un’operazione neocentrista senza Renzi, però. Per quanto riguarda il secondo punto, io non dico che si debba per forza uscire, dico che si debba ripartire dalla costruzione di una prassi politica, ripartendo dal locale. E’ un’ipotesi. In ogni caso, nemmeno una condivisione dell’analisi nella minoranza PD darebbe vere speranze di successo a una eventuale scissione. Occorre ritrovare la forza per uscire dal vecchio riformismo senza popolo anni 90.

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Davide Caligiuri: La prossima rivoluzione tecnologica a breve indicherà da dove, penso che nei prossimi anni si metterà in discussione il concetto stesso di lavoro, Il lavoro come lo abbiamo conosciuto fino ad oggi scomparirà, Si andrà dalla completa automatizzazione fino ad arrivare al peggior schiavismo. Quando una nota marca automobilistica tedesca dice che nei prossimi anni trentamila lavoratori saranno rimpiazzati dai robot, qualcosa vuol dire.

Tra pochi anni un computer da mille dollari potrà ragionare con la capacità di milioni di persone, pensate che fine può fare il pubblico impiego, oppure la maggior parte delle vendite avvverrà attraverso internet, negozi e distribuzioni possono anche chiudere. Grandi magazzini automatizzati che t’inviano a casa il prodotto con i droni. Quindi in un mondo così, discussioni di questo genere rischiano di diventare preistoria.

Mal Volio:  Guarda Davide, questi discorsi futuristici esistevano anche in passato e anzi erano molto in voga proprio all’epoca del compromesso storico. Negli anni 80 siamo poi caduti nell’illusione che la rivoluzione tecnologica avrebbe mutato radicalmente il mondo. Il mutamento per carità c’è stato e prosegue tutt’oggi. Il conflitto tra capitale e lavoro è rimasto, ed è rimasta la necessità di restituire al lavoro un ruolo di guida dell’economia. Ecco che allora bisogna darsi da fare ora, subito, prima che il mondo fantascientifico che tu descrivi si realizzi.

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