Se i dalemiani esistessero io sarei uno di loro

per Gian Franco Ferraris
Autore originale del testo: Alfredo Morganti e Giorgio Piccarreta
Fonte: L_Antonio
Url fonte: https://lantonio2017.wordpress.com/2017/07/09/se-i-dalemiani-esistessero-io-sarei-uno-di-loro-intervista-a-jonathan-pine/

a cura di Alfredo Morganti e Giorgio Piccarreta – 9 luglio 2017

Prosegue con questa bella intervista, tutta da leggere, il viaggio dell_Antonio all’interno della sinistra italiana. Dopo Massimo D’Alema, Rosa Fioravante e Pier Luigi Bersani, oggi poniamo le nostre domande a Jonathan Pine, che risponde con grande sfoggio analitico e propone un punto di vista non banale riguardo alle vicissitudini politiche mondiali e ai compiti della sinistra oggi.

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“In Italia subiamo un eccesso dell’esercizio della politica come ricerca di affermazione personale e soffriamo di un doloroso deficit di leadership. La politica deve essere capace di distinguere nell’analisi e di unire nella prassi, e deve essere il luogo della discussione e della persuasione. Non conosco nessuna democrazia che non sia organizzata attraverso partiti politici. La globalizzazione è stato uno dei periodi più gloriosi nella storia del genere umano. Nello spazio di una generazione, un miliardo di persone ha smesso di avere fame. Come tutti i periodi storici, anche questo ha fatto maturare al suo interno le contraddizioni che ne avrebbero determinato la fine. Il 2007, rappresenta una discontinuità: dopo quella crisi i ricchi continuano ad arricchirsi, ma i poveri e il ceto medio si impoveriscono. La Terza Via è stata la prassi politica che creato la condizioni in Europa per i successi all’epoca della Commissione Prodi. Ma non c’è dubbio che fosse una posizione difensiva di una sinistra che subiva in pieno l’egemonia del capitale e della destra. Io penso che si debba, con onestà intellettuale, rivendicare i propri meriti e riconoscere i propri errori, e io credo che il bilancio per la sinistra italiana sia positivo. Oggi c’è bisogno di interventi sistemici e radicali sul meccanismo stesso del capitalismo, come pure la destra illuminata riconosce, e che ci servono ricette nuove” (Jonathan Pine).

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JP, che cos’è il dalemismo, una categoria dello spirito, una seconda natura, oppure l’adesione politica a uno dei leader della sinistra più preparati e autorevoli?

Il dalemismo non esiste, come sapete bene, ma se esistesse sarebbe prima di tutto il riconoscimento, ad uno dei maggiori protagonisti della politica europea, di avere compiuto con successo la missione affidata alla sua generazione di dirigenti, che era quella di portare per la prima volta la sinistra al governo della Repubblica. Su un piano etico e valoriale, il dalemismo apparterrebbe a una concezione della politica intesa come rigore, cultura, studio e applicazione. Dal punto di vista estetico sarebbe l’apprezzamento per l’ironia, il pensiero deduttivo e l’intelligenza analitica. Se i dalemiani esistessero io sarei uno di loro, e tenderei a giudicare chi apprezza D’Alema, inclusi gli avversari politici, più intelligente di chi non lo apprezza.

Ma l’eccessiva personalizzazione non è il vero punto critico della politica odierna? Fino a che punto si deve spingere un dirigente politico o una leadership, per non varcare la soglia oltre la quale non c’è più impresa collettiva, ma solo un ambizioso disegno personale?

Personalizzazione della politica ed esercizio della leadership non sono la stessa cosa, e non vanno confusi. Quando lo scopo è la affermazione personale per il raggiungimento di una posizione di potere fine a se stessa, risulta più conveniente assecondare e compiacere il senso comune. Si tratta in effetti dell’esatto contrario di un atto di leadership. Quando invece si ha la ambizione di realizzare un disegno o un progetto, al quale la posizione di potere è funzionale, è necessario esercitare persuasione e proselitismo per le proprie idee.

Credo che in Italia subiamo un eccesso dell’esercizio della politica come ricerca di affermazione personale e soffriamo di un doloroso deficit di leadership. Tutte queste officine, fabbriche, leopolde e cantieri, in cui si intrattengono gli avventori attorno a tavoli tematici dando loro l’illusione della partecipazione, sono una squillante autodenuncia del vuoto di idee del personale politico, che di questo vuoto ne fa addirittura vanto. Io invece rimango a domandarmi perché dovrei votare per un assessore che deve venire a chiedere a me se bisogna costruire prima l’aiuola o la rotatoria.

Renzi questo limite lo ha superato? E il PD è ancora un partito o solo un riflesso personale del Capo?

Il PD è ancora un partito, ed è il maggiore partito del centrosinistra italiano. Al suo interno convivono faticosamente diverse anime, e la gran parte dei militanti sono animati da ideali sinceri, nonostante la  diffusione di forme di opportunismo e di trasformismo in una misura che non ha precedenti nella sinistra italiana. La politica deve essere capace di distinguere nell’analisi e di unire nella prassi, e deve essere il luogo della discussione e della persuasione. Dobbiamo quindi discutere con chi nel PD sostiene sinceramente idee che noi consideriamo inefficaci e inattuali, e persuaderlo che oggi c’è bisogno di interventi strutturali e sistemici che sono molto diversi da quanto messo in campo finora e anche da quanto veniva proposto da noi fino a pochi anni fa. Il mio avversario politico è Renzi, non è il PD.

A proposito, serve ancora un partito? In termini tradizionali, strutturati, diciamo. Oppure la leggerezza politica è divenuta così insuperabile, da consegnarci la liquidità politica come destino? Ma cosa resta della politica se gli togliamo l’organizzazione? Senza sedi fisiche, ma solo punti di incontro digitali, social, astratti?

In una democrazia rappresentativa, e in presenza di conflitto sociale palese o latente, il partito è la struttura naturale della attività politica. Non conosco nessuna democrazia che non sia organizzata attraverso partiti politici.

È vero che le funzioni e l’organizzazione di un partito politico possono cambiare, nel tempo e nello spazio. Oggi in Italia la funzione pedagogica dei partiti è meno rilevante di un passato anche recente, grazie soprattutto all’accesso allo studio. Un compagno siciliano, uno degli eroici fondatori del PCI tra gli immigrati italiani in Svizzera negli anni cinquanta, mi raccontò che lui alle Frattocchie aveva imparato a leggere e a scrivere. I partiti americani, ad una osservazione frettolosa, sembrano adempiere solo a funzioni elettorali e di coordinamento istituzionale perché ci sembra che discutano meno di noi di aspetti teorici, ma in quel paese i contenuti della politica vengono prodotti soprattutto nelle fondazioni, nei think tank e nelle università che a quei partiti sono affini.

Anche la militanza cambia, nei tempi e nei luoghi. La generazione dei miei genitori la viveva in maniera totalizzante, in un partito in cui i dirigenti si erano formati nella lotta clandestina, mentre oggi ha un carattere più tematico: c’è chi preferisce occuparsi solo di scuola, chi di ambiente, di lavoro o di altri temi. Nel Partito Socialista Svizzero, a cui sono iscritto, è impensabile andare anche solo a un attivo di circolo senza leggersi prima una ventina di pagine di informazioni preparatorie, e si discute molto in dettaglio dei contenuti.

Ma in tutti questi casi il partito è sempre il luogo di organizzazione della democrazia, come dalla definizione di Togliatti. E i social network, che voi nominate, sono luoghi in cui gli esseri umani si incontrano, discutono e si scambiano idee, e quindi sono, per definizione, uno dei luoghi della politica.

Che cosa deve fare la sinistra per recuperare una sintonia con il Paese? Andare al popolo, come nella tradizione dei populismi? Oppure ristabilire un rapporto positivo con le élite, che poi sono quelle che producono narrazione ed egemonia verso la restante parte del Paese?

Una delle pochissime cose in cui sono in disaccordo con Bersani è che io non credo che la sinistra esista in natura. Esiste invece la società, che è dall’inizio della Storia il luogo dove si producono i conflitti. Ma se non c’è nessuno a razionalizzare il conflitto e ad interpretarlo dalla parte dei lavoratori, la sinistra non esiste. La sinistra non deve essere immaginata come una soluzione alla ricerca di un problema: la sinistra esiste solo se c’è qualcuno ad esercitare una consapevole azione intellettuale e pratica sul conflitto sociale a favore di una parte della società. La sinistra parte dal conflitto e produce una teoria, non il contrario.

Nella tua domanda voi usate  il termine “élite” in quello che io penso sia il senso appropriato, ma nel risponderti, per evitare confusioni, io preferisco usare la parola “avanguardie”. Penso infatti che nel dibattito corrente il termine “élite” venga spesso impiegato surrettiziamente allo scopo di adattare la realtà ad alcune teorie di moda, utilizzandolo come un comodo sostituto al più impegnativo concetto di “classe”. Per me la società si divide tra chi vive di un salario e chi vive dei frutti della accumulazione del capitale, ossia si divide in classi sociali, e non in stili di vita

Detto questo, non credo che la sinistra debba “ristabilire un rapporto con le élite (avanguardie)”. Penso che la sinistra debba essere essa stessa l’avanguardia del mondo del lavoro, ossia elaborare la teoria politica e dispiegare la prassi che ha lo scopo del progresso, del miglioramento e della liberazione dei lavoratori. Anche dei lavoratori che guadagnano meglio, e che qualcuno che non ha capito bene il problema continua appunto a chiamare “élite”.

La globalizzazione, inferno e paradiso. È tutto qui il male di questo nuovo millennio, oppure le chance che ha offerto, le opportunità di benessere e di ‘movimento’ che ha diffuso in taluni strati della popolazione sono superiori alle profonde disuguaglianze che ha ingenerato verso altri?

Il periodo che viene indicato come il trentennio neoliberista, che si fa iniziare con il crollo dell’Unione Sovietica (ma io credo che in Italia sia iniziato con la marcia dei quarantamila alla FIAT) e terminare con la crisi finanziaria del 2007, che si basava sui pilastri della libera circolazione delle merci, della deregulation finanziaria e da una potentissima offensiva culturale per rendere egemonici nella società i valori della destra liberale, è stato uno dei periodi più gloriosi nella storia del genere umano. Nello spazio di una generazione, un miliardo di persone ha smesso di avere fame. Mai, nella storia umana, così tante persone hanno conquistato il diritto di scegliere con il voto chi doveva governarli, mai così pochi sono morti in guerre e conflitti. La scienza e la tecnologia hanno portato progressi inimmaginabili, dalla mappatura del DNA umano ad una rete che connette di fatto ogni individuo del pianeta. Mi è incomprensibile come chiunque si definisca di sinistra possa dismettere questi fatti incontrovertibili con una scrollata di spalle.

La frase che, secondo me, descrive emblematicamente questo periodo non è come si può pensare quella della Thatcher (“la società non esiste”), ma quella del capo del più grande Partito Comunista della storia, Deng Xiao Ping, che disse: “arricchirsi è glorioso”. Quello che intendeva era che, dopo mezzo secolo di “grandi balzi in avanti” e altri tentativi, i due terzi del suo immenso popolo viveva ancora in un’economia di sussistenza. Con quella frase lui firmava idealmente il contratto sociale che avrebbe permesso a pochissimi di diventare ricchissimi, e a moltissimi di diventare un po’ meno poveri. In cambio quindi di disuguaglianze enormi e crescenti, ci sarebbe stato un miglioramento per chi stava peggio. Quel contratto ha funzionato, in Cina e nel resto del mondo, ed era un buon contratto.

Come tutti i periodi storici, anche questo ha fatto maturare al suo interno le contraddizioni che ne avrebbero determinato la fine. La spregiudicatezza delle istituzioni finanziarie libere da ogni regola è all’origine della crisi del 2007, e le disuguaglianze enormi, che erano state il motore della crescita, hanno ormai raggiunto un livello tale da comprimere la domanda e impedire l’uscita da quella crisi. Questa data, il 2007, rappresenta una discontinuità: se prima della crisi il meccanismo era che i ricchi diventavano molto più ricchi e i poveri un po’ meno poveri, allargando cioè la forbice delle disuguaglianze ma beneficiandone tutti, dopo quella crisi i ricchi continuano ad arricchirsi, ma i poveri e il ceto medio si impoveriscono. Se prima della crisi le disuguaglianze crescenti erano giustificabili, o perlomeno spiegabili, come il meccanismo tramite il quale migliorare la condizione dei più poveri, dopo la crisi hanno la caratteristica di un vero e proprio saccheggio. È per me sempre ragione di stupefatta sorpresa constatare come la data del 2007 sia quasi assente nel dibattito politico italiano, nonostante in quella data il mondo e le sue regole siano cambiati.

La sinistra degli anni 90, quella della terza via e della cieca infatuazione verso la globalizzazione. È tutta da buttare, o peccò di generosità? Esistono fasi in cui si vince al centro e altre in cui bisogna radicalizzarsi? Oppure la ‘terza via’ è il peccato originale che ancor oggi azzoppa la sinistra?

Bangalore è uno dei luoghi simbolo della globalizzazione, essendo diventata la sede di numerose società di informatica che svolgevano un tempo attività di outsourcing e che ora propongono le loro soluzioni sul mercato globale. In quella regione si è passati dalla fame atavica al benessere diffuso in meno di dieci anni. A metà degli anni novanta ho conosciuto personalmente il capo del governo locale di Bangalore, un compagno del Partito Comunista Indiano che non mi ha espresso alcuna riserva ideologica sul tema della globalizzazione.

La sinistra ha governato gran parte dei quel processo, non solo in India con i governi del Partito del Congresso, ma anche in Brasile con Lula (che ha cambiato la faccia del paese togliendo dalla miseria cinquanta milioni di persone, un quarto del paese), in America con Clinton, in Europa con Tony Blair in UK, Schröder in Germania, Rocard e Jospin in Francia, Gonzales e Zapatero in Spagna, Prodi, D’Alema e Amato in Italia (faccio notare, en passant, che la bistrattata sinistra italiana è, dopo quella inglese, quella che ha governato più a lungo in Europa nel periodo considerato).

In Italia, in quel periodo, grazie soprattutto ai governi della sinistra, i consumi e i risparmi delle famiglie italiane sono cresciuti costantemente fino al 2007. Un giovane che si laureava (e spesso, come anche nel mio caso, era il primo a laurearsi nella storia famigliare) poteva ragionevolmente aspettarsi di trovare rapidamente un lavoro con un contratto a tempo indeterminato. Si riduceva significativamente il debito pubblico, il che significa che l’Italia doveva pagare meno interessi agli investitori istituzionali. Dopo due attacchi speculativi alla lira che avevano gravemente colpito le risorse di chi percepiva un reddito fisso, l’Italia riusciva ad entrare con l’Euro nel più lungo periodo di stabilità monetaria del dopoguerra, che dura tuttora. Grazie alla liberalizzazione del mercato strategico delle telecomunicazioni, l’Italia diventava il terzo mercato mondiale del mobile, gli occupati del settore triplicavano e Telecom Italia acquistava aziende in dodici paesi. La Commissione Europea di Romano Prodi, con il suo piano di allargamento, costituiva un tale polo di attrazione per gli ex paesi socialisti da contribuire ad una transizione sorprendentemente pacifica del blocco sovietico, in uno scenario in cui gli analisti temevano di dover considerare persino l’opzione nucleare. La forza politica dell’Unione Europea era tale che, per citare un episodio emblematico, il “servo del capitale internazionale” Mario Monti, Commissario alla Concorrenza, poteva bloccare la fusione tra General Electric e Honeywell, due aziende americane. Il prestigio e la rilevanza internazionale dell’Italia veniva sancita dal successo della nostra operazione diplomatica in Medio Oriente, che permetteva di schierare le truppe del contingente IFIL2 delle Nazioni Unite tra il Libano e Israele facendo terminare una guerra che colpiva vittime civili di entrambe le parti.

La Terza Via è stata la prassi politica che creato la condizioni in Europa per quei successi. Ma non c’è dubbio che fosse una posizione difensiva di una sinistra che subiva in pieno l’egemonia del capitale e della destra. E la subiva per una ragione molto semplice: perché la destra aveva un’idea migliore della nostra su come migliorare la vita di buona parte degli esseri umani.

All’interno di quella prassi politica, e soggetti a questa egemonia, abbiamo accumulato ritardi e compiuto errori. Immaginavamo che togliendo garanzie al lavoro si sarebbero sviluppate, grazie al nostro controllo, forme di impiego migliori anche per i lavoratori, ma è successo invece il contrario. Dobbiamo quindi imputare a noi stessi, ovvero alla nostra debolezza, l’inizio del processo di svalutazione del lavoro. Abbiamo ceduto alla narrazione liberista che vedeva nello Stato il nemico dell’impresa, e ci siamo fatti convincere che “what is good for Wall Street is good for Main Street”, ossia che la deregulation finanziaria fosse un ragionevole compromesso da accettare per assicurare la più efficacie allocazione dei capitali. Abbiamo avuto l’intenzione ma non la forza di fare progredire il progetto europeo in senso democratico.

Io penso che si debba, con onestà intellettuale, rivendicare i propri meriti e riconoscere i propri errori, e io credo che il bilancio per la sinistra italiana sia positivo. Oggi c’è bisogno di interventi sistemici e radicali sul meccanismo stesso del capitalismo, come pure la destra illuminata riconosce. Allo stesso tempo esiste un ceto medio ridotto, impoverito, confuso, incerto sul futuro, che vorrebbe ritornare al relativo benessere degli anni novanta, e crede che il modo migliore per farlo sia usare le stesse ricette di allora. Molti di loro votano PD.  Noi abbiamo la credibilità per convincerli che non è così, che ci servono ricette nuove. Ma abbiamo questa credibilità proprio perché siamo quelli che quelle ricette oggi inattuali le hanno a suo tempo applicate, e possono rivendicare i successi degli anni passati. Chi pensa che la sinistra possa guadagnare credibilità con un ipocrita autodafé, probabilmente immagina che per tranquillizzare un paziente sul tavolo operatorio il medico dovrebbe dirgli: “non si preoccupi, il paziente prima lo ho ammazzato, ma adesso ho capito, sono pentito, e vengo a curare lei”. Un modo originale di guadagnare credibilità, figlio del complesso di inferiorità della sinistra italiana, a sua volta indotto dall’egemonia culturale della destra. Buona parte di quello che la sinistra italiana pensa di se stessa è quello che gli ha suggerito di pensare Berlusconi.

In ultimo una curiosità. La prima cosa che faresti se fossi il segretario di un partito della sinistra.

Inizierei sicuramente un processo di ascolto, partecipato e inclusivo, partendo dal basso, per discutere i sogni e i bi-sogni…

No, sto scherzando. Parlando seriamente penso che farei esattamente la stessa cosa che faccio nella mia professione reale: cercherei di circondarmi di persone più capaci di me e chiederei loro di organizzare il lavoro politico utilizzando le loro competenze e conoscenze.

Per finire in gloria calcistica: ma da quand’è che le milanesi attingono a piene mani dalle romane (vedi Sabatini e Spalletti)? E quando sarà di nuovo l’anno dell’Inter? Ci sperate ancora?

Non conosco squadre di calcio milanesi, io sono il sostenitore di una squadra di calcio che decise di chiamarsi Internazionale, come l’inno dei comunisti di tutto il mondo, e che fedele al suo nome ha permesso a italiani, argentini, tedeschi, brasiliani, giapponesi e forse persino romani di esprimere il loro talento giocando nelle sue fila.

Per noi interisti è sempre l’anno dell’Inter, anche quando arriviamo settimi. Non ha a che fare con la speranza, che è un sentimento che attiene la sfera religiosa, ma con il desiderio, che è l’ingrediente di base dell’amore. Come si conviene peraltro ad una squadra che indossa il nero e l’azzurro, che sono i colori della notte.

(a cura di Alfredo Morganti e Giorgio Piccarreta)

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Jonathan Pine è un appagato membro dell’élite cosmopolita internazionale. Dopo aver conseguito una Laurea in Ingegneria Elettronica a Bologna ha cercato di rimediare con un Master in Finanza e Marketing Internazionale alla New York University. Da molti anni è un migrante economico: dopo aver lasciato la sua nativa Bolzano, ha vissuto a Bologna, Milano, Parigi, New York, Berna e ora a Zurigo, dove è dirigente in una delle maggiori società di carte di credito. Pensa che la cosa più divertente che si possa fare su questo pianeta sia sciare. È iscritto ad Art. 1 – MDP ed è un comunista.

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