Autore originale del testo: Gianni Cuperlo
Nel gioco del chi ha vinto e chi ha perso credo sia uscita piegata la parte consapevole del paese. Per avere congedato la personalità più adatta a guidare un governo di unità nazionale in una fase tuttora di emergenza stretti tra crisi, pandemia e guerra. E per avere messo a rischio misure urgenti su fronti sensibili: salari bloccati, l’inflazione in crescita, quattro milioni di lavoratori con reddito inferiore a dodicimila euro l’anno, i cinque milioni e mezzo di italiani costretti sotto una soglia di povertà assoluta.
Ora, il governo aveva fatto tutto bene? No, limiti e mediazioni al ribasso per forza di cose c’erano stati a partire da quella pioggia di bonus che avrebbe chiesto una redistribuzione più equa verso i bisognosi veri.
Tutto questo ora precipita in una campagna elettorale fuori sincrono rispetto alla realtà, un po’ come Enrico Ghezzi a “Fuori orario”. Fuori sincrono perché le prossime settimane saranno dedicate a predisporre liste e comizi con buona pace dell’ennesimo decreto “aiuti”, stavolta di altri 20 miliardi finalizzati a rendere meno pesante l’impatto con l’autunno di famiglie e imprese. Per tacere dei fondi europei o del rinnovo dei contratti scaduti sino alle norme in dirittura su concorrenza e giustizia. E magari con l’opzione di premere sull’Europa per uno strumento simile al Sure, la reazione indotta dalla pandemia con prestiti cospicui agli stati membri per difendere un’occupazione colpita dalla recessione.
Non so se la destra stia davvero già brindando alla vittoria in tasca. Osservando la reazione degli ultimi giorni e il moto di sostegno al premier uscente quella certezza non la coltiverei.
Torna a mente la parabola di Carlo Maria Cipolla sulla stupidità umana: egoista è chi fa il vantaggio suo a danno degli altri; stupido chi con le proprie azioni si danneggia da solo recando danno pure alla collettività. Volendo giudicarlo ammonimento valido per noi, oltre a interrogarsi su chi in questa follia abbia occupato il quadrante dello stolto, viene da credere che al campo progressista e della sinistra tocchi un compito sugli altri, e sarà condurre una campagna all’insegna della razionalità e dell’interesse per la parte di società che in questi anni è rimasta indietro, quelli confinati da tempo in fondo alla fila.
Dovremo farlo perché la prima conseguenza di ieri sono elezioni anticipate che, tolta Giorgia Meloni, nessuno o quasi voleva.
La mia preoccupazione, però, non è rivolta solamente al voto, ma a una frattura, l’ennesima, tra una parte del paese e le sue istituzioni. In fondo da anni parliamo in tutto l’Occidente di democrazie più fragili e l’assalto a Capitol Hill del 6 gennaio di un anno fa rimane immagine scolpita.
Il punto è che quella fragilità oggi è penetrata nel cuore dell’Europa, del continente dove la democrazia dei moderni ha conosciuto la sua genesi e il proprio sviluppo.
I dati sull’astensionismo raccontano una crisi della rappresentanza che è sempre anticamera di una crisi degli ordinamenti democratici fosse solo perché una democrazia con partiti deboli soffre, ma senza elettori muore.
Il vero timore è che il contesto dei prossimi mesi possa acuire questa condizione. Cito la Francia e le proteste sociali in aeroporti e stazioni bloccate da richieste di aumenti salariali commisurati al tasso inflazione (lì del 6,5 per cento) mentre l’offerta non raggiunge un terzo di quella percentuale. O lo sciopero dei macchinisti in Gran Bretagna e la paralisi olandese avviata da agricoltori ostili al taglio della metà di emissioni inquinanti entro il 2030.
A ben guardare si tratta di proteste dal sapore antico perché legate ai prodotti della terra o al diritto a muoversi per lavorare, ma con un’impronta moderna perché dietro quello scontro si staglia il bivio del modello di sviluppo che vogliamo perseguire. La verità è che non c’è transizione ambientale, climatica, produttiva senza prevedere e garantire compensazioni adeguate verso le fasce più fragili e vittime incolpevoli di quei mutamenti.
Ovunque in Occidente la destra nei confronti di tutto questo cavalca gli umori più ostili e resistenti, spesso corporativi, talora violenti.
A noi spetta mettere in campo un’offerta alternativa, credibile nelle alleanze sociali e politiche, che sappia combinare riforme percorribili al consenso senza il quale le scelte più illuminate al pari di boomerang impazziti possono ritorcersi verso chi le ispira. Non dico sia facile, ma al punto in cui siamo non vedo altro sentiero davanti a noi. Se tutto questo dovessi ridurlo a slogan magari me la caverei a questo modo: meno bonus e più riforme, lavoro, fisco, sanità, welfare, concorrenza, giustizia, diritti.
Tra due mesi, poco più, voteremo e forse è giusto così. Non abbiamo molto tempo, anzi, non ne abbiamo per nulla, ma è una ragione ulteriore per riempire la sacca di buoni attrezzi e camminare svelti in un corteo destinato a ingrossarsi lungo la via.
Crederci è la sola premessa per riuscirci.