Costituzione italiana contro Trattati europei

per Gabriella
Autore originale del testo: Alessandro Somma
Fonte: micromega
Url fonte: http://temi.repubblica.it/micromega-online/c%E2%80%99e-spazio-in-europa-per-il-costituzionalismo-antifascista/

COSTITUZIONE ITALIANA CONTRO TRATTATI EUROPEI –  di VLADIMIRO GIACCHE’  – ed. IMPRIMATUR

recensione di Alessandro Somma

Si è cominciato, al principio degli anni ottanta, con il divorzio tra la Banca d’Italia e il Ministero del Tesoro, ovvero con la rimozione dell’obbligo in capo alla prima di acquistare i titoli del debito pubblico che il secondo non riusciva a collocare. Seguì un forte incremento degli interessi, indispensabile a indurre gli investitori a concedere credito allo Stato italiano, all’origine di una drammatica spirale: il notevole aumento del debito pubblico, a sua volta produttivo di un ulteriore incremento degli interessi. Di qui la spinta a cedere all’Europa la sovranità monetaria secondo le modalità descritte nel Trattato di Maastricht, prima fra tutte quelle riguardanti il rapporto tra debito e deficit da un lato, e prodotto interno lordo dall’altro. Si pensò infatti che gli aspetti negativi della cessione avrebbero bilanciato quelli positivi, primo fra tutti l’abbassamento dei tassi di interesse e quindi, in prospettiva, del complessivo debito pubblico italiano.

Il tutto funzionò, ma solo per poco: con lo scoppio dell’attuale crisi economica[1], i tassi di interesse tornarono a salire, sino a raggiungere livelli che ebbero notevoli conseguenze per la vita politica italiana. Con il mitico spread oltre quota 500, l’Unione europea fece pressione affinché Mario Monti formasse un esecutivo detto tecnico, incaricato di realizzare condizioni squisitamente politiche per un ritorno alla normalità: l’ulteriore diminuzione della spesa sociale e nuove riforme del mercato del lavoro nel solco di quanto voluto dai cultori dell’austerità neoliberale. Il tutto ripreso poi da Enrico Letta e, se possibile con maggiore aderenza al pensiero unico, da Matteo Renzi.

Questa storia è nota ed è stata raccontata da molti punti di vista. Quello scelto da Vladimiro Giacché *, il punto di vista delle ricadute sull’ordine costituzionale italiano, è forse quello più trascurato, o comunque quello per il quale mancano ricostruzioni di lungo respiro: non limitate a singoli episodi, ma destinate a mettere in fila gli accadimenti per poi restituirci la dimensione dello scontro in atto.

Tra questi episodi rientra senza dubbio il varo, sul finire del 2000, della cosiddetta Carta di Nizza, ovvero la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, diffusamente celebrata come il documento che consentirebbe di ridimensionare l’ispirazione mercatocentrica dei Trattati, di aprire spazi per una sorta di capitalismo dal volto umano. Lo stesso capitalismo cui, secondo la vulgata, prelude il concetto di economia sociale di mercato, cui fa riferimento il Trattato di Lisbona nel menzionare i fondamenti dell’Unione europea, che rinvia in verità al modo neoliberale di redistribuire la ricchezza: quello per cui il mercato fondato sulla libera determinazione dei prezzi, e dunque sul principio di concorrenza, viene considerato lo strumento più “sociale” di cui si dispone[2].

Giacché dimostra in modo chiaro e inequivocabile che il modo europeo di concepire i diritti fondamentali è perfettamente in linea con questo schema, se non altro in quanto è lo stesso Trattato sull’Unione europea, che pure colloca la Carta al vertice delle fonti del diritto europeo, a precisare che essa non determina alcun ampliamento delle competenze dell’Unione. E ciò determina un netto contrasto con il sistema dei diritti fondamentali cui rinvia la Costituzione italiana, e con essa le Costituzioni nate come reazione a una dittatura fascista: quelle greca, portoghese e spagnola. Il che è esattamente quanto stigmatizzato in un documento di J.P. «, il colosso finanziario statunitense tra i principali responsabili della crisi dei mutui subprime, in cui si sottolinea come quelle Costituzioni siano da rifiutare nell’ispirazione di fondo in quanto, riflettendo “la forza politica guadagnata dai partiti di sinistra al crollo del fascismo”, tengono in elevata considerazione la tutela dei diritti dei lavoratori e rispettano “il diritto di protestare nel caso in cui si imprimano cambiamenti non condivisi dello status quo”[3].

In effetti le Costituzioni appena ricordate sviluppano quanto può essere definito in termini di costituzionalismo antifascista, tale perché ricavato dalla convinzione per cui il ritorno della democrazia doveva incidere su entrambe le vicende riassuntive dell’esperienza fascista: la compressione delle libertà politiche e la riforma delle libertà economiche. Era perciò necessario ripristinare i diritti politici, attraverso cui assicurare all’individuo la partecipazione diretta o indiretta al governo della cosa pubblica, e i diritti civili: alla vita, alla libertà e alla sicurezza personale. Questo non era però sufficiente: se le dittature fasciste avevano disciplinato il mercato per prevenirne i fallimenti e imporre la pacificazione sociale, le democrazie nate dalla sconfitta del fascismo dovevano farlo per promuovere l’emancipazione della persona. Altrimenti detto occorreva combattere il dispotismo economico oltre a quello politico, anche e soprattutto contro il principio di concorrenza.

E’ questo il senso di alcune fondamentali disposizioni della Costituzione italiana, prima fra tutte quella che codifica il principio di parità in senso sostanziale: il principio per cui occorre “rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana” (art. 3). E ciò si realizza innanzi tutto riconoscendo i diritti sociali e dunque ancorando l’intervento dello Stato sociale, che le dittature condizionano alla rinuncia alla lotta politica, alla menzionata finalità di emancipare la persona. Si realizza poi incidendo sulle relazioni tra privati, così come specificato in altri precetti costituzionali: quelli per cui l’iniziativa economica deve svolgersi con modalità idonee a indirizzarla “a fini sociali” (art. 41), e il diritto di proprietà esercitarsi in forme compatibili con la sua “funzione sociale” (art. 42) e con il proposito di “stabilire equi rapporti sociali” (art. 44).

La Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, invece, evita accuratamente di codificare il principio di parità in senso sostanziale: l’uguaglianza è la mera parità davanti alla legge (art. 20), presidiata da un ampio divieto di discriminazione che semplicemente la specifica (art. 21). Nessun rilievo hanno pertanto i diritti sociali, anche perché l’eventuale riferimento ai servizi sociali riguarda i casi in cui essi già esistano, e “non implica in alcun modo che essi debbano essere creati laddove non esistono”[4]. Quanto poi alle relazioni tra privati, esse sono disciplinate a partire dall’esaltazione delle libertà economiche, in particolare quelle indispensabili al presidio del meccanismo concorrenziale: la libertà d’impresa (art. 16) e il diritto di proprietà anche intellettuale (art. 17).

A chi ancora pensi di poter ritagliare spazi per una cultura europea dei diritti sociali, si può infine ricordare la disposizione della Carta in cui si prescrive che essa impone il “rispetto” dei diritti, ma la sola “osservanza” dei principi in essa contenuti (art. 51). Ebbene, dai lavori preparatori si ricava che i principi sono quelli relativi ai diritti sociali, diversi dagli altri diritti nella misura in cui per la loro implementazione può essere necessario un atto legislativo o esecutivo[5]. E questo, oltre a contrastare con la massima della indivisibilità dei diritti fondamentali, porta a subordinare l’attuazione dei diritti fondamentali a vicende concernenti la loro compatibilità economica e di bilancio.

Il conflitto tra Costituzione italiana e Trattati europei, come riassume Giacché, è dunque inevitabile. Tanto inevitabile quanto aspro e produttivo di frizioni destinate ad affossare il costituzionalismo antifascista, come si ricava in modo esemplare e drammatico con l’introduzione nella Costituzione italiana dell’obbligo di bilancio in equilibrio (art. 81). E’ sicuramente vero che l’equilibrio e il pareggio di bilancio sono cose diverse, come amano ripetere gli economisti al servizio del principe per occultare la sua portata eversiva. Per questo sono preziose le indicazioni di Giacché, che da economista illustra in modo semplice il significato di questa insidiosa riforma costituzionale, tutta volta a far prevalere le ragioni del rigorismo antinflazionista su quelle della tutela del lavoro. Tutta volta a rovesciare il compromesso keynesiano e a definire i termini di una drammatica redistribuzione della ricchezza dal basso verso l’alto.

Resta sullo sfondo di questo agile ma intenso volume la sconforto oramai impadronitosi di coloro i quali, come Giacché e chi scrive, hanno a lungo ritenuto che l’Unione europea potesse essere un «fattore di modernizzazione e di crescita» e la moneta unica uno strumento utilizzabile per questi fini. Certo, le attuali politiche impediscono di coltivare simili aspirazioni, e tuttavia per molto tempo, e magari per troppo tempo, si è pensato che le cose potessero in qualche modo cambiare: non certo per volontà della sinistra storica, sempre più cocciuta paladina del verbo neoliberale, ma magari per la spinta dal basso esercitata da movimenti e sindacati. Appare ora sempre più chiaro che spinte in questo senso sono assenti o ininfluenti, anche a causa delle trasformazioni in senso neoliberale di tutti gli ambiti dello stare insieme come società.

Se così stanno le cose, è più che mai urgente chiedere, con Giacché, di cambiare quanto prima “la direzione di marcia anziché il passo”. È però sempre più arduo pensare che ciò possa avvenire, e dunque sempre più urgente riflettere su alternative differenti da un non meglio definito ritorno al passato.

NOTE

* Vladimiro Giacché, Costituzione italiana contro Trattati europei. Il conflitto inevitabile, Imprimatur, Reggio Emilia 2015, pp. 96.

[1] Su cui V. Gicché, Titanic Europa. La crisi che non ci hanno raccontato, Aliberti, Roma 2012.

[2] Per questo aspetto rinvio a A. Somma, La dittatura della spread. Germania, Europa e crisi del debito, DeriveApprodi, Roma 2014.

[3] J.P. Morgan, The Euro area adjustment: about halfway there (http://culturaliberta.files.wordpress.com/2013/06/jpm-the-euro-area-adjustment-about-halfway-there.pdf), p. 12.

[4] Nota del Presidium dell’11 ottobre 2000 (Charte/4473/00), p. 31 s.

[5] The European convention – WG II – Working doc. 23, p. 4 s.

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