Il congresso 2.0

per Gian Franco Ferraris
Autore originale del testo: Alfredo Morganti

di Alfredo Morganti – 10 febbraio 2017

Una volta il congresso prevedeva una fase preparatoria, una tribuna congressuale sulla stampa, una miriade di assemblee precongressuali, discussioni infinite, documenti preparatori, temi che venivano voltati e rivoltati. I dirigenti (nazionali e locali) cominciavano una specie di pellegrinaggio sino alle sezioni e alle cellule più lontane, talvolta incartocciate in qualche borgatella agli estremi bordi di Roma oppure in paesi abbarbicati sui versanti appenninici. Era un grande e appassionato mormorio che prendeva corpo pian piano sino a divenire evento con la relazione del segretario nella assise nazionale, composta secondo la classica tripartizione: prima la situazione internazionale, poi quella nazionale, infine il partito. Ma prima di questo esito c’erano stati molti congressi regionali e cittadini, dove erano sorti nuovi gruppi dirigenti spesso cooptati, ma anche sorti dalle situazioni sociali e politiche più interessanti e foriere. Un grande rito, uno spettacolo di democrazia e di discussione pubblica, un evento anche formativo, educativo per molti giovani e anziani che sollevavano il capo e vedevano attorno a sé altra gente disposta a discutere e a capire. Il congresso era tutto questo.

C’era lo scoglio dei documenti lunghi, lunghissimi, che andavano letti con attenzione, e sottolineati, e dai quali si traevano spunti per gli interventi. A Torrenova, la borgata della via Casilina dove ero segretario del circolo della FGCI, tanti volti comuni intervenivano, si sforzavano di parlare, di esprimere idee, opinioni, un’etica, ed erano tutt’altro che acquiescenti. C’era tanta gente comune, compagni con la terza media presa con le 150 ore, anziani che radiografavano l’Unità ogni giorno alla ricerca di notizie, spunti, motivi di partecipazione e persino di critica, giovani che si sentivano più a sinistra dei loro padri (oggi è il contrario). Ognuno col suo foglietto, dove aveva trascritto una traccia dell’intervento, pochi appunti, con le parole che il più delle volte facevano fatica a uscire, ma poi esprimevano convinzioni, dubbi, interrogativi, nonché la voglia di stare dentro il dibattito politico, di partecipare a una comunità con le proprie opinioni e la propria affettività. Non mancavano le delusioni, l’idea che la Federazione ci mettesse troppo lo zampino nella elezione dei dirigenti, che le sacche di dissenso fossero poco considerate, che stare in minoranza fosse molto complicato. Però quello era un partito, non c’era bisogno di prediche per convincere tutti ad attaccare i manifesti, a fare campagna elettorale, a parlare coi cittadini, a chiedere i soldi casa per casa nelle campagne di autofinanziamento. L’Unità non era solo un giornale, il partito non era un comitato elettorale, i nostri dirigenti non erano giovanotti ambiziosi, dediti al culto della propria narcisistica personalità.

Pensavo a questo dopo aver letto il tweet di tale Alessia Morani, riportato dal Corriere: “Ehi @matteorenzi ma perché non facciamo davvero il congresso? E vediamo con chi sta la nostra gente”. Ehi Capo, famola ‘sta conta, la gggente è con noi, vincemo e li famo sta’ zitti. Questa frase da sola, nella sua mirabile capacità sintetica, vale come tribuna precongressuale, come tesi congressuale, come documento finale e come mozione d’ordine per chiudere il dibattito stranoioso e andare a votare (‘Votareee, oh, oh…”, sigla congressuale à la Modugno). Presidente: “Amici e compagni, passiamo al voto. Non se ne può più delle discussioni comuniste e delle autocritiche che ci fanno solo perdere tempo. Chi vuole Matteo Renzi Capo dei Capi? Votate. Chi vuole uno come Speranza al suo posto? Ma vi pare!? Comunque votate. Vince Renzi per acclamazione, nemmeno ho voglia di contare: è lui il nuovo segretario e candidato del PD alle elezioni politiche. Il Congresso è chiuso. Ringrazio i tesserati dell’ultim’ora, i passanti, gli sconosciuti, i tweet dei nostri ministri e dirigenti, i capibastone, i retroscena, ringrazio il caro amico Gentiloni perché dovrà dimettersi, e tutti coloro che si sono battuti per andare a votare subito, domani, oggi, ieri. Siamo un grande partito perché ce lo dice il sondaggio commissionato ad hoc. Tale dobbiamo restare, alla faccia di chi ci vuole male e ogni giorno fa scendere una lacrima sul viso del nostro Caro Leader”. Tutto qui, né più né meno. Un sogno, o sicuramente un’illusione, vista l’aria che tira anche dentro la maggioranza del PD. Ma chi ci pensa? Famola allora ‘sta conta, daje. Semo ‘na cifra.

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