Fonte: Il Foglio
D’Alema: un mondo diviso che ha bisogno di un ritorno alla sovranità
di Annalisa Chirico
“Il sovranismo racchiude una istanza giusta: il ritorno alla sovranità”. Ho sentito bene? Sì, l’ha detto. Un Massimo D’Alema in versione sovranista, il primo (ex) comunista a ricoprire l’incarico di presidente del Consiglio, offre un’analisi spiazzante: “La parola ‘sovranità’ è bellissima per chi, come me, è da sempre fautore del primato della politica”, lapalissiano. L’accordo è che si parli esclusivamente di politica internazionale, del resto il presidente della fondazione ItalianiEuropei non si occupa più di cosucce nostrane (“La stampa italiana? Non la leggo, scrivete un mucchio di falsità”), e tra pochi giorni uscirà in libreria con un saggio dal titolo “Grande è la confusione sotto il cielo” (Donzelli ed.). Sei lezioni sulla crisi dell’ordine mondiale, a trent’anni dalla fine della Guerra fredda e del bipolarismo. “La convinzione che il mondo si sarebbe unito intorno ai princìpi della democrazia liberale e dell’economia di mercato si è rivelata largamente illusoria – spiega D’Alema – Il mondo è più che mai diviso, con una tendenza alla moltiplicazione di conflitti e fratture. La disarmonia sembra arrivata ad una punta estrema. L’Occidente non è più in grado di fungere da arbitro capace di imporre il rispetto delle regole del gioco: la sua egemonia, in senso gramsciano, è compromessa”. Il gap tra il carattere globale dell’economia e quello nazionale della politica è una delle ragioni della crisi della globalizzazione e, in particolare, delle crescenti diseguaglianze in un mondo dove un’enorme quantità di ricchezza e potere si concentra nelle mani di una oligarchia ristretta. La democrazia è attraversata da un deficit di inclusione, è destrutturata, priva di corpi intermedi, immediata e dunque fragile, incapace di produrre leadership degne di questo nome. Manca stabilità di visione. Pensi al caso italiano: i leader, da noi, vivono soltanto cicli brevi, il che produce paralisi istituzionale e incapacità di incidere”.
In un mondo “G-zero”, come lo chiamerebbe Ian Bremmer, chi potrebbe rimpiazzare gli Usa nel ruolo di guida?
“Nessuno appare nelle condizioni di farlo. Non la Russia che non ne ha la forza economica e politica ma neppure la Cina che si avvia a diventare la più grande potenza economica del mondo. Difficile esportare il ‘socialismo con caratteristiche cinesi’, perché troppo legato alla tradizione culturale confuciana e alla storia di un grande impero la cui esperienza è stata più quella di proteggersi dalle minacce esterne che non quella di espandere il proprio dominio nel mondo”.
Il paradigma della Grande Muraglia (la difesa da ciò che sta fuori) vale ancora oggi o la Cina del presidente Xi Jinping coltiva invece mire espansionistiche?
“La loro è una visione egemonica, non imperialista: i cinesi sono convinti che la loro civiltà, con i suoi quattromila anni di storia, sia superiore alle altre, e forse non è una tesi infondata. La Cina punta ad esercitare un’influenza mondiale sul piano economico e culturale. Tuttavia la drammatica vicenda del Coronavirus ne mostra le debolezze e i punti di forza: l’assenza di libertà di espressione e di informazione, il conformismo e il controllo burocratico hanno fatto sì che l’allarme giungesse con un colpevole ritardo. E’ anche vero però che una politica in grado di decidere e agire ha offerto una risposta impressionante, potendo contare inoltre sulla coesione di una società in cui solidarietà e disciplina prevalgono sulla frammentazione individualistica. Il loro senso di armonia contrasta con il disordine e l’anarchia dello sviluppo capitalistico. Il taoismo è ricerca dell’armonia con la natura, il confucianesimo è la scienza dell’armonia tra gli uomini…”.
Lei nel libro si sofferma sulla “domanda di senso” che percorre l’esistenza umana.
“La cultura occidentale, imperniata sulla centralità dell’individuo e sulla sua libertà, si pone il problema della domanda di senso, un concetto sconosciuto alle religioni orientali, immanentistiche, dove l’individuo non esiste”.
Tornando alla politica, lei ha capito perché l’Italia è l’unico paese fondatore dell’Ue ad aver sottoscritto il memorandum d’intesa con la Cina?
“Lo considero un atto di ingenuità del governo di allora. Diversi paesi europei coltivano con Pechino rapporti economici più intensi dei nostri senza aver firmato alcun memorandum”.
Il Copasir ha messo in guardia dal 5G cinese aderendo alla linea “ban” dell’amministrazione Usa. Nel Regno unito invece Boris Johnson, ad esempio, ha dato il via libera a Huawei, pur con alcuni caveat.
“Non penso che Huawei sia una minaccia particolare per la sicurezza del nostro paese. Sappiamo attraverso infiniti esempi che tutte le comunicazioni che passano per internet possono essere intercettate, utilizzate e manipolate da parte di tutti, governi stranieri, servizi segreti e anche società che utilizzano queste informazioni a scopo commerciale”.
A suo giudizio, le cautele del Copasir sarebbero esagerate?
“Sì, è esagerato indicare una sorta di pericolo cinese”.
Pur ammettendo l’indipendenza di Huawei, lei sa bene che se il governo, l’esercito o i servizi segreti cinesi chiedessero a un’azienda di collaborare, difficilmente tale richiesta potrebbe essere negata.
“Il problema è quello di rafforzare le regole a tutela della privacy e della libertà degli individui e investire nella cybersecurity per proteggere le infrastrutture fondamentali del paese. L’Italia deve adottare un sistema di precauzioni, come ha fatto negli anni con tutti gli operatori privati stranieri. Non è questione di nazionalità: dobbiamo”.
In Europa si procede in ordine sparso perché manca una vera politica di difesa e sicurezza europea.
“E’ una grave mancanza. Io vorrei un’Europa più snella e più potente, con meno burocrazia e meno regolamenti ma più politica estera comune, più difesa comune, più politica energetica, più compagnie di dimensione continentale. In un mondo dominato dal confronto tra Stati uniti e Cina, i singoli paesi europei sono destinati a non avere alcun peso, perciò la risposta alla domanda di sovranità, cui accennavo all’inizio, non può essere il ritorno ai nazionalismi ma è invece l’affermazione di un sovranismo europeo”.
Che ci renderebbe più forti agli occhi dei nostri competitor globali.
“Donald Trump e Vladimir Putin sostengono, direttamente e indirettamente, le forze politiche che minacciano l’unità europea perché entrambi hanno interesse a contrastare il progetto di un’Europa più forte”.
Secondo Giulio Tremonti, l’Europa che doveva federare i cuori ha federato solo i portafogli.
“L’Ue attraversa una crisi profonda: le forme di cooperazione economica e monetaria non sono state accompagnate da un processo adeguato di coesione politica. Ma non c’è alternativa all’unità europea. Anche perché se non siamo uniti non conteremo, progressivamente, più nulla. E poi c’è un dato demografico non irrilevante: cento anni orsono, gli europei rappresentavano un quarto della popolazione mondiale con un’età media di 28 anni, oggi sono circa il dieci percento con un’età media di 42”.
A proposito di campioni privati europei, la disciplina antitrust di Bruxelles sembra tesa ad ostacolare fusioni e acquisizioni, come nel caso di Fincantieri e Chantiers de L’Atlantique.
“E’ un meccanismo autolesionista: rischiamo di imbrigliare le nostre imprese in un reticolo normativo concepito in un’epoca in cui l’esigenza primaria era tutelare la concorrenza all’interno del mercato europeo; oggi quelle regole rischiano di tagliarci fuori dalla concorrenza globale: o ci dotiamo di una potenza sufficiente per competere con i gruppi americani e asiatici oppure saremo destinati a soccombere”.
Veniamo alla Libia: nel 1912 l’Italia giolittiana completava la conquista del paese cacciando gli ottomani dal nord Africa. Un secolo dopo, un capo del governo italiano deve recarsi ad Ankara per ottenere rassicurazioni sulla tutela dei nostri interessi nella regione.
“Abbiamo perso terreno, è un dato innegabile. La progressiva marginalizzazione dell’influenza italiana, a partire dal 2011, chiama in causa la responsabilità nostra e delle Nazioni Unite che hanno nominato improbabili rappresentanti negli ultimi anni”.
Forse un inviato italiano in Libia ci avrebbe cavato d’impaccio?
“I libici sarebbero stati favorevoli, non chiederlo è stato un errore. Adesso si combatte una guerra regionale dove si confrontano due mondi: l’islam politico che gravita attorno alla figura di Recep Tayyp Erdogan, capo de facto della Fratellanza musulmana, alleato con il Qatar; e, sul fronte opposto, élite e milizie cosiddette modernizzatrici, sostenute da Egitto, Emirati arabi”.
I negoziati di Ginevra sono falliti, il cessate il fuoco resta una chimera. Secondo Marco Minniti, si dovrebbero coinvolgere tribù e sindaci individuando una figura che vada oltre la polarizzazione tra al Sarraj e Haftar.
Io sono d’accordo con Minniti, bisognava coinvolgere tribù e sindaci. Mi domando perché il governo italiano non lo abbia fatto negli anni scorsi.
Il presidente francese Emmanuel Macron, nell’intervista all’Economist in cui ha dichiarato la Nato in “stato di morte cerebrale”, ha anche invocato un cambio di policy verso la Russia.
“Concordo, la politica verso la Russia, nel corso di questi anni fino ad arrivare alle sanzioni, ha dato la sensazione di una ostilità e di un accentramento, il cui effetto è stato quello di rafforzare il nazionalismo russo e spingere la Russia, che ha una vocazione europea, a un rapporto stringente con la Cina. L’Organizzazione per la cooperazione di Shangai, che riunisce Cina, Russia, Kazakistan, Tagikistan, Kirghizistan, Uzbekistan, India e Pakistan, dispone di un arsenale nucleare superiore, per dimensioni, a quello della Nato. Non è nostro interesse spingere verso un nuovo bipolarismo e una nuova guerra fredda, abbiamo interesse ad un mondo multilaterale.”.
Il caos libico, per l’Italia, significa anche immigrazione.
“Nel nostro paese il tema è affrontato secondo un’ottica drogata: arrivano molti più migranti da Oriente che dal nord Africa. La verità è che un ministro tiene bloccate su una nave poche centinaia di disperati per ragioni di propaganda, per creare artificiosamente l’emergenza”.
Matteo Salvini è un sequestratore di persone?
“Non mi occupo di reati, perciò non mi esprimo sulla rilevanza penale dei fatti. Se però blocchi una nave per dare l’impressione dell’invasione in atto, indispettisci gli interlocutori europei con i quali dovresti invece condividere l’onere dell’accoglienza. Non si fa propaganda sulla pelle delle persone”.
Di recente, l’assemblea del Pd ha approvato una mozione che segna un’inversione a U rispetto alla linea Minniti.
“Delle mozioni del Pd non mi occupo. Marco Minniti è il ministro che si è trovato a dover fronteggiare una vera emergenza, seppure per un lasso di tempo limitato”.
Il punto più controverso è la cooperazione con la Guardia costiera libica.
“Da ministro degli Esteri mi rifiutai di sottoscrivere l’accordo che pure avevo negoziato perché la controparte libica non accettava due condizioni per noi irrinunciabili: che i campi profughi fossero affidati alla gestione dell’Unhcr e che la Libia ratificasse la convenzione di Ginevra. Poi arrivò Berlusconi e firmò senza battere ciglio”.
Sui cosiddetti “porti chiusi”, metafora per dire gestione ordinata dei flussi, Salvini ha riscosso enormi consensi: il popolo non capisce?
“La gestione ordinata dei flussi è anzitutto ostacolata dalla legge Bossi-Fini che ha favorito l’immigrazione clandestina attraverso il proibizionismo. Non siamo invasi da nessuno, ma è evidente che l’impatto degli immigrati determina allarme per l’assenza di efficaci politiche di integrazione. Cavalcare questi allarmi per fini di propaganda politica è una forma di barbarie”.
A gennaio gli sbarchi sono aumentati del 700 per cento, numeri del Viminale.
“Adesso c’è un ministro competente in grado di gestire il fenomeno con la dovuta pacatezza, senza strepiti. Gli arrivi saranno anche aumentati ma parliamo di cifre modeste: 1500 persone, su una popolazione di sessanta milioni di abitanti, non sono un dramma nazionale. Quello che sfugge a Salvini è che il blocco dei migranti in mare non ha aiutato la negoziazione europea. Del resto, evocare l’Ue in quanto tale ha poco senso: la Commissione è da sempre favorevole alla condivisione solidale tra i paesi membri. I quali, invece, si oppongono, incluso il gruppo di Visegrad, da sempre contrario ai ricollocamenti. E poi questo piagnisteo per cui saremmo stati lasciati soli è senza fondamento: il 40 percento dei profughi siriani, per esempio, è stato accolto dalla Germania”.
Ma poi Merkel ha cambiato avviso ottenendo un lauto stanziamento Ue, a favore del regime di Erdogan, per blindare la rotta orientale.
È evidente che l’Europa abbia gestito male questa emergenza con scarsa solidarietà al suo interno e sotto l’incalzare di un’opinione pubblica spaventata e disorientata. Non sottovaluti poi l’evoluzione demografica: nel giro di dieci anni la popolazione italiana in quiescenza sarà superata da quella attiva”.
Ci pagheranno le pensioni, insomma.
“Ce le pagano già”.
È progressista prospettare al migrante africano un impiego da bracciante vittima del caporalato o da spacciatore reclutato dalla mafia o, nel caso di una donna, da schiava del sesso?
“Scappano dalla fame, e nel nostro paese potranno lavorare nei campi o nei ristoranti, sempre meglio che morire di stenti. E comunque credo che sia giusto, come lei sollecita, battersi per i diritti di questi lavoratori. Già oggi il 12 per cento del Pil italiano è prodotto da persone immigrate che non godono di diritti civili e hanno scarsi diritti sociali”.
Vorrebbe farli votare?
“Certamente sì nelle elezioni locali e vorrei che si accelerassero le procedure per il riconoscimento della cittadinanza per chi da tanti anni vive e lavora nel nostro paese. La politica dei “porti chiusi” attrae solo immigrazione clandestina. Le persone istruite vanno dove sono meglio accolte e dove ci sono politiche efficaci di integrazione”.
Se si osserva l’ascesa delle forze populiste, si direbbe che i cittadini apprezzano il rigore nella gestione dei flussi.
“Come le ho detto, c’è un fortissimo elemento di propaganda in un dibattito drogato”.
Secondo lo storico Francis Fukujama, populismo è l’etichetta che le élite mettono alle politiche che a loro non piacciono ma che hanno il sostegno dei cittadini.
“A Fukuyama capita spesso di avere torto, come quando nel 1989 preconizzò la ‘fine della storia’ con l’ineluttabile avvento della democrazia liberale e del capitalismo su scala globale. E invece, come poi si è visto, una parte del mondo s’è levata in armi contro l’omologazione. Io condividevo invece il pensiero di Samuel Huntington: la scomparsa delle ideologie avrebbe portato al conflitto tra le civiltà”.
Lei ha criticato aspramente l’eliminazione del generale iraniano Qassem Soleimani da parte di un drone americano.
“L’assassinio extragiudiziario di un cittadino di un altro paese con cui non si è ufficialmente in guerra è un atto contrario al diritto internazionale, ai princìpi e ai valori su cui sono fondate le nostre democrazie”.
Soleimani era il grande burattinaio di una rete terroristica responsabile dei ripetuti attacchi contro le basi americane in Iraq, le petroliere saudite e Israele.
“Non so a quali fonti lei attinga. Mentre risulta per certo che gli iraniani e Soleimani abbiano dato un contributo decisivo a sconfiggere l’Isis nella regione”.
Chiudiamo, presidente. Nel libro in uscita lei cita Antonio Gramsci: “La crisi consiste nel fatto che il vecchio muore e il nuovo non può nascere”. L’Italia attraversa un simile “interregno”?
“Direi proprio di sì, e in questa fase, diceva Gramsci, si verificano i fenomeni morbosi più disparati”.
Come il repentino passaggio da maggioranze sovraniste a maggioranze europeiste, a premier invariato.
“Io non partecipo”.
Da candidato alle politiche del 2018, lei disse che dal giorno successivo al voto avremmo assistito ai peggiori mercanteggiamenti, tra “gattopardi e trasformisti”. Ci aveva preso.
“Ogni tanto mi capita di prenderci”.
Come su Matteo Renzi?
“In questo caso i fatti sono andati oltre le mie ragioni”.