Corpo di sballo
Nulla è più lontano dalla ‘sala da ballo’ che la discoteca e il fatto che tale settore possa essere remunerato con pubbliche provvidenze è un’aberrazione tal quale sarebbe stato risarcire i pusher per i mancati introiti del lock-down.
Il ballo corrisponde a un insieme di ricercate movenze sedimentate dalla cultura. Il corpo di ballo è una comunità ritmica, un selezionato cristallo di massa semovente che trova nell’armonia, esattamente come nell’orchestra, la sua consistenza estetica. Un corpo ginnico nel quale l’estasi e il rapimento conseguono alla simmetrica comunanza di cadenze melodiche e movenze corporee. Nel ballo gli individui restano coscienti, vigili e distinti. Il corpo di ballo è un aggregato di coppie intente al corteggiamento rituale che trovano un ritmo comune realizzando sulla pista la comunità danzante. Una interazione sociale collettiva che si replica ai lati della pista come a formare una cintura conviviale.
Nella discoteca tutte queste determinazioni rituali sono superate in un ammasso umano che regredisce allo stato caotico. Il rumore assordante impedisce ogni relazione verbale sicchè gli individui sono ricondotti a puro assembramento corporeo ipercinetico quanto meccanico. Ogni elemento rituale e armonico del ballo è dissolto in una indistinta massa orgasmica e orgiastica, è un egualitarismo situazionale nel quale viene annichilita ogni differenza linguistica, culturale di status, però privo di qualsivoglia significato trascendente. Sciamanismo senza magia, orgia senza misticismo, delirio allucinogeno senza trasmigrazione, aggregazione dionisiaca senza transizione di stato, ipnosi psichedelica senza sogno. La divinità di sè come nulla. Una forma di massa totalmente de-identificata in una secolarità senza scopo. Una forma di gregarismo balordo. Il corpo di sballo. Attorno al quale, subito fuori del locale, l’eguagliamento svanisce nel rombo di sgommanti veicoli da guidare in stato di ebbrezza.
Dopo i cuochi alla page e i poveri ristoratori che hanno lucrato a manetta coi centri storici ridotti a mangimifici seriali per il loro menu insapidi quanto salati, ora è la volta dei discotecari. Fa tanta tenerezza vedere questi imprenditori del rimbecillimento adolescenziale, questi custodi del ‘made in Italy’ nazional-demenziale, vettori oggettivi di alcol e pasticche, piangere miseria come padri di famiglie sul lastrico con proli affamate…. I pirati con le loro ciurme di papponi, spacciatori, deejay, cubiste e buttafuori che improvvisamente si presentano come piagnoni proletari… atteggiamento tipico dei sicofanti….
Più a fondo ciò che viene in risalto è il mutamento di pelle della destra, ormai divenuta alfiere della sregolatezza come tale. Non più la critica della razionalizzazione e della formalizzazione legale (regolamentare, burocratica e calcolistica, la ‘gabbia d’acciaio weberiana) nel nome del disciplinamento gerarchico della società, ma l’elogio smodato dell’indisciplina e della libertà come ribellismo border line e anarchismo a-sociale. Laddove lo sviluppo delle società complesse è avvenuto all’insegna dell’autodisciplinamento dell’individuo libero, capace di interiorizzare proprio perchè tale, le regole dell’obbligazione sociale (la disciplina senza padrone, secondo l’espressione weberiana) la destra propone un’idea dell’individuo ‘schiavo’ di una compulsiva irrazionalità. L’io del me-ne-frego che si fa massa nel corpo di sballo. Non per caso il negazionismo (obliteratore dell’oggettività pandemica e della razionalità della profilassi sociale) si accompagna con una critica becera della burocratizzazione. Scippata del concetto dell’ordine la destra delira come un branco di estremisti infantili. Si perde nell’adorazione di imbecilli e zotici che si atteggiano ad autorità carismatiche. Il Papeete fu un incipit buffo che schiudeva un’intera regressione antropologica come un luogo tipico-ideale. Dateci una discoteca con un dittatore alla consolle (un ubu roi in bermuda) e sballeremo il mondo. E tanto più è bene ricordare in tempi come questi come ormai è un secolo Gramsci prese le mosse col suo giornale torinese. Si chiamava “L’ordine nuovo’.