Fonte: il Corriere della Sera
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di Tommaso Labate, 17 settembre 2017
Del D’Alema che duellava con gli avversari più (Veltroni) o meno (Prodi) interni contrapponendo il suo «pugno del partito» alla loro popolarità nella «società civile» non rimane che un ricordo sbiadito
Agit-prop
Il dettaglio storico sul leader del Pkk, la prima grana internazionale che piovve sul governo D’Alema nel 1998 («Io non ho consegnato Ocalan, furono i servizi greci che lo diedero a Israele»), è stata la spia di un fenomeno più grande. In pensieri, parole opere e anche omissioni dell’anno 2017 — ma soprattutto nelle parole («Ti spacco la faccia», «Chi dice che la Sicilia è un fatto locale è un idiota», «Renzi mi ha voluto punire col Pse ma io, quando prendo un cazzotto, lo restituisco») — il Lider Maximo ha celebrato la sua definitiva mutazione. Il politico celebrato fin da bambino da Togliatti, il leader che costruiva i governi a tavolino ricevendo le telefonate del Quirinale nelle pause pubblicitarie dei programmi tv (il governo Dini nacque così, durante una trasmissione di Luciano Rispoli), adesso è diventato un agit-prop. Parla come il popolo, si rivolge direttamente al popolo.
«Ceto politico»
E non è mica soltanto una questione di oratoria. No. Del D’Alema che duellava con gli avversari più (Veltroni) o meno (Prodi) interni contrapponendo il suo «pugno del partito» alla loro popolarità nella «società civile» non rimane che un ricordo sbiadito. Basti pensare che, per esempio sulle primarie, il Lider Maximo la pensa esattamente come Renzi. «Dobbiamo farle anche noi a ogni costo. Non possiamo lasciare questo strumento al Pd», ripete a ogni pie’ sospinto. E ancora, sempre meno dalemiano. «Dobbiamo restituire al Paese una forza di sinistra. Ma non possiamo né dobbiamo dare l’impressione di dar vita a un’operazione di ceto politico…», scandisce lo stesso uomo che ha sempre attribuito proprio al «ceto politico» formatosi all’interno dei partiti il potere di timbro su tutto quello che era una democrazia compiuta.
«L’uomo del partito»
Con questa «svolta», D’Alema è diventato una specie di beniamino della sinistra che sta fuori dai confini di Mdp. Dentro Sinistra italiana, così come tra i movimenti che mesi fa hanno animato l’adunata al Teatro Brancaccio («C’erano anche degli estremisti ma io ci sono andato, dovevo andarci»), nessuno fa mistero di preferire l’ex premier a Pier Luigi Bersani, che in questa fase viene visto più come «l’uomo del partito». Nicola Fratoianni lo ripete ai suoi di continuo: «Noi siamo con D’Alema, che vuole scegliere un leader dal basso. Il problema è Bersani, che vorrebbe l’incoronazione di Pisapia. E questa cosa, a noi, non sta bene». Ed è un altro scherzo del destino, questo. Soprattutto se si considera che esattamente dieci anni fa, quando i vertici di Ds e Margherita avevano confezionato su un piatto d’argento l’elezione di Veltroni alla guida del Pd, c’era un solo big pronto a uscire dal coro per candidarsi alla consultazione. Era Bersani. A fermarlo, manco a dirlo, D’Alema.