Per una critica contemporanea a Poletti

per Gian Franco Ferraris
Autore originale del testo: Alessandro Gilioli
Fonte: L'Espresso
Url fonte: http://gilioli.blogautore.espresso.repubblica.it/2015/11/29/per-una-critica-contemporanea-a-poletti/

di Alessandro Gilioli – 29 n0vembre 2015

In molte professioni, già da decenni, i cambiamenti tecnologici hanno “staccato” la quantità di ore lavorate dal prodotto dell’imprenditore, committente o padrone che sia.

Intendo dire: nel secolo scorso, quello industriale, c’era una relazione abbastanza definita fra le ore lavorate di un salariato e il plusvalore che questi, di conseguenza, dava alla sua azienda. Lavoravi tot ore, quindi producevi tot beni e pertanto creavi tot plusvalore. Ovviamente con qualche variabile interna: ma tutto sommato, più o meno, era così.

Nell’era postindustriale – specie nel terziario – la correlazione è andata sempre di più sfocandosi e sfrangiandosi, fino non dico a scomparire, ma quasi. A volte con poche ore di lavoro si offre un plusvalore al padrone molto maggiore che stando incollati alla scrivania dall’alba al tramonto. Le variabili sono diventate moltissime.

Presumibilmente, nei prossimi decenni, sarà sempre più così.

Questo è il dato strutturale, la realtà: che non si può prendere a pugni.

Poi c’è l’uso ideologico e politico della realtà: il distacco delle ore lavorate dal profitto prodotto viene utilizzato (già oggi, nella vita concreta di tante persone) come uno strumento mediante il quale la parte forte (il datore di lavoro) impone alla parte più debole (il prestatore di lavoro) una subordinazione 7/24, sempre più invasiva e pervasiva.

È ad esempio la famosa “disponibilità”, che impone al prestatore di lavoro di essere disponibile sempre, anche di notte, anche nei week end, anche in vacanza. In pratica, azzerando il tempo del vero riposo, quello in cui sai di poter essere interamente per te stesso, per il tuo tempo libero, per i tuoi affetti.

Una prassi che è frutto di una scelta politica – quella imposta dall’egemonia culturale della destra economica degli ultimi trent’anni – i cui costi umani ed esistenziali sono già da tempo ben noti.

Il ministro Poletti, che in questa egemonia evidentemente si trova benissimo, pensa di poter risolvere la complessa questione ufficializzando nel precipitato del lavoro (il salario, il reddito) il distacco tra le ore lavorate e il profitto del padrone: basta pagare tutti a risultato raggiunto et voila che la contrattazione aderisce alla modernità.

È una sciocchezza vecchia: che non so se Poletti sostenga per superficialità o secondi fini.

È una sciocchezza vecchia perché stiamo entrando nell’era in cui algoritmi e intelligenza artificiale riducono drasticamente la richiesta complessiva di prestazione d’opera, non solo manuale ma anche concettuale e intellettuale: la questione delle ore lavorate quindi è solo una parte di questa più ampia tendenza.

Sempre di più, semplicemente, non ci sarà lavoro (né quindi obiettivi da raggiungere) per tutti: anzi il lavoro sarà inevitabilmente per pochi o per poche ore al mese, perché ci sarà sempre meno bisogno di lavoro per fare profitti.

Quindi la perpetuazione stessa del sistema economico fondato sul circuito produzione-consumo è legata alla possibilità di staccare il reddito (grazie al quale si consuma) dal lavoro: altrimenti non si consuma più e tutto crolla come un castello di carte.

Slegare il reddito dal lavoro vuol dire che esso (certo) non è più proporzionale alle ore lavorate (modello industriale) ma neanche all’obiettivo di profitto raggiunto (obiettivo peraltro sempre meno dipendente dal salariato e sempre più da variabili non derivanti dal salariato). È una voce indipendente, fornita in buona misura dalla fiscalità sulla base dei profitti prodotti in modo sempre piùautonomo dalle persone.

Almeno come modello, s’intende: il modello verso cui tendere e a cui ispirare il presente.

In sintesi, se la tecnologia ha staccato il profitto dalle ore lavorate, la soluzione a cui avvicinarsi non è quella semplicistica o pelosa di riparametrare il salario agli obiettivi e ai profitti – che è una vecchia scelta politica dai costi umani altissimi e di breve durata in termini di efficacia – ma di staccare sempre di più il reddito (e/o i servizi, che sono indirettamente parte del reddito) dalla prestazione del lavoro nel suo complesso.

Nella società in cui si lavora poco per forza di cose (tecnologiche), non si lavorerà per il reddito o in cambio di reddito, né a ore (Camusso) né a obiettivi (Poletti): si lavorerà come una tra le varie attività che costituiscono il nostro io.

E paradossalmente, per l’eterogenesi dei fini, grazie al contesto umanistico e non alienante in cui ciò avviene, con tutta probabilità si può così dare un apporto più efficace – per quanto concerne la parte non derivante dalla semplice applicazione di tecnologie – al raggiungimento dei famosi obiettivi.

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1 commento

Massimo Matteoli 2 Dicembre 2015 - 10:42

Aggiungo solo, a dimostrazione della pochezza di questa campagna di vuoto novismo, che i contratti legati ai risultati li avevamo già, si chiamavano cococo e
contratti a progetto. Questo ministro (la minuscola non è un errore) è
lo stesso che ci ha raccontato che con il jobs act sarebbero spariti e
per questo avremmo dovuto far buon viso al riconoscimento del “diritto a
licenziare” ed all’abolizione dell’art. 18.. A quanto
pare non è così e dovremo sommare questo e quello.

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