Credo nell’Europa e nella sua impossibile rinascita

per Gian Franco Ferraris
Autore originale del testo: Franco Cardini
Url fonte: http://www.francocardini.it/minima-cardiniana-118/#more-383

di Franco Cardini – 17 aprile 2016

IO RIMANGO EUROPEISTA

Molti mi chiedono che cosa sta accadendo all’Europa; e qualcuno anche che cos’è successo a me. Più o meno una trentina di anni fa un gruppetto di noi, fortunatamente ancor oggi nonostante tutto solidale, fondò un gruppo ambiziosamente intitolato “Identità Europea” simbolo del quale era il monogramma cristiano, a indicare che il nostro programma era quello di tracciare il disegno politico-culturale di una consapevolezza civica europea partendo dalle due solide basi della tradizione imperiale romana e di quella che dal IV secolo d.C. era la sua fede cristiana. Da anni ho abbandonato la presidenza di tale sodalizio, che prosegue la sua attività: e non ho mai formalmente accettato – pur con tutta la gratitudine per gli amici che me l’hanno affettuosamente, generosamente offerta – la sua presidenza onoraria. Io continuo ad esserne un semplice membro. Ma a distanza di anni sono in molti a chiedermi almeno qualche riga sintetica che esprima il mio pensiero attuale al riguardo: perché molte cose sono intanto accadute, quasi tutte negative, qualcuna terribile. Ecco qua.

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La tradizione greca, fatta propria dal mondo romano e da esso passata sia a quello euro-occidentale medievale sia a quello bizantino, concepiva l’ecumène – vale a dire l’insieme delle terre asciutte, abitato dagli esseri umani – come distinto in tre grandi masse dette “continenti”. Si trattava di un sistema interpretativo che nasceva da un punto di osservazione situabile al centro del Mediterraneo, dove appunto le masse continentali sembravano convergere. Esse apparivano tutte come cinte da un immenso anello d’acque, l’ oceano – invalicabile e innavigabile, salvo lungo un breve tratto a occidente delle terre emerse –, e distinte tra loro grazie al “mare interno” (detto appunto “Mediterraneo”) e ai due grandi fiumi che in esso appunto si riversavano provenendo da nord e da sud, il Tanai (il Don) e il Nilo, che venivano proposti come linee di separazione, rispettivamente, tra Europa e Asia e tra Asia e Africa, mentre Europa e Africa erano appunto divise dal Mediterraneo stesso.

Questo modo di leggere l’assetto geografico del mondo ha prevalso ed è divenuto quello che tutti oggi usiamo: al punto da farcelo ritenere ovvio e naturale. Non è obiettivamente affatto così. Ad esempio le antiche civiltà indiana e cinese, dalle quali il nascente Islam nel VII secolo desunse le sue categorie interpretative dell’assetto del mondo, lo distinguevano secondo un criterio latitudinario per fasce climatiche: com’era più ovvio e funzionale per genti abituate alla navigazione del pacifico e dell’Oceano Indiano, dove le diversità di clima tra nord e sud sono molto importanti e dove le acque sono più pericolose che non nel dolce ancorché capriccioso mare nostrum.

La distinzione schematica dell’ecumène in continenti lasciava ovviamente aperti molti problemi, che vennero provvisoriamente risolti con il ricorso ad alcune rapsodiche notizie desunte da navigazioni o esplorazioni straordinarie, dal risultato d’incontri con genti asiatiche o africane portatrici di più o meno sicure informazioni derivanti dall’interno dei rispettivi continenti oppure da veri e propri miti geografici come quelli sugli strani popoli “mostruosi” che avrebbero abitato l’estremità dei continenti secondo le testimonianze e o le fantasie raccolte da eruditi quali Plinio il Vecchio o Solino. In tale mondo l’antichità grecoromana venne a contatto con quel che si diceva a proposito delle lunghe notti polari, del mare ghiacciato del nord, delle “meraviglie” dell’India.

Se i margini lontani dei continenti erano sconosciuti, era comunque comune convinzione che essi fossero delimitati dall’anello oceanico. Qualche difficoltà nasceva invece relativamente ai confini continentali aggettanti sul Mediterraneo: se ad esempio l’Asia cominciava ad est del Nilo (e quindi “asiatica” si definiva la parte orientale dell’Egitto), la discussione tra i greci – che è dubbio avvertissero l’Ellade come vera e propria parte dell’Europa o come una realtà a sé stante – verteva sull’europeicità o l’asiaticità delle montagne del Caucaso.

L’impero romano si caratterizzò per la sua circummediterraneità e il suo mediterraneocentrismo: tuttavia, dopo la divisione definitiva di esso in due partes che l’imperatore Teodosio dispose per farne rispettivi eredi i suoi due figli (a Oriente il maggiore, Arcadio; a Occidente il minore, Teodosio), la pars Occidentis, a ovest di una linea meridiana ideale che partendo più o meno dall’Odierna Serbia giungeva fino al centro del golfo della Sirte – una pars ben meno ricca, colta e densamente popolata dell’altra, ma non esposta in cambio al pericolo del tradizionale nemico dell’impero romano, quello persiano – si trovò ad essere per gran parte europea: di un’Europa però che giungeva sino al limes renodanubiano, oltre il quale si estendevano le foreste e le brughiere dov’erano insediati i barbari germani e dove stavano arrivando nuove ondate di barbari ben più temibili, le popolazioni uraloaltaiche della steppa asiatica (unni, più tardi àvari e infine magiari o ungari).

In tale contesto c’imbattiamo per la prima volta nel termine Europa usato in un sia pur incerto senso identitario in occasione di quel per la verità modesto scontro militare tra alcuni incursori arabo-berbero-ispanici che nel 732-733 avevano passato i Pirenei puntando su Tours (la città dove sorgeva il santuario di san Martino, protettore del popolo franco, le ricchezze del quale erano il loro obiettivo) e i guerrieri appunto franchi guidati da Carlo detto “Martello”, maestro di palazzo – cioè primo ministro – del sovrano merovingio. In tale occasione i franchi vennero definiti Europenses (“europei”) da un cronista, un monaco cristiano iberico che forse, con tale epiteto, intendeva distinguerli dagli assalitori che, avendo invaso la penisola iberica nel 711 provenienti dall’Africa, egli intendeva appunto come africani. Da notare tuttavia che, in questa non meno che in altre circostanze, gli incursori arabo-berberi che colpirono la Gallia e l’Italia con raids per via di terra e soprattutto di mare tra VIII e primi dell’XI secolo (da allora la spinta propulsiva della “prima ondata della conquista musulmana”, come alcuni amano definirla, si andò esaurendo), insediandosi oltre che nella penisola iberica anche in Sicilia, in alcune aree della costa provenzale, in parte dell’Italia meridionale peninsulare (si ricorda un emirato di Bari fra 840 e 871) e in alcune isole greche, non furono mai qualificati con epiteti che si rifacessero alla loro fede religiosa (“islamici”, “musulmani”, tanto meno “maomettani”), bensì semmai con parole che sottolineavano la loro origine etnogenealogica secondo la Bibbia (quindi discendenti da Abramo e dalle sue mogli: saraceni, “figli di Sara”, o con maggior precisione “agareni”, figli di Agar).

Tuttavia il “mito di Poitiers” (che sarebbe stato legittimato molto tardivamente, nel Settecento, allorché nella Decadenza e caduta dell’impero romano lo scrittore inglese Edward Gibbon affermò – con arbitraria fantasia – che se gli incursori musulmani del 732-733 non fossero stati fermati sarebbero dilagati per tutta l’Europa conquistandola) fu alimentato dalla dinastia carolingia che aveva soppiantato la merovingia allorché il nipote di Carlo Martello, chiamato a sua volta Carlo – e che noi conosciamo come Carlomagno – divenne re dei franchi e quindi per volontà del vescovo di Roma anche imperatore.

Si discute se Carlomagno sia stato il “fondatore dell’Europa” come realtà istituzionale e identitaria o se essa non sia nata invece dalla frammentazione, presentatasi nel corso del IX secolo, di quell’impero carolingio esteso dalla Francia alla Germania sudoccidentale all’Italia e che fece sì che, fin dall’inizio, il continente europeo si presentasse come caratterizzato sì dall’unità religiosa – la cattolica che faceva capo al vescovo di Roma, per quanto esistessero anche isole cristiane diverse come la celtica, l’ambrosiana o l’ortodossa – ma dalla diversità e dalla varietà etnolinguistica. Difatti, specie da quando a partire dal X-XI secolo gli europei cristiano-latini presero a espandersi a nord e ad est della linea danubianorenana, conquistando e convertendo i popoli ivi insediati, l’Europa si presentò come costituita sotto il profilo etnolinguistico di latini, di celti, di germani, di slavi, spingendosi appunto fino ai fiumi della grande pianura russa (dove tuttavia prevalse la colonizzazione culturale ortodosso-bizantina) e caratterizzandosi non come un’unità bensì – secondo al felice espressione coniata dal filosofo Massimo Cacciari – come un “arcipelago”, cioè come una catena montuosa in parte sommersa dal mare che ha sì profonde radici sottomarine nascoste (la tradizione grecoromana e la fede cristiana), ma che si presenta come distinta nelle cime montane affioranti, “isole” etnoculturali in parte memori delle loro radici comuni ma altresì coscienti della loro specifica identità che le accomuna a quelle vicine ma distingue ciascuna di esse rispetto alle altre.

Questa diversità si affermò nei secoli successivi, nonostante i potenti richiami unitari costituiti dall’impero romano-germanico e dal papato romano: e dal canto suo il mondo islamico, con il quale vi furono rapporti sia pacifici sia guerrieri (la crociate certo, ma anche continui rapporti socioeconomici, commerciali, diplomatici, nonché un fecondissimo scambio culturale), occupando Asia sudoccidentale, Africa settentrionale e piccole porzioni della stessa Europa (la Sicilia fino al secolo XI, la Spagna fino al XV, una parte della penisola balcanica e dell’arcipelago egeo fino ai primi del XX), servì in una qualche misura specie grazie all’esperienza dell’impero sultaniale ottomano (secoli XV-XIX) a creare quell’identità imperfetta ma comunemente e diffusamente sentita tra Europa e cristianesimo da una parte, Asia/Africa e Islam dall’altra. La nostra grande tradizione epica (dalla Chanson de Roland dei secoli XI-XII alla Gerusalemme liberata di Torquato Tasso nel pieno Cinquecento), alimentata dalle epopee quali la battaglia di Lepanto del 1571 o la liberazione di Vienna dagli assedi ottomani del 1529 e del 1683, concorse al diffondersi dell’idea che Europa e Cristianità (almeno latino-germanica) coincidessero: tale era l’idea di grandi umanisti come Enea Silvio Picolomini poi papa Pio II nel Quattrocento e del poeta Novalis che in età napoleonica redasse il suo saggio Christenheit oder Europa.

Tuttavia, il processo di secolarizzazione, figlio esso stesso della cultura europea, stava avanzando. Quando con le paci di Westfalia del 1648 si pose fine alla triste stagione delle “guerre di religione” cattoprotestanti che ben più delle limitate guerre contro il mondo musulmano avevano letteralmente devastato l’Europa (specie quella “dei trent’Anni”, 1618-1648), si avvertì che ormai il continente non poteva più identificarsi pienamente e totalmente nell’identità cristiana mai abbandonata sotto il profilo spirituale e culturale, bensì progressivamente emarginata sotto quello politico, giuridico, scientifico-tecnologico ed estetico. D’altronde, va detto che il progressivo attutirsi della tensione militare nei confronti dell’Islam ottomano e lo svanire dell’identificazione civico-esistenziale con la fede cristiana resero sempre più debole anche il senso di comune appartenenza all’Europa come “comunità di destino”. Il resto lo fecero i nazionalismi ottocenteschi, il sorgere della questione sociale e la frustrazione – accompagnata da una forte coscienza di decadimento – impostasi dopo la prima guerra mondiale quando si generalizzò quel sentimento di finis Europae ben presentato nel Der Untergang des Abendlandes (“il Tramonto dell’Occidente”) di Oswald Spengler. Ma gli eventi succeduti alla seconda guerra mondiale hanno fatto svanire anche il senso di identità tra Europa, Occidente e Modernità ch’era invece stato molto forte nell’Ottocento. Oggi, dinanzi a un Occidente-Modernità che con ben altra energia si è mostrato dagli Stati Uniti d’America all’Australia allo stesso Giappone uscito dalle riforme dell’epoca Mieji, gli europei si sentono defraudati anche della loro “primogenitura occidentale”. La mia generazione (quella nata più o meno a cavallo della seconda guerra mondiale) ha sperato a lungo nell’unità europea e a suo tempo si è entusiasmata dinanzi alla grande novità federale voluta e inaugurata da De Gasperi, Adenauer e Schuman. Siamo stati fieri di quello che ci sembrava, fra Anni Cinquanta e Anni Sessanta del secolo scorso, il decollo della nostra comune “patria europea”: e abbiamo atteso fiduciosi che l’Unione Europea, così nata sia pure con iniziali intenti economici, si trasformasse in unione istituzionale a carattere federativo o confederativo. La nascita di comuni esperienze scolastiche avrebbe presieduto – si sperava allora – alla costruzione di una nuova, solida identità europea sostenuta da un robusto senso civico di appartenenza all’ombra del quale sarebbe una cultura identitaria.

Nulla di ciò è avvenuto: la nostra è stata qualcosa di molto più fallimentare di una “falsa partenza”. La speranza nell’Europa ha partorito solo l’Eurolandia: che ha allontanato, non approssimato, il risultato ch’era la somma delle nostre speranze. E c’è di peggio. Vani, equivoci, addirittura pericolosi e svianti appaiono oggi i tardivi e strumentali tentativi di recuperare il tempo perduto proponendo una ridicola “identità” fondata sulla xenofobia e sull’islamofobia, sul disprezzo per i migranti e sulla paura di nuove “invasioni barbariche”. Per l’Europa siamo di nuovo all’Anno Zero, come all’indomani della seconda guerra mondiale. E alle nostre generazioni, che hanno fallito, non resta che sperare in quelle future, a patto che esse siano in grado di identificare con sicurezza i nostri errori e di correggerli con rigore e coerenza: obiettivi che, a tutt’oggi, appaiono drammaticamente remoti. Eppure da parte mia mi sento, dopo oltre mezzo secolo di profonda (e spero coerente) militanza europeista, di poter parafrasare un celebre verso di Ezra Pound pieno di disperata speranza: “Credo nell’Europa – e nella sua impossibile rinascita”.

Franco Cardini

IL MASSACRO E L’ARROGANZA

Sono veramente indignato per quel ch’è accaduto il 10 maggio scorso a Hiroshima. Sono indignato per l’ipocrisia e l’arroganza del vicepresidente statunitense Kerry che in occasione del G7 ha visitato Hiroshima, ha riempito la sua giornata di generiche chiacchiere, ha promesso un mondo migliore che un giorno sarà privo di minaccia nucleare e tutto questo come base per un inopportuno e dissennato attacco alla Corea del Nord che non accetta il ricatto del “Trattato di Non Proliferazione” e dunque di un mondo nel quale la maggioranza delle nazioni sono condannate a vivere in condizioni d’inferiorità militari sotto l’eterna minaccia degli unici detentori legittimi della bomba. Che questa feroce arroganza si manifesti sotto l’ipocrita veste di un omaggio alle povere vittime di Hiroshima (almeno 340.000, non 140.000) com’è stato detto e anche di Nagasaki (almeno altre 74.000) è semplicemente vergognoso. Che il governo degli USA non trovi, settantun anni dopo l’episodio, il coraggio di pronunziare nemmeno una parola di resipiscenza ma parli sono il linguaggio del virtuoso cordoglio è ignobile.

Sarebbe davvero proprio il caso, d’altronde, di osservare che chi di politically correctferisce di politically correct perisce: quanto meno, se anche nella riflessione storica – e nei succedanei mediatici di essa – valesse il principio che le norme universalmente accettate sono uguali per tutti. Ma anche in quest’àmbito, evidentemente, ci sono alcuni che sono orwellianamente “più uguali” degli altri.

Non so se il presidente Obama andrà davvero prima o poi a rendere omaggio alle vittime dell’orribile massacro perpetrato a Hiroshima il 6 agosto del 1945 dalla bomba atomica lanciata dall’aereo militare statunitense che portava il nome, destinato a una macabra fama, di Enola Gay (e lasciamo da parte l’iterazione “minore” di Nagasaki, qualche giorno più tardi). C’è andato intanto, come dicevo, il vicepresidente Kerry, che notoriamente non è un miracolo di finezza né diplomatica né intellettuale ma al quale sembra tuttavia arduo addossare per intero la responsabilità dell’incredibile gaffe commessa. Ed è purtroppo anzi generoso eufemismo definirla tale: perché ha invece l’aspetto della cinica e feroce negazione, dell’ostinata arroganza, addirittura – come vedremo – della cinica ancorché grossolana astuzia politica relativa alla situazione interna agli USA.

In effetti, un ormai noioso e stucchevole conformismo ha imposto l’abitudine diffusa – eticamente discutibile, storicamente assurda e insensata – di “chiedere scusa” per i passati errori ed orrori. Lasciamo da parte il caso-limite della shoah, rispetto al quale nessuna scusa formale è stata mai nemmeno accettata (sono solo le vittime che potrebbero accoglierla, nessuno ha il diritto di farsene procuratore). Ma anche per infiniti altri casi di genocidi e di massacri negli ultimi anni c’è stata una “nobile” – in realtà sovente grottesca – gara al cospargersi il capo di cenere. Pensiamo solo a casi come le crociate e l’inquisizione (rispetto ai quali al chiesa cattolica è stata perfino troppo precipitosa nell’umiliarsi) oppure agli innumerevoli crimini commessi in età colonialista, che invece hanno visto i discendenti dei loro rispettivi responsabili adottare vari tipi di riserbo a volte quasi giustificazionista.

Ma è comunque obiettivamente troppo che il vicepresidente Kerry, dinanzi al mausoleo delle vittime di Hiroshima, si lasci andare alla non richiesta precisazione – sulla quale ovviamente i media, con concorde servilismo, hanno glissato – che gli Stati Uniti d’America non sono lì, da lui rappresentati, per “chiedere scusa”. Nessuna giustificazione da allora fino ad oggi addotta per Hiroshima e Nagasaki è mai apparsa credibile: quella, in particolare, di una “dolorosa” misura adottata per “abbreviare il conflitto” e quindi “risparmiar vite umane”, è semplicemente infame (il Giappone si arrese il 15 agosto, e lo avrebbe fatto comunque entro pochi giorni anche senza il mezzo milione di morti in più: certo, le cavie umane sono troppo appetibili per i Mengele: e di Mengele al mondo ce ne sono tanti). E, nonostante la balla del necessario “intervento umanitario” teso ad abbreviar la guerra sia stata acriticamente accettata e ripetuta fino alla noia (ve lo figurate un Hitler che fosse arrivato per primo a farsi e ad usare l’atomica? Non avrebbe mai dichiarato nulla di diverso), a smentirla basterebbe un dato: il bombardiere che portava l’ordigno fu preceduto da altri due velivoli incaricati di sganciare, immediatamente prima dell’esplosione, dei sensori appesi a paracaduti che avevano la funzione di misurare gli effetti dell’esplosione. In altri termini, si trattò di un ben meditato esperimento scientifico, freddamente eseguito in corpore vili. Con l’annesso ineliminabile sospetto di un sottinteso razzistico: nonostante atroci – e a loro volta poco giustificabili – bombardamenti come quello di Dresda, un’infamia del genere doveva sembrare a chi la perpetrò impensabile se il suo oggetto fosse stato un’altra popolazione “bianca”. Del resto, e non a caso, all’inizio della guerra negli USA i cittadini nippoamericani erano stati chiusi in campi di concentramento: una misura che non era stata nemmeno pensata per quelli germanoamericani o italoaericani. In America, i giapponesi erano le “scimmie gialle”.

Né vale l’argumentum e silentio avanzato da chi ha osserva che da alcun documento risulta che il presidente Truman o i capi del Pentagono abbiano mai pensato a un esperimento. Certe cose non si scrivono: abbiamo forse dimenticato che non esiste nemmeno alcun decreto ufficiale di Hitler che ordini esplicitamente il genocidio degli ebrei? Ma gli studiosi che hanno fatto notare ciò sono stati immediatamente classificati come “negazionisti”. Esiste quindi anche un negazionismo americano?

Parrebbe di sì anche da un altro particolare analogico: quello delle cifre riguardanti le vittime: odiosa computisteria funebre, ma tormentone regolarmente riaffiorato tutte le volte che qualcuno prova a verificare i conti della shoah. Nel caso di Hiroshima è evidentemente ammessa una maggiore disinvoltura. Nessuno ha contestato le cifre proposte a proposito della visita di Kerry, vale a dire 140.000 vittime dell’evento e delle sue immediate o lontane conseguenze. Non si tratta di una cifra ottimista e minimalista. È semplicemente una bugia. Le stime ufficiali del governo giapponese, pur frutto di calcoli complessi e in parte insicuri (ma forse a loro volta ottimistiche) parlano di 80.000 persone morte sul colpo più almeno altrettante decedute in seguito alle lesioni riportate entro al fine dell’ano 1945. Ma gli effetti deleteri delle radiazioni hanno continuato ad uccidere fino ad oggi, provocando affezioni tumorali anche a distanza di anni le conseguenze delle quali sono stati altri 180.000 decessi. In tutto, si parla di circa 340.000 vittime, ben oltre il doppio di quelle ammesse da Kerry e riportate dai media.

E i vincitori hanno con ogni evidenza ben diritto non solo all’immunità, bensì anche a sostanziosi sconti. La logica del diritto applicato a chi vince e a chi perde la conosciamo: ma non si dovrebbe esagerare. Non è piacevole constatare che i criminali di guerra appartengono sempre tutti agli eserciti sconfitti; quando si tratta dei vincitori, ci sono sempre il “fuoco amico”, i “danni collaterali”, i “dolorosi fatali effetti del conflitto”, al massimo gli “errori umani” corretti dalle “buone intenzioni” come quelle di “abbreviare le sofferenze e risparmiare milioni di vite”. Non è questa la strada migliore per facilitare la reciproca comprensione e l’autentica pacificazione tra i popoli.

D’altronde, guai ad addossare la repellente commedia di Kerry alla “solita ingenuità” (?!) dei governi americani. Il vicepresidente recitava scrupolosamente un copione scritto né da lui, né da Obama. Riflettiamo. Se avesse fatto quel che onestamente, pulitamente, andava fatto, che cosa sarebbe successo? Ira funesta (e pelosa) dei repubblicani, che in prossimità delle elezioni del novembre prossimo avrebbero strumentalizzato l’episodio accusando Kerry, quindi Obama, quindi il partito democratico, di aver umiliato la nazione davanti al mondo: e perdita sicura, ingente, di voti per la signora Clinton. Utilizzando l’elementare strumento del Cui prodest si arriva bene a capire da dove sia partita l’idea della miserabile sceneggiata di Hiroshima 2016, una nuova offesa a tutte le innocenti vittime di Hiroshima-Nagasaki 1945 e all’intelligenza di tutti noi.

Franco Cardini

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