Con la riforma Renzi, la scuola va al mercato

per Gian Franco Ferraris
Autore originale del testo: Piero Bevilacqua
Fonte: Il Manifesto
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Affari privati. Il preside manager dissolve, per ora simbolicamente, la natura pubblica, egualitaria della formazione. E nasconde la mancanza di fondi con la distribuzione di qualche mancia di Piero Bevilacqua, 17 marzo 2015

 Non sono state certo poche le cri­ti­che mosse al ddl sulla scuola appro­vato dal Con­si­glio dei mini­stri il 12 marzo scorso, anche da parte di com­men­ta­tori pronti ad acco­gliere con favore le “riforme” del governo. Merita tut­ta­via qual­che ulte­riore con­si­de­ra­zione l’innovazione più sin­go­lare del pro­getto gover­na­tivo: la chia­mata diretta dei docenti da parte del preside-manager, cui si attri­bui­sce anche la gestione di premi e incen­tivi ( vere e pro­prie bri­ciole per pochis­simi) da elar­gire ai pro­fes­sori più meritevoli.

È fin troppo evi­dente che tanta discre­zio­na­lità nelle mani di un capo, sia pure accom­pa­gnato da una “squa­dra” di docenti, darebbe luogo ad arbi­tri, pra­ti­che clien­te­lari, cor­ru­zione. Men­tre si tra­sfor­me­reb­bero gli isti­tuti sco­la­stici in luo­ghi di ten­sione e con­flitti, con la lace­ra­zione del corpo docente, non senza risvolti e code giu­di­zia­rie, come ha paven­tato qual­che com­men­ta­tore. ( Il pre­side dell’Istituto Tec­nico Avo­ga­dro di Torino Cor­riere della Sera, 14 marzo).

Di sicuro, in pochi anni la scuola per­de­rebbe quel po’ di con­cor­dia interna che ha fatto ope­rare per decenni inse­gnanti e stu­denti come un col­let­tivo di lavoro. Un clima di coo­pe­ra­zione reso pos­si­bile dalla imper­so­na­lità delle norme, fon­date sul merito, che ha sele­zio­nato i docenti della scuola ita­liana sino a oggi: pub­blici con­corsi, abi­li­ta­zioni, corsi di aggior­na­mento, ecc . È evi­dente che l’idea del pre­side che chiama all’insegnamento e distri­bui­sce qual­che man­cia serve anche a coprire la maga­gna che tutti conoscono:la con­di­zione di asso­luta indi­genza in cui sono lasciati da decenni gli inse­gnanti della scuola ita­liana. Gio­ca­tore delle tre carte, Renzi si fa pub­bli­cità come rifor­ma­tore e inno­va­tore, ma nasconde quel che è dram­ma­ti­ca­mente neces­sa­rio alla scuola ita­liana per farla risor­gere: inve­stire risorse e soprat­tutto por­tare a un livello di dignità euro­pea gli sti­pendi dei professori.

L’idea del preside-capo si pre­sta tut­ta­via a con­si­de­ra­zioni più gene­rali. Non deve sfug­gire che anche nel campo della scuola si mani­fe­sta l’ossessione di Renzi per il comando. Lo si vede nei suoi rap­porti col Par­la­mento e con i com­pa­gni del suo par­tito, lo si è visto con il Jobs act, che dà all’imprenditore la libertà di licen­ziare, ora nella riforma elet­to­rale in discus­sione, che dovrebbe for­nire il nome del vin­ci­tore alla chiu­sura delle elezioni.

Non è solo un dato carat­te­riale del pre­si­dente del Con­si­glio. L’evidente incre­mento di tratti auto­ri­tari nelle società di più o meno antica demo­cra­zia è il risvolto ine­vi­ta­bile di un assog­get­ta­mento cre­scente del ceto poli­tico alle pres­sioni dei poteri economico-finanziari. Se i corpi inter­medi, le isti­tu­zioni, le case­matte che hanno rego­lato i rap­porti tra i cit­ta­dini e tra que­sti e il potere, in una società com­plessa, sono rap­pre­sen­tati come osta­coli al libero mer­cato, alla fine que­sta società si può tenere insieme solo tra­mite cen­tri di comando asso­luti. Ma la scuola è un ter­reno deli­cato e par­ti­co­lare. L’enfasi che il ddl mette sulla figura del pre­side e sull’autonomia sco­la­stica dovrebbe susci­tare serie pre­oc­cu­pa­zioni per altre ragioni. Si va infatti verso la dis­so­lu­zione di quella strut­tura pub­blica che rego­lava la vita sco­la­stica, con mec­ca­ni­smi imper­so­nali di accesso all’insegnamento e si simula, per affer­marla poi di fatto, una pri­va­tiz­za­zione degli isti­tuti. Non è più lo stato, in rap­pre­sen­tanza di tutti noi, che comanda, ma il pre­side, a sua discrezione.

Il rap­porto tra inse­gnanti e pre­side non è più una rela­zione tra col­le­ghi, ma un affare pri­vato tra un capo-azienda e i suoi sot­to­po­sti. Tale dis­sol­vi­mento per il momento sim­bo­lico della scuola pub­blica nasconde un altro ele­mento che scar­dina assetti sto­rici con­so­li­dati: la sem­pre più spinta auto­no­miz­za­zione dei cur­ri­cula sco­la­stici. Ogni scuola per­se­guirà il pro­prio modello e il pro­prio pro­gramma di studi. Ma la scuola ita­liana ha avuto, tra gli altri meriti, quello di for­nire agli ita­liani, emer­genti da una seco­lare sto­ria di loca­li­smi, di dif­fe­ren­zia­zioni regio­nali, di diver­sità lin­gui­sti­che, un comune fondo cul­tu­rale, il minimo indi­spen­sa­bile di iden­tità nazio­nale. Vogliamo che la scuola abban­doni tale com­pito? Bene, il pre­si­dente del Con­si­glio e le buro­cra­zie mini­ste­riali devono dirci dove vogliono andare, a che scopo si fanno que­ste “riforme”, qual è il modello di società che essi inten­dono perseguire.

Io credo di sapere in realtà dove vogliono andare, non per capa­cità divi­na­to­rie, ma per­ché da anni i governi inter­ven­gono sulla scuola e si pos­sono ben scor­gere quali sono le loro inten­zio­na­lità rifor­ma­trici. Quel che osses­siona infatti i rifor­ma­tori è l’efficienza della mac­china isti­tu­zio­nale, senza nes­suna pre­oc­cu­pa­zione della qua­lità dei saperi, del livello della for­ma­zione che viene for­nita ai ragazzi. E que­sto per una ragione ben pre­cisa. Tutta la visione pro­get­tuale del legi­sla­tore si esau­ri­sce in un ben misero intento: ade­guare la scuola alle esi­genze mute­voli del mer­cato del lavoro. E allora occorre porre il que­sito: dob­biamo inno­vare la scuola in tale dire­zione, immet­tere sem­pre più diret­ta­mente anche le isti­tu­zioni del sapere e della for­ma­zione nel tri­ta­carne del mer­cato? Que­sta domanda è utile per­ché mette di fronte a due strade che non sem­pre sono distin­gui­bili nel dibat­tito cor­rente, ma che occorre avere ben chiare se si vuole ela­bo­rare un pro­getto di scuola all’altezza delle sfide che ci si parano innanzi.

Vogliamo una scuola che aiuti la for­ma­zione di una società nuova, più giu­sta e avan­zata, che rie­la­bori per il nostro tempo un nuovo assetto di civiltà, o cer­chiamo di farla fun­zio­nare al meglio per rispon­dere ai biso­gni pre­senti e imme­diati della società così com’è, con le sue gerar­chie e squi­li­bri? Nel primo caso è evi­dente che non basta più, alla scuola ita­liana, l’affermazione tra i ragazzi di una coscienza nazio­nale. Oggi occor­re­rebbe for­nire una più larga visione euro­pea e mon­diale. Uno dei com­piti del rifor­ma­tore dovrebbe essere quello di intro­durre ele­menti di cono­scenza cosmo­po­lita nella for­ma­zione dei nostri stu­denti, che non pos­sono certo esau­rirsi nell’apprendimento della lin­gua inglese. Pre­pa­rare i nuovi cit­ta­dini del mondo, ecco uno dei com­piti da asse­gnare alla scuola del nostro tempo, men­tre intorno a noi si scon­trano sto­rie e civiltà, ribol­lono guerre san­gui­nose dipen­denti da ingiu­sti­zie e soprusi, incom­pren­sioni e igno­ranza. E per tale asse for­ma­tivo i saperi uma­ni­stici sono irrinunciabili.

Ma oltre a quello civile e storico-politico c’è un campo cono­sci­tivo di prima gran­dezza di cui la scuola dovrebbe occu­parsi: il campo delle scienze, soprat­tutto di quelle della natura e del modo di inse­gnarle. E’ un nodo deci­sivo per la for­ma­zione cul­tu­rale dei nostri ragazzi. Non solo e non tanto per­ché un appren­di­mento di buon livello delle scienze assi­cura poi una supe­riore capa­cità del lavoro pro­fes­sio­nale che cia­scuno andrà a svolgere.

Ma soprat­tutto per­ché oggi un inse­gna­mento inter­di­sci­pli­nare dei saperi scien­ti­fici appare deci­sivo per for­mare i gio­vani alla let­tura della com­ples­sità del mondo. Un mondo sem­pre più inter­re­lato che stiamo distrug­gendo per l’ igno­ranza dei più, oltre che per l’interesse egoi­stico dei pochi. L’attuale for­ma­zione scien­ti­fica dei nostri ragazzi è ina­de­guata rispetto ai dram­ma­tici pro­blemi che stiamo creando alla casa comune del pia­neta. Men­tre della scienza si esalta super­fi­cial­mente l’aspetto tec­no­lo­gico, quello che serve al mer­cato del lavoro, alla “cre­scita”.
Eppure si dimen­tica che per­fino la disci­plina da cui dipende quasi tutto delle con­qui­ste tec­no­lo­gi­che del nostro tempo, la fisica, costringe oggi a una visone inter­re­lata della natura: «Ancora una volta il mondo sem­bra essere rela­zione, prima che oggetti» (C.Rovelli, Sette brevi lezioni di fisica, Adel­phi). Nella nuova scuola la cono­scenza scien­ti­fica dovrebbe fare acqui­sire ai gio­vani un nuovo sapere scientifico-morale: l’idea di un rap­porto uomo-natura meno arcaica di quello dei loro padri.

da il manifesto del 18 marzo 2015

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