Dal partito di governo maggioritario della nazione al partito minoritario di opposizione

per Gian Franco Ferraris
Autore originale del testo: Fausto Anderlini

di Fausto Anderlini – 7 marzo 2018

Fanno tenerezza questi appelli alla ‘purezza’ oppositiva che si levano dai circoli dei militanti di base e che quasi tutti quelli del vertice assecondano (per ora, in attesa di….). Episodio tipico della falsa coscienza inerente a una ‘popolazione’ larga parte della quale si autodefinisce di centro-sinistra se non di sinistra tout court. Ma che, hailoro, è di fatto prigioniera di un partito di centro. Di centro era il già il Pd di Bersani uscito dalle politiche del 2013. Per collocazione sistemica nel campo delle forze, con il M5S da un lato e la destra dall’altro. Sebbene non di vocazione e ancora in grado di tentare una ‘coalizione’ a sinistra (con il M5S), come in effetti Bersani tentò invano di fare. Poi lo è divenuto anche per esplicito indirizzo, sotto la guida renziana, con la cacciata della sinistra interna e il tentativo di dar corpo al cd. ‘partito della nazione’: una forza di centro egemone capace di imporsi come pivot dominante di ogni governabilità. Da solo, come nel delirio del ‘partito maggioritario’, o in compagnia.

Quel progetto è fallito, ma ciò che resta è nondimeno il residuo ineliminabile, quanto perverso, di quella strategia. Il Pd è un partito di centro, lo è persino antropologicamente, nella dirigenza come nella militanza, sebbene irretita di falsa coscienza. Ma troppo debole per esercitare la coalizione da posizioni egemoniche. Dunque essendo costretto a subirla. Comunque impossibile da evitare. Un partito di centro che sta all’opposizione, equidistante da tutto, aventinista ad oltranza, è una contraddizione in termini, a meno che l’opposizione non sia un patetico giro di walzer nei rimpasti come accadeva agli alleati minori della Dc. Senonchè qui si squaderna il cul de sac nel quale il Pd è precipitato. Qualsiasi sia la scelta, col M5S o con la destra, il Pd è destinato a spaccarsi. Se sceglie si spacca, se non sceglie muore di consunzione. Non potendo sprigionare l’energia centripeta del partito dominante, o maggiore. Come era inesorabile accadesse per i partiti popolari eredi della Dc guidati da Martinazzoli, Bianco e Rocco Buttiglione.

Evitare la scelta, congelando momentaneamente la situazione di stallo con qualche tipo di governo del presidente, tecnico, di scopo, di intese più o meno larghe, sarebbe per il Pd la condizione ideale. Magari in attesa di nuove elezioni da affrontare con un progetto ‘macroniano’ di neo-centrismo in combutta con forza-italia. Terreno comunque insidioso, perchè se Renzi ha oggi il controllo del gruppo parlamentare, questo controllo ha un limite nella conservazione del seggio. I parlamentari del Pd sono arnesi moderati di ceto politico che per vocazione intima ‘guardano a destra’ (pur essendo stati candidati ‘a sinistra’) e una folla di carneadi che vivono la loro condizione come un miracolo. Che devono in tutto al loro ‘conducador’, ma al quale difficilmente rinunceranno se il levatore dovesse metterlo a rischio. La crisi ha tempi brevi. La si misurerà in tutta la sua estensione all’atto dell’elezione dei presidenti delle camere.

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