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Paolo Pini e Roberto Romano – 02 febbraio 2015
“Il trionfo elettorale di Syriza in Grecia potrebbe capovolgere la situazione dell’Europa e farla finita con l’austerità che mette a rischio la sopravvivenza del nostro continente e dei suoi giovani. Tanto più che le elezioni previste per la fine del 2015 in Spagna potrebbero produrre un risultato simile, con l’ascesa di Podemos. Ma perché questa rivoluzione democratica venuta dal Sud possa riuscire a modificare davvero il corso delle cose, bisognerebbe che i partiti di centrosinistra attualmente al potere in Francia e in Italia adottino un atteggiamento costruttivo e riconoscano la loro parte di responsabilità nella situazione attuale”[1]. Posizioni analoghe son quelle espresse da altri economisti quali De Grauwe[2], Krugman[3], Rodrik[4], Stiglitz[5], Wren-Lewis[6].
Un Paese piccolo come la Grecia potrebbe realmente cambiare le politiche europee, non tanto per la sua intrinseca forza economica, piuttosto perché intercetta il senso comune dei cittadini europei, così come il buon senso di tanti inascoltati economisti. Oggi la Grecia suggerisce un New Deal europeo, un progetto a cui ha lavorato l’attuale Ministro delle Finanze greco Varoufakis, con il concorso di Holland e Galbraith, prefigurando un “New Deal europeo che, come il suo predecessore americano, potrebbe portare al miglioramento nell’arco di mesi, pur attraverso misure che rientrano interamente nel quadro costituzionale al quale i governi europei hanno già aderito”[7]. Il nuovo governo greco non chiede solo una soluzione per il debito pubblico greco, ma propone una conferenza europea per il debito pubblico degli stati europei e l’avvio di una politica coerente con la crisi da domanda che attraversa l’Europa. Il piccolo stato greco potrebbe riuscire la dove non sono riusciti i riformisti sedicenti tali. I rischi legati all’insostenibilità dell’euro date le politiche di austerità rimangono tutti, ma con la vittoria della sinistra in Grecia si apre una discussione realmente riformista perché interessa le istituzioni che governano la domanda effettiva e di struttura dell’Europa[8].
Il dibattito sulla crisi economica che attraversa l’Europa e in particolare l’Italia, che vive una crisi nella crisi, è attraversato da proposte che vanno dal «meno Europa» al «più Europa», variamente declinate in ipotesi di: uscita unilaterale oppure uscita concordata dall’euro; costituzione di due aree valutarie con valute distinte, la prima forte al nord, la seconda debole al sud; rafforzamento dei poteri di controllo della Commissione Europea, con l’introduzione di automatismi che scattano in caso di infrazione delle regole di bilancio; gestione coordinata delle politiche fiscali e quindi maggiore cessione di sovranità alle istituzioni europee; riforma dell’euro e nuova governance europea oppure il suo opposto, gestione della inevitabile deflagrazione dell’area euro. L’opzione uscita dall’euro, via concordata o via traumatica, consegna nel dibattito in particolare una doppia opzione: una uscita da sinistra e una uscita da destra.
La recente decisone della BCE di dar corso all’«alleggerimento quantitativo» (QE) nella politica monetaria non riduce la probabilità di uscita dall’euro da qui al 2016, anzi potrebbe persino rafforzarla se non accompagnata dall’abbandono della dottrina dell’austerità competitiva e dall’avvio di una politica fiscale espansiva coordinata a livello europeo.
Le ragioni sono molteplici[9]. Anzitutto gli effetti dell’espansione monetaria si faranno certamente sentire sul valore della moneta, portando l’euro verso la parità con il dollaro, piuttosto che sui tassi di interesse, già a livelli «soglia inferiore» quelli a breve. L’effetto potrà essere sui tassi a lungo periodo, qualora gli acquisti di titoli si concentrino su questa fascia, ma purtroppo ciò non è assicurato, e se avvenisse il rischio è che si concentrino sui titoli dei paesi più virtuosi, quindi che hanno meno necessità di riduzione dei tassi, mentre sono i paesi periferici ad averne più necessità. Il contesto attuale è comunque quello della «trappola della liquidità», per cui i meccanismi di trasmissione degli interventi monetari sulle variabili reali sono poco efficaci. Il deprezzamento invece, in corso già da tempo, favorisce certo le esportazioni dell’eurozona soprattutto dei paesi oggi più competitivi, secondo una logica mercantile, con quote significative del mercato globale, ma lo farà nella misura in cui le economie non europee cresceranno a ritmi sostenuti, scenario a cui però lo stesso FMI non assegna molta fiducia; lo stesso deprezzamento non avrà necessariamente effetti favorevoli sul mercato interno europeo, e quindi la domanda interna potrebbe rimanere stagnante e la tendenza alla deflazione non essere contrastata. Il condizionale è d’obbligo, date le incertezze internazionali in campo economico, i fattori di instabilità nella politica estera, la lentezza decisionale delle istituzioni europee. Le prospettive di riportare l’inflazione al target del 2% annuo, ancorché insufficiente oggi, rischia di essere altamente futuribile; e comunque perché mai una espansione monetaria benché consistente dovrebbe produrre una «miccia» di inflazione con un gap di domanda come l’attuale non è affatto evidente. Il rischio d’inflazione è irrisorio, mentre non irrilevante è il rischio opposto, ovvero che non si arresti la deflazione. Con la deflazione il peso del debiti dei paesi periferici tenderà a crescere, anche in presenza di spread in discesa, ed in rapporto con un Pil che ristagna il rientro dai debiti richiesto dai Trattati europei ed accordi intergovernativi sarà oltremodo difficile. Al contempo, è vero che con il QE il sistema bancario sarà alleggerito di titoli di debito pubblico poco redditizi, ma ciò non implica che le risorse liberate verranno rese disponibili alle imprese in quanto lo stesso sistema è “stressato” da vincoli patrimoniali consistenti e dalla necessità di ottemperare a tali vincoli; inoltre la domanda di credito rischia di rimanere debole e ad alto rischio da parte delle imprese a causa dal vuoto di domanda aggregata, per cui l’offerta di credito del sistema bancario sarà più potenziale che effettiva. La probabilità che tali risorse rimangano così nel circuito finanziario, alimentandolo, senza trasmissioni all’economia reale, è elevato, con le implicazioni ben note di bolle speculative dato il basso tasso di regolamentazione di questo circuito. Sul piano della garanzia del debito dei paesi dell’eurozona, peraltro, la decisione stessa delle BCE di garantire i titoli acquistati da qui a settembre 2016, ed oltre se necessario, solo per una quota del 20%, mentre il restante 80% sarà a carico delle banche centrali nazionali, invia un segnale non particolarmente rassicurante circa la sostenibilità di lungo periodo del sistema monetario dell’eurozona, anzi appare come una assicurazione per i paesi creditori in caso di uscita di una o più monete dall’eurozona. Se poi aggiungiamo che a fronte di tali interventi della BCE, si accompagna la richiesta ai singoli Stati di procedere con maggiore alacrità con le riforme strutturali, per una ancora maggiore flessibilità del lavoro in primo luogo ed una riduzione delle componenti pubbliche della spesa, proprio perché il QE lascerebbe maggior spazio per la crescita, getta maggiori incognite sull’uscita dalla stagnazione proprio perché sono quelle riforme strutturali invocate e realizzate senza soluzione di continuità ad avere accresciuto la gravità della crisi tramite riduzione della domanda interna dei Paesi europei spinti a realizzare politiche di svalutazione interna (contenimento salariale, privatizzazione dei sistemi pubblici di welfare, riduzione degli investimenti pubblici) per raggiungere unicamente obiettivi di competitività internazionale. Se questo è il quadro, secondo una visione non particolarmente ottimistica, le prospettive di una Europa che cambi rotta permangono flebili, mentre le ipotesi di uscita dalla moneta unica si rafforzano, e con esse la discussione sulle opzioni di uscita, da destra o da sinistra[10].
In realtà il QE manifesta l’inadeguatezza della politica economica nel suo insieme. L’acquisto sul mercato secondario di titoli pubblici può al limite ridurre i tassi di interesse degli stessi e, forse, attutire il sevizio del debito sui bilanci pubblici, ma le regole “aggiornate” del fiscal compact non si allontanano dal sentiero delle cosiddette riforme strutturali. Il limite del QE è di assecondare il mercato dei titoli pubblici o alleggerire il peso degli stessi sul sistema creditizio privato, ma all’Europa servirebbe una spesa aggiuntiva da un trilione di euro finanziato proprio da un mirato e specifico FE (Fiscal Easing). Draghi non può fare nulla di tutto questo, ma il messaggio sotto traccia della sua operazione, e forse l’esito delle elezioni della Grecia possono diventare un fondamentale fatto politico ed economico, è quello di ri-costruire le istituzioni europee per tenere in tensione la domanda effettiva e per ristabilire una minimo di democrazia.
Crediamo che ciò possa essere perseguito solo superando a livello europeo il ruolo degli Stati-Nazione. La nostra prospettiva utopica crediamo sia l’unica che possa contrastare l’implosione non solo economica ma civile dell’Europa. Ciò richiede che le forze di sinistra lavorino per una nuova governance europea, che quindi intenda “riformare l’euro” invece che “uscire dall’euro”, centrata su una pluralità di azioni:
1) ristrutturazione del debito dei paesi europei con ruolo di prestatore di ultima istanza della BCE ed emissione di eurobonds per stabilizzare la gestione dei debiti pubblici nazionali e creare un mercato ampio di titoli pubblici europei basati su garanzie reali;
2) introdurre meccanismi di stabilizzazione fiscale e monetaria che contrastino le asimmetrie economiche, in primis surplus-deficit commerciali intra-europei, tramite il coordinamento delle politiche economiche degli Stati membri per la riduzione degli squilibri dei flussi commerciali tra gli Stati membri, e tramite l’individuazione di meccanismi monetari che operino non solo sui paesi con deficit strutturali, ma soprattutto sui paesi con avanzi strutturali delle loro bilance commerciali, per indurli a sostenere la domanda interna e non affidare la crescita all’espansione dei mercati esteri;
3) realizzare un bilancio europeo con fondi propri pari al 5% del Pil dei paesi dell’Unione Europea;
4) attivare politiche di domanda pubblica europea ed emissione di eurobonds a differenti tipologie, dedicate a finanziare progetti europei per l’economia digitale, l’economia verde, l’economia della conoscenza, tesi all’anticipo della domanda “effettiva” e, quindi, alla dinamica di struttura sottesa;
5) introdurre standard di dinamiche retributive reali in rapporto alla produttività che contrastino le politiche di svalutazione competitiva interne ai singoli paesi e ristabiliscano una regola aurea tra dinamica dei salari reali e dinamica della produttività del lavoro contrapposta alla regola di piombo tra salari nominali e produttività;
6) armonizzazione fiscale che contrasti l’elusione dei profitti su scala europea;
7) riformare il sistema bancario e finanziario, accrescendone il controllo, al fine di ridurre il rischio sistemico con strumenti sia di tipo fiscale (tassando specifici strumenti finanziari e transazioni) che di tipo regolativo (vietando specifiche attività e transazioni), facendo molto meno affidamento sugli strumenti della “ponderazione del rischio” e della “capitalizzazione” che si dimostrano non solo in gran parte inefficaci ma soprattutto controproducenti;
8) democratizzare le istituzioni europee, accrescendo i poteri delle istituzioni elettive e sviluppando modelli di partecipazione coordinata della gestione dei beni pubblici.
Le azioni sopra delineate sono parte della visione che viene etichettata come “utopica”. Stanti gli attuali rapporti delle forze in campo, economiche, sociali e politiche, certamente lo è. Non vi è dubbio però che il panorama non è statico, fortunatamente è in evoluzione per ragioni intrinseche alla stessa attuale governance europea che appare sempre più insostenibile e le contraddizioni si rendono tanto manifeste da portare molti a prefigurare lo scenario della crisi traumatica dell’eurozona. Ciò comporta che quella governance è posta in discussione dagli stessi suoi insuccessi se è vero che l’Europa rischia di apprestarsi a completare un decennio di non crescita con deflazione stile giapponese. Come osserva Stiglitz[11]: «Un mezzo decennio perduto si è rapidamente trasformato in un intero decennio perduto. […] All’Europa serve più che una riforma strutturale all’interno dei Paesi membri. All’Europa serve una riforma della struttura dell’eurozona stessa, e l’inversione delle politiche di austerity, che non sono riuscite a riaccendere la crescita economica. Coloro che pensavano che l’euro non avrebbe potuto sopravvivere si sono ripetutamente sbagliati. Ma i critici hanno ragione su una cosa: a meno che non venga riformata la struttura dell’Eurozona, e fermata l’austerity, l’Europa non si riprenderà». Vi sono poi da considerare dinamiche politiche nei paesi periferici che possono accelerare il percorso di revisione radicale della governance europea. Oggi si guarda alla Grecia; forse domani si guarderà alla Spagna. Ma «Il problema non è la Grecia [neppure la Spagna]. È l’Europa. Se l’Europa non cambia – se non riforma l’Eurozona e continua con l’austerity – una forte reazione popolare sarà inevitabile. Forse la Grecia ce la farà questa volta. Ma questa follia economica non potrà continuare per sempre. La democrazia non lo permetterà. Ma quanta altra sofferenza dovrà sopportare l’Europa prima che torni a parlare la ragione?». Purtroppo questa prospettiva di cambiamento è ancora debole in Europa. Difficile pensare che dalla crisi si esca con la pochezza del mantra di “più flessibilità” nel rispetto delle regole dello Stability and Growth Pact. La politica che governa l’Europa, ovvero l’alleanza tra i partiti popolari europei e quelli socialdemocratici, ha una agenda politica ed economica di conservazione dell’esistente, mentre le uniche forze che sembrano consapevoli che l’uscita dalla crisi non può che passare per una revisioni dei fondamenti costitutivi dell’attuale architettura europea possono essere trovate nelle aree più critiche del pensiero dominante. Non lavorare per rafforzare questa prospettiva di cambiamento, attendere la fine traumatica dell’eurozona, dare per scontato questo esito, a noi sembra però avvalorare le opzioni gattopardesche o quelle persino peggiori del patriottismo economico, in attesa del realizzarsi di una quarta opzione che appare ben più utopica della pur utopica terza opzione. Le conseguenze dell’insuccesso sarebbero troppo grandi, lascando aperte le due peggiori prospettive, oltre a quella del progressivo declino e stagnazione dei paesi periferici.
Alcune parti di questo scritto sono riprese da un articolo di prossima pubblicazione su Critica Marxista.
[1] T. Piketty, “Ora tutti uniti contro l’austerità. La sinistra europea riparta da Syriza”, La Repubblica, 27 gennaio 2015.
[2] P. De Grauwe, “The Greek Election 2015 – Revolt Of The Debtors”, Social Europe Journal, 5 gennaio 2015.
[3] P. Krugman, “Ending Greece’s Nightmare”, The New York Times, 26 gennaio 2015.
[4] D. Rodrik, “Greek Elections, Democracy, Political Trilemma, and all that”, Social Europe Journal, 8 gennaio 2015.
[5] J. Stiglitz, “L’Europa perde la ragione”, Project Syndicate, 8 gennaio 2015.
[6] S. Wren-Lewis, “Let us hope for a Syriza victory”, mainly macro, 14 gennaio 2015.
[7]Y. Varoufakis, S. Holland, J. K. Galbraith, A Modest Proposal for Resolving the Eurozone Crisis, Version 4.0, luglio 2013.
[8] Krugman osserva che la Grecia costituirà un importante test perché l’Europa cambi. P. Krugman, “Europe’s Greek Test”, The New York Times, 30 gennaio 2015.
[9] Le ragioni sono spiegate anche su questa rivista da S. Cesaratto, “Quantitative Easing, dopo di me il diluvio?”, Economia e Politica, 26 gennaio 2015.
[10] Difficile prevedere gli esiti di una exit strategy dall’euro. Le esperienze storiche di uscita di un paese da un sistema valutario a cambi fissi possono costituire preziosi riferimenti per valutare gli effetti della transizione sulle performance economiche del paese che decide di uscire e deprezzare la propria moneta. Questo è l’esercizio compiuto in Brancaccio, Garbellini (2014) ed in Realfonzo, Viscione (2015): E. Brancaccio, N. Garbellini, “Sugli effetti salariali e distributivi delle crisi dei regimi di cambio”, Rivista di Politica Economica, luglio-settembre n.3, 2014, pp.305-328; R. Realfonzo, A. Viscione, “Gli effetti di un’uscita dall’euro su crescita, occupazione e salari”, Economia e Politica, 22 gennaio 2015.
[11] J. Stiglitz, “L’Europa perde la ragione”, Project Syndicate, 8 gennaio 2015.