Autore originale del testo: Umberto De Giovannangeli
Fonte: Il Riformista
Fonte: Il Riformista
Quale legge elettorale per quale idea di democrazia. È il tema rilanciato da Paolo Mieli in una intervista a questo giornale, nella quale sostiene che il punto centrale di un progetto di riforma dovrebbe essere come costruire e organizzare il consenso, e da esso far discendere la nuova legge elettorale. Lei come la vede?
La vedo come lui. Penso che l’intervista di Paolo Mieli abbia il merito di restituire al tema della legge elettorale la sua natura politica e non meramente tecnica. È un aspetto che conta perché per un quarto di secolo la discussione attorno a quale sistema di voto si dovesse privilegiare ha vissuto due limiti, anzi tre.
Il primo?
Avere immaginato che la semplice scelta di un modello anziché un altro sarebbe bastata a coartare la volontà di soggetti diversi e delle loro culture plasmando un sistema politico di volta in volta giudicato ottimale anche se frutto di una chimica di laboratorio. Quasi che il capitolo delle identità fosse creta da modellare per renderla aderente a un disegno preordinato.
Invece non è così
No, o almeno non accade col determinismo che da più parti si è teorizzato. Perché è vero che una legge maggioritaria spinge a costruire coalizioni prima del voto mentre un sistema proporzionale stimola la competizione nella conquista del consenso da spendere in una trattativa a urne chiuse, ma trarre dalla sola regola di voto la conferma di un assetto del sistema politico è una strada spesso velleitaria e il più delle volte costellata da incognite.
Veniamo al secondo limite?
Sempre da un quarto di secolo, più o meno, la legge elettorale è stata piegata alle esigenze contingenti di questo o quello schieramento. Diciamo che di prassi, chi era al governo e contava su una sua maggioranza non ha resistito alla tentazione di cucirsi addosso una legge su misura. Che poi alcune volte quel disegno abbia preso la piega dei cartoni di Willy il cojote e gli artefici del piano siano finiti vittime delle proprie macchinazioni è un altro discorso. Resta che l’onesto Calderoli non resistette anni addietro a definire una “porcata” la sua stessa norma mentre, in coda all’ultima legislatura, fu il Pd a congegnare una legge che ha contribuito a partorire questa legislatura confusa.
E siamo all’ultimo dei tre limiti?
Che forse di tutti è il più serio.
Perché?
Perché ci restituisce una corretta gerarchia tra governabilità e rappresentanza. Sempre nel quarto di secolo che stiamo prendendo in esame il principio di governabilità ha soppiantato e posto ai margini il bisogno di dare uno sbocco alla domanda di rappresentanza. Penso alla letteratura sul conoscere la sera del voto chi avrebbe governato per i cinque anni successivi, premessa per ogni assetto presidenzialista o semipresidenzialista, ma tutt’altro che scontata in una democrazia parlamentare. Diciamo che a volte si è avuta l’impressione che alcuni volessero, assai prima di Giorgetti, anticipare una modifica de facto della Costituzione lasciandone immutata la forma. Oppure penso al fatto che si è spezzato quasi ogni legame tra i territori e i loro rappresentanti con pattuglie di “nominati” che hanno alterato un rapporto di conoscenza, scambio e, insisto, rappresentanza tra elettori ed eletti. Non scorgere in tutto questo una crisi della partecipazione con percentuali sempre più alte di astensionismo significa negare la realtà.
Bene, ma fatta questa fotografia, bisogna discutere i rimedi. Sempre nell’intervista, Mieli afferma che non si può “istituzionalizzare un’emergenza. Il riferimento è al governo Draghi. “Quello di Draghi – dice l’ex direttore del Corriere – può essere e sarà sicuramente un ottimo governo a patto che di essere l’ultimo di questa natura. Non puoi pensare d’introdurre un sistema elettorale che renda questa cosa definitiva”.
Anche su questo solleva un problema oggettivo. Ripercorriamo ciò che ha preceduto l’avvento di Draghi. Si vota a marzo del 2018 e le elezioni vedono il successo di due forze, Movimento 5 Stelle e Lega, accomunate da un comune sentimento anti europeista, scettiche verso l’euro e sensibili a parecchie sirene neo-nazionaliste. Il Parlamento che esce dalle urne non esprime una chiara maggioranza politica e solo la saggezza e sapienza costituzionale del capo dello Stato consente alla legislatura di partire con la nascita del Conte 1. Un governo fondato su un contrato notarile e guidato da una figura sconosciuta agli italiani che Grillo e Di Maio indicano come la carta per uscire dall’empasse. Passa un anno e Salvini compie lo strappo del Papeete, a quel punto in un pugno di giorni vede la luce il Conte 2 con una maggioranza specularmente opposta alla precedente: fuori la Lega, dentro noi e Articolo 1. Di lì a pochi giorni si consuma la scissione di Renzi, a quel punto la pandemia congela la situazione col governo che fronteggia bene l’emergenza, il tutto sino alla capriola di Italia Viva, il licenziamento del Conte 2 e l’arrivo di Draghi sostenuto da una maggioranza che va da Salvini a Speranza. Mi scuso della ricostruzione pedante, ma che cos’è il governo Draghi se non la certificazione dell’anomalia di una legislatura che nata in assenza di una maggioranza politica ne ha partorito tre di diverso segno? Il capo del governo, per fortuna degli italiani, è una personalità dal prestigio e dalle capacità riconosciute molto oltre i nostri confini e a lui va dato tutto il sostegno per uscire da una emergenza sanitaria ed economica che non è finita. Però porsi il tema di un ritorno a una condizione fisiologica di alternanza tra maggioranze omogenee espressione della volontà popolare, ecco questa ambizione mi sembra fondata su una concezione sana della nostra democrazia e per riuscirci non basta una buona legge elettorale, serve una volontà politica.
Afferma ancora Mieli”: Quello che è successo con i 5Stelle, la Lega, Fratelli d’Italia, è il risultato di tredici anni durante i quali siamo andati avanti con governi fatti a dispetto del coinvolgimento popolare…
È così. Volendo si può aggiungere che noi, intendo il centrosinistra, le elezioni politiche le abbiamo vinte l’ultima volta nel 2006. Non fu un successo schiacciante, ma i numeri ci diedero comunque ragione e nacque il secondo governo Prodi. Non ebbe vita lunghissima, resse per diciotto mesi e con due senatori di margine, fu quasi un miracolo. Poi Mastella spiegò che poteva bastare e ci fu chi nell’Aula di palazzo Madama festeggiò la caduta sventolando la mortadella! Nel 2008 il Pd debuttò con un gran recupero di consensi, ma vinse la destra e Berlusconi tornò a palazzo Chigi. Poi nel 2013 le elezioni le abbiamo sostanzialmente pareggiate. Da lì una legislatura con tre governi: Letta, Renzi, Gentiloni e, infine, nel 2018 la peggiore sconfitta nella parabola della sinistra italiana. Bene, per circa undici di questi quindici anni noi siamo stati lo stesso al governo e sempre per ragioni legittime se non sacrosante: una volta per salvare l’Italia dalla bancarotta finanziaria, quella dopo per non consegnare il paese ai pieni poteri della destra, con Draghi per completare il piano dei vaccini e gestire le risorse di Next Generation Eu. E a scanso di equivoci sia chiaro che noi a quei governi abbiamo preso parte per scelta politica, non in ragione di una legge elettorale difettosa. Voglio dire che si può costruire una chiara offerta politica, nel caso nostro alternativa alla destra, con qualunque sistema di voto, compreso il proporzionale e la Germania sta lì a dimostrarlo. Quel che mi preme dire è che tornare a convincere una maggioranza degli italiani di una possibile alternativa alla destra dovrebbe essere di nuovo il traguardo da perseguire. Al contrario, l’idea che il centrosinistra debba puntare a un gioco di interdizione della destra confidando che neppure dal prossimo voto esca una maggioranza così da recuperare la figura di Draghi, o un’altra personalità terza e spendibile, per proseguire l’anomalia di ora temo sia una visione dalle basi fragili e dallo spirito rinunciatario.
Si è aperta la corsa al Quirinale. Cosa ci cela dietro il valzer dei nomi che è già iniziato?
Immagino ciò che da sempre accompagna scadenze così rilevanti. Parliamo della scelta di una figura di garanzia che per i prossimi sette anni agisca da presidio e tutela dei principi scolpiti in Costituzione, dell’immagine internazionale dell’Italia e della nostra affidabilità in Europa. A indicare e scegliere questa personalità sarà il Parlamento che abbiamo descritto prima e diversi elementi lasciano supporre che non sarà un percorso scontato, ma tanto più serviranno l’equilibrio e la compattezza delle forze e dei gruppi più rappresentativi. Penso che Letta stia impostando la vicenda nel modo più corretto a partire dalla scelta di attendere la fine dell’anno e l’ultimo messaggio al paese di un uomo a cui tutti dobbiamo gratitudine prima di entrare, come si dovrà fare, nel merito di una decisione fondamentale per il futuro prossimo della nostra democrazia e delle sue istituzioni.