Fonte: il Corriere della Sera
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intervista a Massimo D’Alema di Dario Di Vico, 12 novembre 2016
L’ex premier: «Comunque vada dopo il referendum lascerò la politica in Italia»
«Una cosa è la campagna elettorale, altro è governare. Vedremo Trump alla prova e comunque non sarà un arbitro incontrollato. Non dimentichiamo il Congresso, il Senato, il peso del Pentagono, del dipartimento di Stato, della Cia e, non ultime, le divisioni tra i Repubblicani». Massimo D’Alema è cauto e vede il tratto saliente del voto Usa nella capacità di Trump di sfondare tra i perdenti della globalizzazione. «Per la sinistra è la sconfitta dell’idea che le elezioni si vincono al centro. Così ci sono sfuggiti le periferie e i poveri, le forze tradizionali del lavoro e le nuove. Non solo nel Wisconsin, ma anche a Roma. È la conclusione del percorso di una Terza Via che non ha saputo leggere le nuove diseguaglianze e ha visto troppo spesso la sinistra a braccetto con il potere economico, lontana dalla base sociale e sindacale».
Anche lei è stato clintoniano.
«Considero una disgrazia la sconfitta di Hillary ma non chiudo gli occhi sugli errori. In America con Obama è aumentata l’occupazione, ma anche precariato, bassi salari e super sfruttamento. È da questa miscela che è nata la rivolta contro le élite. E comunque non sottovaluto i rischi della politica estera di Trump. Come può pensare di dar via libera a Israele di annettere Gerusalemme? Si accentuerebbero i conflitti con il mondo islamico e non ne abbiamo proprio bisogno. E poi come fa a pensare, dopo una svolta simile, di accordarsi con Putin? Vedremo, anche cosa farà l’Europa».
Non è un gran momento per il presidente Juncker.
«Juncker ha reagito con grande dignità all’elezione di Trump interpretando in modo efficace il punto di vista dell’Europa. Anche per questo motivo non ha senso indebolire la Commissione e le istituzioni europee. Le colpe sono dei governi nazionali e di alcuni in particolare. Se fossi in Renzi allenterei la polemica con Bruxelles».
Ma Renzi contesta le politiche per l’austerità. Lei no?
«Condivido, non da oggi, la sua critica all’austerità. Ci sono però due modi di combatterla: il primo è chiedere più soldi per i singoli Paesi, l’altro è promuovere scelte comuni su infrastrutture, ricerca, politica industriale. Temo che Renzi abbia scelto la prima strada con il risultato di aumentare il deficit per di più con un impatto assai modesto sulla crescita, che ci vede agli ultimi posti in Europa. Bisogna battersi per rafforzare la Ue, non per rilanciare gli egoismi nazionali. E le priorità sono due: una politica della difesa comune e un salto nella cooperazione tra i Paesi pronti a farlo. Meglio un’Europa a due velocità che non la stagnazione».
Nel libro di Vespa Renzi sostiene che le sue critiche sono figlie della mancata nomina a ministro degli Esteri della Ue.
«Fino al 4 dicembre non discuterò di retroscena. A tempo debito avrò modo di ricostruire l’intera vicenda, con ampia dovizia di particolari».
Aspettiamo. Ma a questo punto, con il rischio che l’ondata di rivolta anti élite si allarghi, votare Sì al referendum non stabilizza ed evita nuovi traumi?
«Non sono stato io a convocare il referendum e dargli la valenza di un plebiscito. Avremmo potuto esprimerci su singoli quesiti e non si sarebbe spaccato il Paese. Sarebbe bastato leggere la Carta dei Valori del Pd laddove si dice che “il partito si impegna a ristabilire la supremazia della Costituzione e a difenderne la stabilità contro i colpi di mano delle maggioranze del momento mettendo fine alla stagione delle riforme costituzionali imposte dai governi a colpi di maggioranza”. È Renzi che si è posto fuori dai valori del Pd. Eppure votò No anche lui nel 2005 contro la riforma Berlusconi che prevedeva abolizione del bicameralismo e riduzione dei parlamentari. Sono contro i plebisciti oggi come ieri e voterò contro la revisione costituzionale di Renzi. La Carta non si riforma con il voto di metà del popolo italiano, altrimenti si stabilisce un precedente e domani potremo avere la Costituzione di Beppe Grillo».
E della lettera inviata da Renzi agli italiani che vivono all’estero cosa pensa?
«Bisogna vigilare sul voto all’estero, anche perché il meccanismo si presta a manipolazioni e brogli. Da ex ministro degli Esteri spero che tutti i diplomatici italiani ricordino di essere al servizio dello Stato e non del governo. E poi, nel merito, la riforma toglie agli italiani all’estero spazio di rappresentanza. Non eleggerebbero più i loro senatori».
Che effetti avrebbe sul Pd la vittoria del Sì? Una scissione?
«Nascerebbe il PdR, il partito di Renzi. Tra i 2 e i 3 milioni di nostri elettori si sono silenziosamente scissi dal Pd, e il sentimento di estraneità crescerebbe. Di più non le so dire. Non ho né l’età né la volontà di fondare altri partiti».
Ma resterà iscritto al Pd?
«Sono iscritto al mio circolo anche per solidarietà e affetto verso il gruppetto ormai esiguo delle militanti che lo fanno sopravvivere. Dopo il referendum ho intenzione di tornare ai miei studi brussellesi, quindi non mi occuperei di politica italiana».
Se dovesse vincere il No avremmo le dimissioni di Renzi e un vuoto di potere.
«Non credo che si debba dimettere».
Ma lei non si dimise per la sconfitta in una consultazione regionale?
«Siamo diversi. Se restasse a Palazzo Chigi con più capacità di ascolto e meno arroganza potrebbe persino creare le condizioni per rilanciarsi».
Se invece si dimettesse, penso che lei vedrebbe bene un governo Padoan.
«Il presidente Mattarella saprebbe indicare una personalità super partes. Non speri di tirarmi fuori un nome. Ci sarà bisogno di un governo capace di allentare le tensioni e di prendere l’iniziativa per una legge elettorale condivisa».
Non c’è già una proposta elaborata da un comitato del Pd? E condivisa da Gianni Cuperlo, che lei conosce bene.
«Il referendum deciderà la sorte dell’Italicum, non un comitato del Pd. In quel foglietto sono enunciati principi confusi: delineano una legge elettorale non condivisibile. Rappresenta solo una via d’uscita per 4-5 persone che non se la sentivano di votare No».
Aumentano però gli ex dalemiani per il Sì: oltre Cuperlo ricordo Vacca, Velardi, Rondolino, Romano, Orfini, Gualtieri.
«Non ho mai voluto che esistesse la nozione stessa di dalemiano e si è rivelata una scelta saggia. L’unico dalemiano, peraltro critico, sono io».
Battute a parte, con il No le riforme andranno in soffitta per sempre.
«Chi lo dice? In questi 70 anni, come ricorda il professor De Siervo, si sono fatte 16 modifiche della Costituzione e 20 leggi costituzionali. Inoltre, esiste già un testo di nuova riforma costituzionale elaborato da parlamentari di schieramenti diversi, come Quagliariello e Zoggia, e che in concordia propone una riduzione dei parlamentari ancora più drastica, l’abolizione della navetta legislativa Camera-Senato e il principio che il suffragio universale serve a scegliere le persone. Penso che anche da parte dei Cinque Stelle non dovrebbe maturare un’ostilità preconcetta e quindi in 6 mesi si può approvare».