Fonte: L_Antonio
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a cura di Alfredo Morganti e Giorgio Piccarreta – 13 luglio 2017
L_Antonio continua la serie delle interviste alla sinistra. Dopo D’Alema, Rosa Fioravante, Bersani, Jonathan Pine, Laura Lauri, oggi è la volta di un grande dirigente politico, di antico corso e vasta raffinatezza intellettuale, Gianni Cuperlo. Un’intervista che spinge inevitabilmente alla riflessione.
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“Una forza che rimuove le ragioni e le radici della sua distanza da parti della società che pure dovrebbero essere il tuo insediamento è destinata a perdere ancora. La rottura a sinistra è l’anticamera di una nuova perdita di identità e consenso. Se la risposta fosse un’alleanza impropria con pezzi della destra, verrebbe meno la natura e la missione per cui il Pd è stato immaginato. Ho vissuto la mia militanza dentro questo partito con lealtà, oggi mi colpisce l’isolamento nel quale tende a precipitare questo gruppo dirigente. Io voglio rafforzare la presenza della sinistra ma vorrei farlo senza considerare la sfida del governo un materiale d’archivio per documentari di Rai Storia. Credo di avere seguito come sempre una bussola che puntava a tenere assieme ciò che forse già non voleva più stare assieme. Mi sentirei colpevole se lasciassi a chi viene dopo un paesaggio di macerie. Ho ‘aggredito’ due volte l’Ulisse di Joyce, ma non ci ho capito nulla. Donnarumma? Quale danno può recare una logica del denaro senza limiti e confini”. (Gianni Cuperlo)
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On.le Cuperlo, si sta nel PD come ‘le foglie sugli alberi in autunno’, oppure… (continui lei, ma senza esagerare).
Il titolo di quella poesia di Ungaretti è Soldati e forse il paragone regge il giusto. Mesi fa in una riunione di parlamentari mi sono permesso un rimando diverso. A Giorgio Caproni e a versi che di certo non hanno nulla a che vedere con questo anno zero dei legami a sinistra. Comunque i versi recitano “Ho provato a parlare. Forse ignoro la lingua. Frasi tutte sbagliate. Le risposte, sassate”. Ecco, magari l’asse tra soldati e sassate, che comunque possono far meno danni dei proiettili, racconta qualcosa di questa stagione dove pare dominare un conflitto tutto interno al nostro campo e destinato a rendere molto impervia la risalita del consenso e di quella unità che troppi evocano come totem e pochi sembrano coltivare con la passione dell’orto. Nel mio piccolo mi ostino a credere che sia nei passaggi più cruenti dello scontro politico che una classe dirigente trova in sé, che vuol dire nella storia e nella volontà di non subire il dopo, una leva per ricomporre, rammendare, ciò che gli errori di ciascuno ha strappato.
Il PD sembra ‘dimagrito’ in termini di iscritti, elettori, e persino di simpatia verso l’opinione pubblica. Quasi una mutazione antropologica della sua natura, della sua composizione, dei suoi caratteri di base. Una mutazione che riguarda anche il suo elettorato, probabilmente. È un processo irreversibile? Come si arresta nel caso?
Non è solo una questione di percentuali ma un sentimento più profondo. Conosco come voi persone che hanno votato l’intera esistenza a tutelare una qualche casa della sinistra e che hanno giurato a se stesse di non cedere mai più alla sirena del mio partito finché manterrà questa linea e questa leadership. E’ una sconfitta? Per il Pd senza alcun dubbio. E’ la rottura di un patto con quella parte del Paese che avrebbe dovuto segnare il perimetro della nostra identità. In due anni, poco più, abbiamo perso sfide fondamentali, dalle regionali alle grandi città al referendum e al turno amministrativo ultimo. La replica è stata che ogni elezione fa capitolo a sé e che la prova del nove sarà la prossima. Adesso le elezioni politiche. Ma una forza che rimuove le ragioni e le radici della sua distanza da parti della società che pure dovrebbero essere il tuo insediamento è destinata a perdere ancora. Risolvere il tema liquidando il Pd che esiste come una forza di destra può scaldare i cuori di una platea mal disposta verso quel simbolo ma non aggredisce il tema. Primo perché ci sono cose fatte e che rivendico nella loro giustezza, dai diritti civili a come si è gestita la partita migranti (non parlo delle ultime esternazioni di Renzi su cui ho espresso il mio pensiero), fino a leggi di civiltà su eco reati, falso in bilancio, contrasto alla povertà, lotta al caporalato. Non sto a fare l’elenco degli errori che ho contestato sempre apertamente, ma mi batto per ancorare il Pd alla sua natura e non voglio considerare irreversibile un processo che dando per perduta la ragione storica del progetto archivia anche, per un tratto almeno, la prospettiva di un governo progressista per l’Italia. So che la strada è tutta in salita ma temo che l’unica scelta sia quella di salire.
Quanto si riconosce, personalmente, nelle politiche del PD di questi anni, nella linea della sua maggioranza, nel riposizionamento politico attuale?
L’ho accennato. Nella linea attuale della sua maggioranza non mi riconosco perché ritengo che la rottura a sinistra sia anticamera di una nuova perdita di identità e consenso. A quel punto non so se, come scrivono alcuni, la sola risposta di governo potrebbe essere un’alleanza impropria con pezzi della destra. So che se così fosse verrebbe meno la natura e la missione per cui il Pd è stato immaginato. E non vale dire “ma con Berlusconi avete governato prima voi” perché quella di Letta era una condizione di assoluta necessità, non una ipotesi strategica. E Bersani scelse di rinunciare a Palazzo Chigi per un atto di coerenza con la conduzione della stagione precedente. Detto ciò ripeto, vedo anche i risultati positivi di questi anni, le cose giuste che si sono fatte e non condivido una lettura del pregresso in bianco e nero perché le sfumature, le gradazioni, vi sono state. Personalmente ho vissuto la mia militanza dentro questo partito con lealtà. Mi sono alzato ogni volta che l’ho ritenuto giusto e ho espresso le mie critiche e proposte che potevano, a mio avviso, correggere e migliorare una linea. Oggi mi colpisce l’isolamento nel quale tende a precipitare questo gruppo dirigente. La logica del “battere i pugni” che forse favorisce l’applauso del pubblico, ma comprime le alleanze senza le quali ciò che fai resta nell’alveo della propaganda. Penso che senza il Pd, un Pd che corregga a fondo la sua impostazione, il centrosinistra di governo si allontana. Ma penso che il Pd deve prendere atto che da solo non è più in grado di vincere. Dovremmo tutti farci carico di questa realtà e offrire una risposta all’altezza che per me vuol dire ricercare i motivi, i contenuti, di una nuova vera alleanza sociale, culturale e politica.
Oggi come oggi, molti commentatori giudicano il PD un partito ‘neocentrista’. Questo non mette in difficoltà un uomo di sinistra come lei? Oppure l’assenza di culture politiche forti, rende tutto lecito, tutto pragmatico, tutto possibile?
Io sono colpito da un fatto. Che ci troviamo in questa “terra di nessuno” nel momento esatto in cui, attorno, il mondo richiama valori che, al di là della sinistra, hanno molto a che fare con la funzione delle democrazie. Meno di una settimana fa ad Amburgo abbiamo vissuto il fallimento dell’ultimo G20. Attorno a questioni come clima, cooperazione, le nuove chiavi del potere globale, si è consumato un distacco che non si è più riusciti a mascherare dietro l’immagine solare della foto di gruppo. Diciamo che dieci anni fa, all’esplodere della grande crisi, aveva ragione chi spiegava che non era già scritto come da quella frattura si sarebbe usciti. Se da sinistra o da destra. Se con istituzioni più solide o con una loro regressione. La scena che abbiamo davanti descrive la seconda strada con grandi potenze – le più grandi del pianeta – sottoposte al dominio di autocrazie o modelli autoritari che si sono incardinati anche dentro la parabola di antiche democrazie liberali. Ecco, io penso che di fronte a fenomeni di questo impatto noi abbiamo il dovere di ricollocare i principi della sinistra in una contemporaneità che ha scosso l’albero e fatto cadere parecchi dei vecchi frutti. Quando leggo frasi di esponenti del mio partito che negano ogni attualità alla distinzione tra destra e sinistra mi cadono le braccia. Ma credo sia decisivo tentare fino all’ultimo di condizionare la forza più grande del campo a non abdicare a questa ricerca. Che dev’essere programmatica, cioè devi avere cose serie da dire su lavoro migranti welfare innovazione, ma dev’essere anche uno scavo culturale su cosa è divenuto il mondo.
I pronostici dicono che il prossimo Governo potrebbe nascere da una coalizione centrista PD-FI. Una soluzione che è anche nella mente di Matteo Renzi. Non sarebbe meglio, vista la parata, lavorare al rafforzamento della sinistra nel futuro Parlamento, piuttosto che sopportare questo esito apparentemente fatale?
Ho detto che sarebbe la fine del progetto del Pd. Io voglio rafforzare la presenza della sinistra ma vorrei farlo senza considerare la sfida del governo un materiale d’archivio per documentari di Rai Storia. E allora provo, finché vedo in questa fatica la ragionevolezza dell’approdo, a non delegare il destino del primo partito a un traguardo che ne svilirebbe origine e sostanza.
Oggi, Gianni Cuperlo, che cosa non farebbe delle cose fatte? Per dire, voterebbe ancora Sì al referendum costituzionale? Quanta convinzione c’era in quel Sì, oppure le motivazioni erano anche legate alla necessità di fare ‘ponte’ tra il PD e il mondo che lo stava abbandonando in modo sempre più evidente?
Vi confesso due cose. Che ho passato l’intero mese di agosto dell’anno scorso a leggere tutto ciò che è stato pubblicato su quella riforma e sulle implicazioni di quel voto. In Parlamento, con altri, avevo tentato di correggerne aspetti di fondo e avevamo denunciato i limiti gravi, di metodo e merito, di un testo scritto male e con evidenti errori che si sarebbe dovuto correggere. La seconda confessione è che quella scelta, per il poco che può valere, è stata la più sofferta e dubbiosa della mia esperienza politica. La domanda se lo rifarei è mal posta. Se rispondessi di sì dopo l’esito del voto sarei un folle. Ma se mi chiedete, in quelle medesime condizioni cosa faresti, vi direi che ripercorrerei quel sentiero. Per due motivi che furono per me allora decisivi. Che non rinvenivo in quel testo una corruzione del modello di democrazia e rappresentanza ma una soluzione imperfetta – più che imperfetta – che si muoveva dentro un tracciato rivendicato negli anni da molti anche a sinistra. Se avessi ravvisato nella riforma uno stupro costituzionale il mio giudizio sarebbe stato diverso. La seconda ragione è che avevo compreso che da parte di tutta la minoranza vi fosse la volontà di cambiare l’Italicum e ho firmato un documento dove quell’impegno veniva assunto da tutto il Pd. Era anche una via per non spaccare quel partito a metà come una mela. Non è bastato e questo per me è un dolore e una ferita aperta. Non ho certezze granitiche che mi sostengono. Credo di avere seguito come sempre una bussola che puntava a tenere assieme ciò che forse già non voleva più stare assieme.
Con il Lingotto fu dato il colpo finale alla cultura politica che dal comunismo italiano si era dilungata ai partiti che ne erano sorti, portata ogni volta negli scatoloni di cui lei stesso ha parlato in ‘Basta Zercar’. Non è anche per questo ‘vuoto’ di cultura (della mediazione, dell’unità, dell’impresa collettiva, della partecipazione organizzata) che appare così difficile, oggi, il processo di ricomposizione a sinistra?
Assolutamente sì. Direi che su questo piano nessuno di noi può davvero dirsi esente da colpe. Abbiamo attraversato la fase di maggiore rivolgimento della vicenda storica, almeno in Occidente, senza capire che arrivava a compimento il mezzo secolo, anzi un po’ di più, che aveva fondato un compromesso alto tra capitalismo e democrazia. Il capitale si espandeva nel suo potere di governo dell’economia e poi delle società mentre la democrazia arretrava entro confini statuali e istituzioni sempre meno autorevoli. Avremmo dovuto reggere quell’urto con uno sforzo titanico di ricerca, elaborazione di nuove categorie e invece per tutto il ciclo degli anni ’90 ci siamo convinti, anche generosamente, che l’asse blair-clintoniano fosse la risposta necessaria. In questo marasma il soggetto organizzato ha lasciato posto all’esercizio via via più sofisticato della leaderizzazione e della conquista del consenso. I partiti si sono istituzionalizzati come previsto da Katz e Mair in tempi non sospetti e come spiegato dal nostro Calise. E oggi la ricomposizione necessaria sconta questi peccati. Non tanto – direbbe un’altra citazione – quelli che abbiamo compiuto, ma quelli che non abbiamo avuto il coraggio di compiere.
Il 1° luglio, a piazza SS Apostoli, si sono svolte delle prove tecniche di unità a sinistra. Lei era lì. Che giudizio ne dà? Era solo un osservatore, oppure si sentiva possibile parte in causa?
La seconda che avete detto, ovviamente. Ma serve una grande volontà comune. Non puoi costruire l’unità se vedi nel potenziale alleato il nemico da abbattere. Vedo spesso scomodare la parabola dei duellanti di Conrad. Ma una cosa è la metafora letteraria, altro il conflitto storico. Mi sentirei colpevole se lasciassi a chi viene dopo un paesaggio di macerie. Non dico che saremo noi in grado di ricostruire la casa, ma almeno sgombrare il campo da qualche detrito e farci approvare il progetto, ecco sarebbe già una buona eredità.
Domandone finale. Di solito chiediamo che cosa leggano i nostri intervistati. A Gianni Cuperlo chiediamo invece: quale libro NON ha letto, e perché? Ah, il Milan. Avete un portiere che giocherà quasi ‘aggratis’. Non vi sembra una forma di sfruttamento del lavoro giovanile?
L’Ulisse di Joyce. Aggredito due volte e riconsegnato allo scaffale attorno a pagina cinquanta. Il perché è che non ci capivo nulla. Sul giovane talento la sola cosa che viene da dire è quale danno può recare una logica del denaro (ultima citazione…) “senza limiti e confini”. Che Zoff lo protegga!