Cuperlo: “Ho grande rispetto per Renzi, un leader che dal 40 per cento transita a meno del 2 e scarica le colpe sul fuoco amico”

per mafalda conti
Autore originale del testo: Umberto De Giovannangeli
Fonte: Il Riformista
Matteo Renzi in un’intervista rilasciata ieri ha spiegato che il Pd ha scelto una strategia suicida. Si sente di dargli torto del tutto?
Ho grande rispetto verso un leader che dal 40 per cento transita a meno del 2 e scarica le colpe sul fuoco amico. Non era un’impresa facile e lui c’è riuscito quindi ogni sua valutazione va considerata con attenzione. Eventualmente per fare l’opposto.
Sempre Renzi ha aggiunto che ad affossare il Ddl Zan è chi, come voi, rifiuta ogni modifica e ha chiosato “i massimalisti fanno convegni, i riformisti le leggi”. Se guardiamo ai numeri del Senato qualche ragione ce l’ha o no?
Italia Viva conta 17 senatori, certo se vengono a mancare non ci sono più i numeri. Noi siamo per accelerare l’approvazione di una legge giusta che nel perseguire ogni discriminazione e violenza, istigata o praticata, in ragione dell’orientamento sessuale e della libera determinazione di sé non toglie diritti a nessuno, ma ne aggiunge a chi sinora si è trovato solo ad affrontare il lato meno umano del mondo. Le libertà costituzionali sul diritto di espressione non verranno toccate, basta leggere gli articoli oggetto della polemica. Se poi il tema è su rilievi giunti anche dal fronte del femminismo penso sia saggio discuterne rammentando solo come il testo sia già il frutto di una lunga mediazione e soprattutto senza rimuovere che in Parlamento sono ben rappresentate forze disposte a farsi scudo di qualunque ostacolo e rallentamento pure di affossare la legge. Anche per questo, col rispetto dovuto a ogni dubbio espresso in buona fede, mi sento di dire, facciamo tutti assieme attenzione a non fornire alibi di comodo per un fine alternativo a quello che a parole si dichiara di condividere. E il primo passo in questo senso è impegnarsi a evitare quei voti segreti dietro cui potrebbero nascondersi ambiguità e voltafaccia. Si vada in Aula al Senato e ognuno si assuma le proprie responsabilità a viso aperto e di fronte al paese. La democrazia vive anche di questo.
Perché la stessa determinazione non sembra manifestarsi quando c’è da difendere gli operai, come quelli della Whirpool prossimi al licenziamento? Gli operai non sono più nel cuore della sinistra?
Ripeto quello che Stefano Rodotà ha insegnato a molti di noi. I diritti non sono divisibili e non ha senso rinnovare oggi una loro gerarchia. Esiste una loro unità a partire da quelli umani che debbono contenere quelli sociali, civili, di libertà e politici. Insistere sull’idea che la sinistra ha smarrito ogni attrito con la realtà perché si occupa di minoranze tutelate mentre abbandona operai e precari con famiglie a cui non sanno cosa mettere nel piatto è una caricatura che può piacere a qualche commentatore o a una destra che, essa sì, fonda su di una logica corporativa il legame tra le persone. Invece io penso sia giusto che ogni cittadino rivendichi la sua dignità sulla base di una coerente affermazione di sé: che si parli del diritto a un lavoro e un salario proporzionato come sancito dall’articolo 36 della Costituzione, del rispetto della propria nazionalità, del credo religioso o dell’orientamento sessuale. I diritti non sono un carciofo che si sfoglia e donne e uomini debbono unificare la battaglia per la loro difesa e conquista. Tra le piazze dei sindacati, i picchetti davanti ai poli della logistica, la protesta per un bracciante a cui scoppia il cuore per la fatica e quelle del pride non c’è un conflitto, tanto meno contraddizione. Sono facce di una lotta inesausta per strappare condizioni di vita degne per ognuno. Unire quelle piazze, farle dialogare e camminare assieme, è la premessa per rendere più forte la battaglia contro una destra oscurantista che in angoli diversi del mondo, e purtroppo anche nel cuore dell’Europa, sta alzando la testa.
“Squadracce che picchiano sindacalisti, imprenditori senza scrupoli, schiavitù̀: la storia è stata ricacciata all’indietro fino all’Ottocento”. Così Fausto Bertinotti su questo giornale. Siamo a questo punto?
Molto tempo fa, più o meno a metà degli anni ’80, un interlocutore critico con alcune delle sue tesi si rivolse a Claudio Napoleoni, economista e intellettuale vicino al Pci e la domanda provocatoria che gli pose fu: “Claudio dov’è la porta?”. Sottinteso: per uscire dal capitalismo. Napoleoni replicò: “Non si tratta di uscire dal capitalismo per entrare in qualcos’altro, ma di allargare nella massima misura possibile la differenza tra società e capitalismo”. Bene, quarant’anni dopo quella risposta si è fatta profezia e noi stiamo assistendo al fallimento di un intero modello di capitalismo finanziarizzato che ha fondato la sua egemonia su una svalutazione sistematica del lavoro comprimendo diritti, garanzie, tutele e redditi. Non è che le storture di quella ideologia fossero sconosciute. Da Tony Judt a Anthony Atkinson passando per Luciano Gallino e, con loro, una buona schiera di premi Nobel, in molti avevano avvertito sul possibile collasso di un impianto che separando l’economia e il profitto dal destino delle persone allargava oltre ogni moralità la forbice delle disuguaglianze determinando l’impoverimento di larghi strati di popolo. Dopo la crisi del 2008 quel divario tra picchi di ricchezza e abissi di miseria ha interessato sempre di più anche un pezzo della classe media e questo ha inciso sulla tenuta degli ordinamenti democratici nel cuore dell’Occidente a meno di credere che Trump o la destra sovranista in Europa siano scesi da Marte. La pandemia ha alzato il sipario su questa scena: ha reso plastica la discriminazione sui vaccini verso paesi e continenti del mondo lasciati ai margini, ha rimesso al centro il ruolo dello Stato e della spesa pubblica, ha costretto anche i più riottosi a ripensare la natura di un welfare universalistico. Adesso alla sinistra tocca il compito di ricollocare il lavoro, compresi diritti e dignità della persona, nel ruolo che deve avere e per farlo bisognerà riscoprire la natura del conflitto come strumento per conseguire traguardi che i rapporti di forza e di potere attuali non saranno mai disposti a regalare. Se c’è chi nutre dei dubbi la parabola sullo sblocco dei licenziamenti sta lì a dimostrarlo.
Dal dramma sociale ai meandri pentastellati. C’è chi ritiene che il Movimento abbia imboccato la strada a senso unico del declino. Il Pd resta fermo sulla linea dell’alleanza con Conte o pensate di dover fare i conti con questa nuova realtà?
Sono colpito dal dibattito interno a un Movimento che tre anni fa aveva raccolto un terzo dei voti. Diversi elementi lasciavano pensare a una loro evoluzione soprattutto dopo l’approdo al governo. Ho ascoltato le parole di Conte nella conferenza stampa di qualche giorno fa. Non era uno sfogo e nemmeno un parricidio: mi è sembrata una richiesta legittima da parte di chi, bene o male, ha retto le sorti del governo in una stagione drammatica. Poi so che un pezzo di paese dinanzi al possibile tracollo dei 5 Stelle non si strappa le vesti, anzi stappa una bottiglia e brinda. Lo stesso Pd potrebbe ragionare sul corto pensando che, imploso quel Movimento, un pezzo del loro elettorato sia destinato a tornare a casa. Anche in questo caso suggerirei cautela perché conviene a molti, sicuramente a Conte e anche al Pd, evitare che chi esprime una maggioranza relativa in questo Parlamento finisca in una deflagrazione lasciandosi dietro solo macerie. Siamo in un passaggio complesso, con un sistema politico destinato a scomporsi almeno in parte, e poi a ricomporsi in forme nuove. La destra si sta attrezzando allo scopo. Sarebbe buona cosa che lo facessimo anche di qua del campo e in questo il ruolo del Pd è decisivo. Diciamo che noi da soli non bastiamo, ma senza un Partito Democratico rivitalizzato la stessa alternativa alla destra perde di ogni credibilità.
I contenuti sembrano un optional nel dibattito sulle alleanze. Il tatticismo è un “virus” che non ha antidoti?
Ma questo è un tema che investe la qualità della democrazia in una stagione segnata da forze prive di una chiara identità e con processi di selezione della classe dirigente che definire improvvisati è poco. Pensiamo allo sviluppo di questa legislatura, avviata senza una maggioranza espressa dalle urne e con un governo figlio di un contratto notarile. Da lì un secondo governo sorretto da una maggioranza diversa ma guidato dallo stesso premier. Fino all’avvento di Draghi votato da tutti con l’eccezione della destra estrema. Ciascuno di questi passaggi ha trovato motivo in uno stato di emergenza, e però quando l’emergenza si prolunga oltre il ragionevole tende a trasformarsi in ordinarietà con le culture di parte, intendo le identità dei partiti, costrette a inseguire la cronaca anziché dettare l’agenda. Una dose di tatticismo è frutto di questa mancanza di solidità dei soggetti in campo. C’è un vuoto di relazione tra un ceto politico chiuso dentro palazzi e ministeri e una realtà sociale che vive il tutto con una distanza emotiva prima che politica. Anche per questo le agorà proposte dal Pd mi sembrano un passo sul sentiero giusto: restituire voce a chi sino qui è stato spettatore di un copione che non ha più contribuito a scrivere. Non dico che invertire la rotta sia semplice, dico che merita tentare.
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