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di Francesco Seghezzi, 10 gennaio 2017
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Nelle ultime settimane il dibattito politico sul lavoro è stato calamitato dal tema dei voucher, al punto che, immaginando uno straniero che legge per la prima volta le notizie del nostro Paese, potrebbe facilmente pensare che la maggioranza della popolazione italiana venga oggi retribuita mediante buoni lavoro.
Ma, volendo provare a tracciare alcune delle tematiche che il mondo del lavoro dovrà affrontare nel 2017, la prima affermazione da fare è che quello dei voucher è un piccolo problema, piccolissimo, come ci ha ricordato qualche giorno fa la prima nota congiunta sui dati del lavoro prodotta da Istat, Inps, Ministero del lavoro e Inail: i voucher corrispondono allo 0,23% del costo del lavoro complessivo italiano.
Questo non significa che non vi siano casi di abuso e non vi siano settori che colpevolmente utilizzano questo strumento per ridurre il costo del lavoro e le tutele dei lavoratori, ma di certo non siamo di fronte al problema principale del problematicissimo mercato del lavoro italiano.
Una repubblica fondata sull’inattività?
Ciò detto è bene sottolineare che questa premessa non vuole essere una sottolineatura positiva, significa al contrario che i nodi critici da affrontare sono molto maggiori.
Partiamo da un quadro d’insieme, che dice molto della nostra situazione e che sembra essere ignorato dai più: quante persone lavorano in Italia?
Proprio nei giorni scorsi l’Istat ha pubblicato l’Annuario 2016 che, tra tante statistiche e dati, contiene una chiarissima rappresentazione del nostro Paese che, sebbene aggiornata al 2015, è ancora validissima. Su 60,441 milioni di residenti (ai quali si aggiungono i residenti irregolari) il numero di persone che lavorano è di 22,465 milioni, pari al 37,2%, quindi circa un terzo della popolazione ha un lavoro. I rimanenti si dividono in chi è inattivo per questioni d’età, in quanto minore di 15 anni o over 65, pari a 20,095 milioni (34,6%), un 5% di disoccupati (3,033 milioni) e una enorme schiera di inattivi in età da lavoro pari a ben 14,038 milioni, il 23,2% della popolazione.
Già questi numeri basterebbero a tracciare un quadro desolante e a mostrare con chiarezza lampante quali siano le fette di mercato sulle quali è necessario ed urgente intervenire. Ma se si vuole scendere ancor più nel dettaglio si può mostrare come sui 22,465 milioni di lavoratori 4,1 milioni siano lavoratori part-time. Questo non per accusare i lavoratori part-time che sono, seppur in aumento negli ultimi trimestri, in percentuale ancora inferiori rispetto alle medie europee ma per indicare come i percettori ufficiali di redditi da lavoro pieni sono circa 22 milioni in tutto. Se poi si analizza meglio la fetta degli inattivi si scopre che ben 10,484 milioni (il 17,3% della popolazione) sono persone che non cercano lavoro e non sono disponibili a lavorare.
La percentuale di queste persone è di gran lunga la più alta a livello europeo, come ha mostrato una recente statistica dell’Eurostat e questo significa che non è spiegabile solamente giustificandola con studenti degli ultimi anni della scuola secondaria, studenti universitari, disabili e baby pensionati.
Il dato invece tradisce il principale problema del mercato del lavoro italiano, dal quale deriva il basso tasso di occupazione: il lavoro nero. È difficile pensare a un Paese nel quale solo il 37% delle persone percepisca un reddito, vi sarebbe una situazione di insostenibilità economica totale delle famiglie, per questo la spiegazione più plausibile è da ritrovarsi in quei milioni di lavoratori in nero che ancora sono presenti. E sebbene tali lavori concorrano a creare un reddito reale nelle famiglie il costo per lo Stato e per la società, in termini di mancata contribuzione di persone che si trovano poi a beneficiare dei servizi di welfare essenziali, è enorme.
I limiti storici del Jobs Act
La sfida principale, alla luce di questi numeri, non può che essere quella di aumentare il tasso di occupazione, che ci vede al terzultimo posto in Europa e lontanissimi dagli obiettivi di Europa2020. Negli ultimi due anni il numero di occupati è tornato a crescere ma, a partire dal terzo trimestre del 2016, stiamo assistendo a un rallentamento, come confermato dall’ultima diffusione Istat di ieri. L’interpretazione più ragionevole, anche a fronte di un Pil in debole risalita, è che la forza propulsiva del Jobs Act abbia finito il carburante.
Infatti se nel 2015 la decontribuzione fino a 8060 euro per ogni nuovo contratto a tempo indeterminato aveva sicuramente spinto le imprese ad assumere, anche anticipando alcune assunzioni programmate per i mesi successivi, con la riduzione della stessa stiamo assistendo a un numero di contratti a tempo indeterminato attivati pari circa al 40% in meno rispetto al 2015 e più bassi anche del 2014, quando la decontribuzione non era in vigore.
Ma non sono solo questi dati che fanno immaginare un 2017 difficile sul fronte della ripresa occupazionale, è piuttosto il progetto socio-culturale del Jobs Act che deve oggi essere messo in discussione. L’indirizzo di politica economica che sottostava a quella che Renzi ha sempre considerato la madre di tutte le riforme era quello di ricondurre la maggior parte delle nuove assunzioni non solo ai contratti di tipo subordinato, ma a quelli a tempo indeterminato. A tal fine si è intervenuti nell’eliminazione totale o parziale di diverse forme contrattuali (tra cui i co.co.co. e i co.co.pro.) e si è introdotta la decontribuzione.
Con i dati oggi disponibili per il 2016, aggiornati ad ottobre, possiamo vedere come l’effetto della decontribuzione sia stato quello di drogare il mercato del lavoro che, in crisi d’astinenza, non ha trovato il metadone necessario per continuare il trend del 2015. Infatti nei primi dieci mesi dello scorso anno solo una nuova assunzione su cinque è stata effettuata con contratto a tempo indeterminato e il lavoro a termine, insieme ai voucher, è tornato ad essere lo strumento preferito dalle imprese.
Non basta incolpare il mondo dell’impresa per non voler instaurare rapporti “stabili” e duraturi con i dipendenti, rischieremmo di non capire come sta profondamente cambiando, ormai da anni, il mercato del lavoro. Non siamo più di fronte ai cicli di vita dei prodotti lunghi tipici del fordismo, che potevano anche accompagnare l’intera carriera lavorativa, ma di fronte ad elementi di cambiamento, soprattutto dettati dall’innovazione tecnologica e dalla centralità delle preferenze dei consumatori, che non consentono più programmazione e lungo termine.
Prodotti che cambiano spesso, requisiti di competenze ed esperienza mutevoli e in rapida evoluzione, oltre che esigenze di vita differenti da parte di molti lavoratori, oggi non possono essere governati con strumenti del Novecento, come sono i contratti subordinati, soprattutto a tempo indeterminato. Questo non significa che essi debbano scomparire, anzi sono e restano preziosi in un periodo di transizione come quello che stiamo attraversando, ma devono essere accompagnati da nuovi strumenti, e questa è la principale sfida degli anni avvenire, a partire da quello appena iniziato.
Le politiche attive del lavoro
Parallelamente all’intervento sulle forme contrattuali e alla loro liberalizzazione è necessario completare la realizzazione di un vero sistema di politiche attive del lavoro. Infatti, al momento ci si è dedicati unicamente ad una operazione di smontaggio di alcune tutele (tra tutte l’articolo 18) senza pensare ad una rete di salvataggio. Si tratterebbe di implementare quel capitolo del Jobs Act che oggi sembra fermo o in fase di primissima sperimentazione oltre che azzoppato dal risultato del referendum costituzionale che rischia di bloccare il processo di centralizzazione delle competenze in materia di lavoro iniziato con la costituzione dell’Agenzia Nazionale delle Politiche Attive del Lavoro (ANPAL).
Senza un sistema che sia in grado di far incontrare domanda e offerta di lavoro, riqualificare i lavoratori dalle competenze obsolete, valorizzare quanto invece ancora può essere utile per le imprese è difficile immaginare che l’enorme schiera di inattivi e disoccupati possa entrare regolarmente nel mercato.
L’evoluzione tecnologica, la madre di tutte le sfide
Sullo sfondo, oltre ad altre tematiche centrali quali l’evoluzione demografica, la sfida dell’immigrazione o della sostenibilità ambientale del lavoro, c’è l’evoluzione tecnologica che, come già in tanti momenti della storia recente e non, sta facendo discutere per la potenziale erosione di fette importanti di occupazione.
Purtroppo sembra che il tema sia diventato più oggetto di dibattiti mediatici e giornalistici che capitolo fondamentale dell’agenda politica italiana. Al contrario potremmo prendere spunto da diversi Paesi, si pensi solo agli USA in cui recentemente è stato pubblicato, a cura della Casa Bianca stessa, il rapporto Artificial Intelligence, Automation, and the Economy nel quale si affrontano le diverse sfide che l’evoluzione tecnologica e l’automazione lanciano soprattutto al mondo del lavoro per poi concludersi con delle concrete linee guida di policy che partono dal presupposto che la tecnologia non è un destino, ossia che è possibile governarla ed indirizzarla senza subirla.
In primo luogo, si parla di investire in tecnologia e si elencano i principali benefici che essa può avere per la popolazione e anche per eliminare alcuni lavori che ancora oggi risultano usuranti; una ampia parte è poi dedicata alla formazione e alle azioni per sviluppare e riqualificare competenze per non restare vittime ma guide della tecnologia stessa; in ultimo un ampio pacchetto di politiche per gestire la transizione verso un nuovo mercato del lavoro, per evitare di abbandonare fette importanti di lavoratori.
Tre spunti apparentemente semplici, ma che sembrano lontani anni luce dai temi di cui oggi stiamo discutendo in Italia, ancora ancorati ad un quadro novecentesco che vive solo nei dibattiti e negli schemi mentali. Se nel 2017 ci accorgessimo di come è cambiato il mondo intorno a noi e di quanto questo richieda urgenti risposte sarebbe già una svolta.