Fonte: Internazionale.it
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Dovendo scegliere se lasciare l’azienda fondata da papà Aurelio cinquant’anni fa nelle mani di avventurieri americani e cinesi o provare a riprendersela insieme ai dipendenti, Lorenzo Onofri non ha avuto dubbi. Ha scelto la strada apparentemente più impervia, quella di affidare la fabbrica agli operai, aiutandoli a recuperarla, e da appena un mese è il presidente della neonata cooperativa Stile, un acronimo che recupera il nome dell’azienda fondata nel 1965 da suo padre: Società Tiberina legnami.
È una storia lunga più di un secolo, quella della sua famiglia e dei loro soci, i Colcelli, cominciata alla fine dell’ottocento con la produzione di legna da ardere e culminata nell’apertura di una fabbrica specializzata nella produzione di pavimenti in legno. I parquet di Città di Castello nel tempo sono diventati un’eccellenza del cosiddetto made in Italy e gli affari fino alla prima decade del nuovo millennio sono andati a gonfie vele. Nel 2014, però, dopo la morte di Aurelio Onofri e soprattutto a causa del crollo del mercato dell’edilizia, la Tiberina legnami si è trovata in difficoltà, al punto da essere costretta ad avviare una procedura di concordato preventivo per evitare il fallimento giudiziario.
Per provare a risollevarla con capitali freschi, Lorenzo Onofri si è messo alla ricerca di investitori internazionali, riuscendo a mettere in piedi una “compagine straniera”, composta di statunitensi e cinesi, che si è presentata con un piano di rilancio che prevedeva una forte espansione sui mercati europei e mondiali. Con loro aveva costituito una nuova società, la Anbo-Stile, che aveva affittato l’azienda dal liquidatore giudiziale, evitando la chiusura dello stabilimento.
Cinesi, americani e umbri
Ma ben presto i nuovi padroni hanno rivelato il loro vero volto: “Volevano solo svuotare il nostro magazzino, lasciandoci il cadavere dello stabilimento”, ristrutturato con sistemi all’avanguardia dalla vecchia azienda quando ancora le cose andavano bene, poco prima del crac di Lehman Brothers che aveva fatto esplodere la crisi economica.
“Purtroppo, non tutti i dipendenti mi hanno creduto, perché pensavano che fosse una manovra architettata da me per riprendermi l’azienda”, spiega oggi Onofri. Ne è nato un “lungo dibattito” all’interno della fabbrica tra gli scettici e chi invece aveva capito che la ex Tiberina legnami sarebbe stata solo spolpata e abbandonata.
I fatti hanno dato ragione ai secondi. All’inizio del 2016 la situazione è precipitata. L’amministratore delegato si è improvvisamente dimesso, gli stipendi hanno cominciato a tardare e così gli altri pagamenti. I sindacati hanno chiesto a più riprese incontri alla proprietà per conoscere il piano industriale, ma inutilmente. A giugno i lavoratori sono entrati in sciopero e la vecchia società Tiberina legnami fondata da Aurelio Onofri ne ha approfittato per chiedere al tribunale di Perugia la revoca dell’affitto all’Anbo-Stile per “gravi inadempienze nel pagamento dei canoni di affitto e delle merci prelevate”.
I magistrati gli hanno dato ragione e il 20 giugno hanno deciso di riconsegnare le chiavi dello stabilimento ai vecchi proprietari, che però non avevano i mezzi economici per proseguire.
A questo punto i lavoratori si sono trovati di fronte a un bivio: in piena estate si è consumato lo scontro tra chi era disposto a rischiare il tutto per tutto, “a qualunque costo”, provando a recuperare la fabbrica rischiando in prima persona, e chi invece, “per formazione o per interessi diversi”, avrebbe auspicato la ricerca di un altro padrone. Alla fine, in venti hanno abbandonato e altrettanti hanno deciso di proseguire. Per non rimanere chiusi troppo a lungo e pregiudicare il riavvio, gli ex operai della Tiberina legnami si sono mossi contemporaneamente su più fronti.
Hanno costituito in tutta fretta una cooperativa, la Stile, che ha chiesto al liquidatore giudiziale di poter affittare l’azienda. Nello stesso tempo, si sono messi alla ricerca dei soldi. Hanno bussato alle porte degli istituti di credito, ottenendo un prestito da Banca Etica, che ha anticipato le liquidazioni.
Sono andati al ministero per lo sviluppo economico, che ha garantito un finanziamento del fondo Cfi (Cooperazione finanza impresa), istituito dalla legge Marcora del 1984 per sostenere il recupero delle fabbriche da parte dei lavoratori, già sospeso dopo una sentenza europea che lo considerava “aiuto di stato” e poi ripristinato grazie ad alcune modifiche (sostanzialmente la concessione a fondo perduto è stata trasformata nell’anticipazione delle indennità di disoccupazione).
Dalla Cuin factory a Fenix Pharma
Infine, si sono rivolti alla Legacoop, che li ha sostenuti attraverso Coopfond, un fondo destinato ai lavoratori che costituiscono una cooperativa per rilevare un’impresa e alimentato con il 3 per cento degli utili di tutti gli iscritti.
Nel giro di un mese, la Tiberina legnami, dopo l’infelice parentesi sinoamericana, si è rimessa in moto, andando ad aggiungersi alle 252 fabbriche recuperate censite in tutta Italia dall’Euricse, l’Istituto europeo di ricerca sull’impresa cooperativa e sociale. Con una particolarità: la Stile è il primo caso in cui è stato recuperato pure il padrone.
Non si tratta di una prima assoluta: già in Spagna il proprietario della Cuin factory, una fabbrica di mobili di Vilanova i la Geltrú, vicino Barcellona, per evitare la chiusura aveva accettato l’offerta dei suoi ex dipendenti di lavorare con loro, accettando una retribuzione di 900 euro al mese.
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Sono ripartiti da dove avevano lasciato, sfornando un farmaco contro l’osteoporosi
In Italia, invece, c’è un altro caso atipico, dove il workers buyout non l’hanno realizzato degli operai in tuta blu bensì ex manager di una multinazionale. Si tratta della FenixPharma, una compagnia farmaceutica nata a Roma dalle ceneri della Warner Chilcott. A fondarla sono stati cinque ex manager licenziati da quest’ultima.
Salvatore Manfredi, che ho incontrato nella sede della prima cooperativa farmaceutica d’Italia, nel quartiere Laurentino di Roma, era il responsabile delle vendite quando facevano capo alla Procter&Gamble. Il giorno in cui l’azienda è stata ceduta alla Warner Chilcott ha capito che era l’inizio della fine e ha lasciato, andando a lavorare per un’altra compagnia.
“Era tutto pianificato dall’inizio: appena rientrati dall’investimento e dopo essersi divisi una discreta torta di stock option, i manager della big company d’oltreoceano hanno chiuso e venduto la licenza del farmaco, senza curarsi di lasciare per strada 550 persone in tutta Europa, 151 delle quali solo in Italia”, racconta.
Quando gli americani hanno deciso di dismettere le attività in Europa, dopo appena tre mesi, perché il brevetto del farmaco contro l’osteoporosi che assicurava loro guadagni molto forti stava scadendo, Manfredi è tornato sui suoi passi, decidendo con un pugno di colleghi di sfidare i colossi di big pharma.
In cinque, riunendosi puntualmente in un bar della Montagnola, nella periferia sud della capitale, hanno messo in piedi un piano industriale e l’hanno sottoposto agli ex dipendenti, convincendoli a riprovarci tutti insieme. Poi hanno cominciato a cercare fondi, a contattare le banche per avere prestiti e mutui, a negoziare licenze e brevetti.
Dice Manfredi: “Abbiamo scelto la forma cooperativa perché ci piaceva uscire dalle logiche che avevamo conosciuto fino ad allora e nelle quali eravamo rimasti immersi per anni, dove il lavoro è solo un fattore della produzione che si può cancellare quando i profitti attesi non sono quelli sperati, senza tenere in considerazione i drammi personali e delle famiglie”. Sono ripartiti da dove avevano lasciato, sfornando un farmaco contro l’osteoporosi.
Un modello che funziona
La prima tranche della licenza per la commercializzazione del medicinale, di 240mila euro, l’hanno pagata investendo le loro liquidazioni: 25mila euro a testa i cinque della Montagnola, diecimila gli altri settanta lavoratori. Poi sono arrivati i soldi di Coopfond, che è entrato nel capitale sociale di Fenix Pharma con 300mila euro, e quelli di Cfi, che ha dato 200mila euro più altri centomila di obbligazioni convertibili.
Grazie alle garanzie fornite da Legacoop e altre individuali hanno avuto inoltre un mutuo da Banca Intesa e un altro da Cooperfidi, l’organismo nazionale di garanzia della cooperazione al quale partecipa l’Alleanza delle cooperative italiane. Inoltre, ogni socio ha fatto un prestito sociale da dieci o quindicimila euro, vincolando i soldi per due anni in cambio di un piccolo dividendo.
Nonostante le difficoltà nel rilevare e far ripartire uno stabilimento chiuso, quello dei workers buyout, come sono definiti i salvataggi operati dai lavoratori che acquistano il loro luogo di lavoro, è un fenomeno in costante crescita, soprattutto nelle regioni del centronord: tra Emilia-Romagna, Toscana e Veneto, regioni dove il movimento cooperativo è tradizionalmente forte, si trova il 76 per cento delle imprese recuperate.
Dai dati dell’Euricse emerge un modello che funziona: il tasso di sopravvivenza medio di un’azienda senza padroni è di 13 anni, contro i 13,5 di un’impresa tradizionale e i 17 di una cooperativa che parte ex novo. Di quelle che hanno riaperto negli ultimi anni, l’86 per cento ha avuto successo, nella metà dei casi innovando la produzione e aumentando il fatturato rispetto alla vecchia società. Per questo i ricercatori europei la considerano una “misura anticiclica”, vale a dire capace di invertire il ciclo economico, creando posti di lavoro laddove si vanno perdendo e facendo aumentare il prodotto interno lordo quando è in discesa.
Nello stabilimento di Città di Castello appena riaperto, Lorenzo Onofri lo sta sperimentando sulla sua pelle: se non ci fossero stati i suoi ex dipendenti, l’eredità di famiglia con ogni probabilità sarebbe andata dispersa. Sostiene che “il passaggio culturale da padrone a socio-lavoratore” non è stato per lui “un grande trauma”, a dispetto di quello che si potrebbe immaginare, perché “la Tiberina legnami è sempre stata una fabbrica atipica, nella quale non esistevano gerarchie precise e c’era un rapporto molto amichevole tra la proprietà e i dipendenti”.
Piuttosto, si lamenta dei “muri di gomma” contro i quali si sono scontrati per poter riprendere a lavorare: la freddezza e a volte l’ostilità dei sindacati “che hanno scoraggiato i lavoratori” e “ci hanno tagliato le gambe in ogni modo”, le porte chiuse delle banche, le risposte poco chiare delle istituzioni, una burocrazia “troppo complessa”, fatta di funzionari che “non conoscono le procedure” e di “competenze che si sovrappongono”.
Dalla nuovissima sede al Laurentino, Salvatore Manfredi è fiero di ciò che ha fatto: avrebbe potuto agevolmente lavorare per una grande compagnia, ma ha preferito mettersi insieme ai suoi ex colleghi, “pur sapendo che mettevo a rischio la famiglia e che avevo un mutuo da pagare”. Dice di aver seguito l’istinto: voleva costruire un’azienda su altre basi, dando “centralità al lavoro e alle persone, quello che mancava quando eravamo dipendenti degli americani”.
Al modello delle big companies, dove tutto viene deciso in luoghi inaccessibili dall’altra parte del mondo, contrappongono la gestione collettiva. La sfida si può considerare vinta: la Fenix Pharma commercializza diversi tipi di farmaci e ha una linea di integratori alimentari, fattura sei milioni di euro all’anno e chiude i bilanci in attivo. Il loro slogan è: “Multinazionali? Se le conosci, le eviti”.