Autore originale del testo: Vincenzo Tafuri
Fonte: Istituzioni24.it
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“Gianni Cuperlo è un politico sui generis, forse, perché appartiene alla cosiddetta vecchia guardia. Lui pensa, prima di dire, prima di scrivere. Non rincorre le telecamere, tantomeno i like sui social. Malgrado i suoi sessant’anni, è un politico apprezzato anche dai più giovani, probabilmente, per la parsimonia con la quale usa Facebook e per i contenuti dei suoi post, mai urlati, sempre ponderati, spesso schierati, ma con l’intento di far riflettere chi legge. E, per chi si occupa di social media, Gianni Cuperlo potrebbe essere un case study, perché – a dispetto della velocità e brevità richiesta ai contenuti pubblicati sui social –, lui scrive post lunghi, con una spaziatura che rende fluida e chiara la lettura, elogiando, in questo modo, la lentezza. Ciò che manca, insomma, alla politica attuale. Noi di Istituzioni24.it, abbiamo voluto intervistare Cuperlo, fargli un po’ di domande che chiedessero del suo partito, dell’alleanza con i grillini, delle dinamiche parlamentari, delle leggi in discussione e della scelta del prossimo Capo dello Stato.
L’accusa mossa alle formazioni politiche italiane è di avere, alla loro guida, soltanto leader che inseguono gli umori della gente, cavalcandoli e facendone delle proprie bandiere. Il dato fondamentale è che, però, partiti così, prendono voti. Tanti voti. Se pensiamo al PD, invece, Letta appare più un funzionario di partito, un amministratore delegato di un’azienda prestato alla politica. Non è un trascinatore, uno che spacca lo schermo ed infiamma i comizi. E il suo partito non mi sembra in crescita. Dunque, considerando i paradigmi della politica moderna, fatta soprattutto di comunicazione, Letta rappresenta la migliore scelta per il Partito Democratico?
«Al netto che i funzionari di partito avevano più cultura e passione politica di buona parte dei parlamentari di ora, un leader non è chi spacca lo schermo o infiamma le piazze e il solo pensarlo dà la misura della regressione nella quale siamo precipitati. Una leadership è quella che esprime un’idea di paese e che interpreta il proprio tempo offrendo alla parte di società che si vuole rappresentare i motivi di una speranza di emancipazione, in primo luogo dal bisogno. Meno di questo e Kohl non avrebbe unificato la Germania, Mandela non avrebbe pacificato il suo popolo e Churchill non avrebbe sconfitto il nazismo. Letta è un uomo che interpreta la politica come responsabilità e questo conta. La propaganda è un’altra cosa».
Restando sempre in casa PD, sebbene esso sia nato con il modello delle primarie, non sempre lo rispetta. Infatti, per la scelta dei candidati a sindaco di Torino, di Bologna e di Roma ha scelto di celebrarle, mentre Napoli no. Il Partito Democratico è o non è il partito delle primarie?
«Se è per questo neppure a Milano o Trieste. Semplicemente, ogni città sceglie sulla base della situazione, delle alleanze, del confronto dentro il PD. Siamo un partito, non una caserma e prevedere una autonomia nelle decisioni che investono la propria comunità mi pare giusto».
A proposito, lei preferisce sindaco o sindaca, nel caso di una donna? E, sul dibattito relativo al linguaggio di genere, qual è la sua opinione?
«Personalmente, dico sindaca. Ma credo che vi sia bisogno di una educazione al linguaggio che va oltre l’aspetto della singola parola o espressione e che investe retaggi culturali più profondi. Il tema non è sindaco o sindaca, ma il fatto che ci sono ancora troppe poche donne alla guida di città, regioni, università, giornali, ministeri e imprese».
Il tema delle alleanze, in Italia, è fondamentale per governare, poiché nessun partito gode di una maggioranza assoluta in nessuno dei due rami del Parlamento. Il PD ha deciso di allearsi con il Movimento 5 Stelle: sindrome di Stoccolma oppure, strategicamente, «se non puoi sconfiggere il tuo nemico, fattelo amico»?
«Abbiamo condiviso un governo, il Conte due, che ha affrontato la pagina peggiore della nostra storia recente. Lo ha fatto con limiti, ma anche la capacità di fronteggiare sul fronte sanitario e del supporto al reddito di milioni di famiglie una crisi drammatica. Lo ha fatto ottenendo una svolta radicale della strategia europea col varo di Next Generation EU e le enormi risorse che ora il governo Draghi è chiamato a gestire. Il nostro avversario non è quel movimento che oggi conosce una sua evoluzione. Il nostro avversario è quella destra italiana che assieme a Orban firma una carta dei valori che nega i pilastri dell’Europa illuminista e democratica».
Nel Consiglio di Amministrazione della Rai, non ci sarà un esponente della minoranza parlamentare. Crede che sia stato un buon servizio, per la democrazia e per il pluralismo, escludere Fratelli d’Italia?
«Francamente no. Se ho compreso, è stato il frutto di una spaccatura nel centrodestra con Lega e Forza Italia che si sono ben guardati dal rinunciare ai loro candidati. A questo punto, penso sarebbe un atto di serietà e correttezza lasciare a Fratelli d’Italia la presidenza della commissione di vigilanza».
Il disegno di legge Zan sta vivendo un percorso controverso, sia in Parlamento sia nella società, anche nella stessa area LGBTQ+. Considerati questi contrasti, tra i quali il timore da parte di alcuni di imbrigliare la libertà di pensiero, è opportuno approvarlo in questo clima?
«È un testo discusso per molti mesi, emendato, frutto di una mediazione che a mio parere non viola alcun diritto alla libera espressione. È una legge attesa da anni che esiste in quasi tutti gli altri paesi europei e che una parte larga della società considera più che matura. In Parlamento, ciascuno si assumerà le proprie responsabilità e ne risponderà dinanzi a quei ragazzi e quelle ragazze giovanissimi che alla politica non chiedono la luna, ma solo il rispetto della loro sicurezza e dignità».
Con la pandemia, la questione immigrazione è stata accantonata, almeno politicamente e mediaticamente. Lei crede alla teoria secondo la quale i governi, di matrice neoliberista, non contrastino efficacemente l’immigrazione illegale perché il capitalismo richiede manodopera a basso costo?
«Io credo alle immagini che vedo e che raccontano di corpi affogati, di bambini salvati in extremis, di donne e uomini in fuga dai lager libici e lasciati ore in mezzo a quel cimitero d’acqua che è da vent’anni il Mediterraneo centrale. Penso che l’Europa su questa frontiera abbia mostrato tutti i suoi limiti pensando di gestire non una emergenza, ma un fenomeno strutturale, nella logica più ipocrita: pagare altri paesi purché il problema non ci arrivi in casa. Penso che la linea della destra sui porti chiusi serva solo a raccattare qualche voto agitando uno spettro e fingendo di non capire che una immigrazione regolata assieme alla difesa dei diritti umani di chi fugge da fame, persecuzioni e guerre è la vera garanzia di un livello degno di civiltà».
La pandemia ha travolto il nostro Paese, impreparato rispetto ad una crisi sanitaria. A suo avviso, come è stata ed è gestita?
«La pandemia non è una parentesi, ma uno spartiacque. Ha sorpreso il mondo, ma non tutti hanno reagito allo stesso modo. I capi del sovranismo, da Boris Johnson a Trump e Bolsonaro, a lungo hanno negato l’evidenza, spiegando che era poco più che un’influenza e causando un numero impressionante di vittime. L’Italia ha seguito da subito, da Codogno in avanti, una linea diversa anche con i ripetuti lockdown all’origine di molte conseguenze economiche e sociali. Il prezzo pagato in vite umane è stato alto, ma abbiamo fatto quanto era nelle nostre possibilità per contenere la tragedia. Ora, il piano vaccinale mi pare proceda spedito e la speranza è che la pagina più buia sia alle nostre spalle».
Che paese sta diventando l’Italia a seguito della pandemia? E la politica che cambiamenti sta subendo?
«Abbiamo ridotto di oltre 9 punti il PIL in un anno, quasi un milione di persone ha perso un lavoro spesso precario. Il tutto in un paese che da vent’anni vede ferma la produttività e dove il reddito medio pro capite è inchiodato da un quarto di secolo. Molti nostri problemi vengono da prima della pandemia anche se la pandemia li ha aggravati. La sola cosa da fare adesso è usare al meglio le risorse in arrivo dall’Europa e realizzare quelle riforme che si attendono da anni, dalla giustizia alla pubblica amministrazione, dalla transizione digitale a quella ambientale contrastando le disuguaglianze più acute a partire dai giovani e dalle donne. Sciupare questa chance vorrebbe dire consegnare l’Italia a un lungo declino e questa è la sola cosa che non ci possiamo permettere».
I dati INVALSI dicono che gli studenti hanno imparato meno durante la didattica a distanza. Lei sostiene questo cambiamento nell’istruzione e nella formazione o è convinto che solo la didattica in presenza funzioni?
«Ma quella è stata una risposta d’emergenza a una condizione di emergenza. Per altro, quasi mezzo milione di ragazzi non ha fruito della DaD perché in casa non hanno un computer, un tablet o un iPhone. Esiste una priorità assoluta che è il diritto all’istruzione per ogni bambino e ragazzo di questo paese perché sarà su questo che verremo giudicati. Detto ciò, credo che la scuola viva della presenza perché su quella si basa una socialità e un legame tra chi insegna e chi apprende che uno schermo non potrà mai restituire nella sua complessità».
Penultima domanda, un po’ più personale. Elegante, serio, educato, colto: sono gli aggettivi che, sovente, le vengono attribuiti e che, raramente, si condensano in un solo politico. Vista la sua lunga esperienza politica e date queste sue caratteristiche, oggi, pensa che potrebbe dare un maggior contributo stando in primo piano, magari da eletto, oppure dietro le quinte, nella fase di elaborazione del pensiero?
«Grazie delle parole gentili, ma tornando alla qualifica iniziale di funzionario di partito, io mi considero tale e dove mi mettono sto».
Il prossimo anno si voterà per il Quirinale. Mettiamo il caso che lei fosse eletto Presidente della Repubblica, quale sarebbe il primo messaggio che invierebbe al Paese?
«Vi siete sbagliati!».