Fonte: corriere della sera
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di Giovanni Bianconi, 5 marzo 2018
Lo sfogo dopo la sconfitta in Puglia: «Noi e il Pd siamo rimasti fuori dai giochi»
«È andata», commenta D’Alema esaurito l’ennesimo conteggio, nel senso che se n’è andata la possibilità di rientrare in Parlamento dopo cinque anni di esilio e giocare un ruolo nella nuova legislatura. E dunque torna a Roma da sconfitto dopo un mese trascorso a battere palmo a palmo la punta estrema del tacco d’Italia. Bastavano altri 2.000 voti o poco più, uno «zero virgola» dei vecchi tempi, per guadagnare un seggio attraverso il complicato meccanismo dei resti: «Ho preso meno voti delle persone che ho incontrato, e questo significa che non siamo stati percepiti come qualcosa di diverso rispetto al centrosinistra e a quello che anche noi abbiamo criticato e contrastato nell’ultimo anno». La sfida è persa su due fronti: quello personale del candidato abituato a vincere da queste parti, e quello collettivo del partito appena nato con la scissione del Pd e già moribondo. Difficile dire quale bruci di più per un animale politico che tiene moltissimo alla propria immagine, ma anche a quella sinistra di origine comunista di cui fa parte e che non ha mai rinnegato.
«È finita una stagione — confida a un paio di collaboratori intorno a un tavolino dell’albergo leccese che è stato la base di ogni tappa —, ora è il tempo di dedicarsi allo studio e alla formazione. È stata l’ultima battaglia in prima linea». Che non significa la ritirata, giacché «la politica è una passione e da una passione non ci si può dimettere», come aveva ripetuto prima di questo esito. Si può continuare a combattere in altre forme, ma forse è stato un errore aspettare di farlo e insistere rimettendosi in gioco con il proprio volto e la propria storia, in un momento in cui il passato sembra più un ostacolo che una risorsa. L’ex leader del Pds allarga le braccia: «Io mi sono limitato a raccogliere un invito pressante, e penso che fosse per me inevitabile accettare, con tutti i rischi di un lancio senza paracadute. Era nel conto delle possibilità, è andata così». Eppure fino alla sera di domenica mostrava altre prospettive. Anche quando è andato a visitare i seggi elettorali a Nardò (con il sindaco di CasaPound che osservava la scena da lontano, seduto su una panchina) e a Galatina. Strette di mano, sorrisi e «in bocca al lupo», che sembravano poter reggere l’urto dei musi lunghi o indifferenti in fila per votare, e perfino a quel prototipo del supporter grillino che gli chiede: «Ma lei che ha fatto, in vita sua, oltre al politico?». «Per esempio ho diretto il quarto giornale italiano», risponde lui riferendosi a l’Unità degli anni Ottanta, ma quello non resta convinto: «Giornalista? Peggio».
C’era comunque l’idea di spuntarla per l’appoggio assicurato perfino da preti e suore, o dal sostenitore di centrodestra che aveva promesso: «La voterò perché non voglio prendermi la responsabilità di lasciar fuori dal prossimo Parlamento una personalità come la sua». Rassicurazioni utili magari ad aumentare l’autostima, ma non a ribaltare la situazione. Che sollecita un po’ di autocritica: «Non abbiamo percepito quanto fosse grave la situazione. Non siamo riusciti a distinguerci abbastanza dal centrosinistra, né a capire quel che covava realmente sotto la pelle delle persone e della società. La polarizzazione ha favorito il cosiddetto “voto utile”; non al Pd come voleva Renzi, ma a scacciare le paure».
È il momento dell’analisi generale. Non per prevedere ciò che accadrà, ma per provare a interpretare ciò che è accaduto: «Gli elettori sono entrati nel gioco scegliendo il centrodestra nel timore che prevalessero i grillini, o viceversa. Si sono schierati sui due fronti che avevano qualche possibilità di vittoria. Il Pd è rimasto fuori dal gioco, e così noi. La trappola del meccanismo maggioritario residuo ci ha schiacciato. E ci sarà molto da riflettere sulla portata dello tsunami che s’è abbattuto sulla sinistra italiana».
Il primo travolto è Matteo Renzi, ma D’Alema non mostra soddisfazione per il destino del rottamatore che rischia di essere rottamato al primo ingresso in Parlamento: «Quello che s’è portato via è troppo, francamente», dice l’ultimo premier del Novecento italiano (lasciò palazzo Chigi all’inizio del 2000), che all’improvviso appare davvero come un politico del secolo scorso, mentre sotto la pioggia sale in macchina e torna a Roma con la moglie Linda, gli uomini della sicurezza e tanti pensieri ancora inespressi.