Dalla parte degli operatori sanitari lombardi, prime vittime della privatizzazione dei servizi. Ora serve una conversione a ‘U’: poco ma sicuro.
Il livello della crisi dipende dalla qualità e quantità degli strumenti e delle risorse con cui la si affronta. Questa è una massima generale. Se non vi fosse stato un impoverimento generalizzato della sanità pubblica, della capacità di cura, e se avessimo speso di più (e non di meno) per l’assistenza sanitaria, oggi affronteremo la crisi con più forza e la crisi stessa sarebbe meno allarmante. In questi decenni abbiamo spostato la ricchezza dal sociale al personale, dal pubblico al privato, dallo Stato alle imprese. L’effetto di questo trasferimento di risorse, reso ancor più duro e impattante dalla evasione fiscale di chi non paga le tasse ma esige una sanità efficiente e poi se la prende con gli operatori se ciò non accade, è stata una specie di disarmo, una resa progressiva, che ha voluto dire sofferenza, dolore, morte. La sanità lombarda, definita la migliore d’Italia, dopo decenni nel corso dei quali sono state ridotte le risorse al pubblico per potenziare le convenzioni con i privati, oggi sta lottando strenuamente, eroicamente, ma l’impressione è che possa soccombere o stia soccombendo sotto i colpi dell’epidemia. La classe dirigente locale che oggi grida ‘chiudete tutto’ (quando prima aveva detto ‘aprite tutto’) ha sul groppone le scelte che hanno condotto all’attuale ischeletrimento dei servizi sanitari, in linea con la parola d’ordine liberista, secondo cui lo Stato va affamato e i poveri sono destinati soccombere darwinianamente come un gregge qualsiasi (tanto sono poveri e non hanno capacità di spesa).
Noi siamo con i medici, gli operatori sanitari e i volontari che lottano e si sacrificano ogni giorno per contenere gli effetti del virus in Lombardia, a Bergamo, a Brescia, nel lodigiano. Siamo con loro con tutta l’anima e tutta la pena possibile. Ma non possiamo non sapere che sono proprio loro i primi a subire le conseguenze della scelta politica di privilegiare il privato contro il pubblico. Quella stessa classe dirigente lombarda che oggi invoca costantemente l’intervento del governo centrale (ogni tanto sento dire ancora ‘Roma’, ‘quelli di Roma’, ‘laggiù a Roma’), ha su di sé la tremenda responsabilità di aver lasciati soli quei medici e quegli infermieri già da tempo, e oggi è costretta rincorrere gli eventi per sanare i danni che per prima ha procurato. Quando tutto finirà, perché tutto finirà, non dovremo soltanto stare accanto ai più colpiti con la solidarietà vera, non dovremo solo ricostruire, salvare persone e imprese, ma tornare indietro rispetto a certe scelte, sanare il debito verso le popolazioni lombarde, riedificare quel sistema di sanità e cura pubblica che è stato progressivamente demolito in tutta Italia dalla destra e non solo. I ‘liberisti’ che hanno progettato questa sciagura se ne tornino a casa. I cittadini per primi li mandino via. Riaprendo una speranza grazie a nuove risorse, nuove scelte politiche, nuove prospettive che significhino cura e speranza, non dolore e sofferenza indicibile verso i malati, i deboli, i più fragili.