Fonte: Il Manifesto
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Non sono state certo poche le critiche mosse al ddl sulla scuola approvato dal Consiglio dei ministri il 12 marzo scorso, anche da parte di commentatori pronti ad accogliere con favore le “riforme” del governo. Merita tuttavia qualche ulteriore considerazione l’innovazione più singolare del progetto governativo: la chiamata diretta dei docenti da parte del preside-manager, cui si attribuisce anche la gestione di premi e incentivi ( vere e proprie briciole per pochissimi) da elargire ai professori più meritevoli.
È fin troppo evidente che tanta discrezionalità nelle mani di un capo, sia pure accompagnato da una “squadra” di docenti, darebbe luogo ad arbitri, pratiche clientelari, corruzione. Mentre si trasformerebbero gli istituti scolastici in luoghi di tensione e conflitti, con la lacerazione del corpo docente, non senza risvolti e code giudiziarie, come ha paventato qualche commentatore. ( Il preside dell’Istituto Tecnico Avogadro di Torino Corriere della Sera, 14 marzo).
Di sicuro, in pochi anni la scuola perderebbe quel po’ di concordia interna che ha fatto operare per decenni insegnanti e studenti come un collettivo di lavoro. Un clima di cooperazione reso possibile dalla impersonalità delle norme, fondate sul merito, che ha selezionato i docenti della scuola italiana sino a oggi: pubblici concorsi, abilitazioni, corsi di aggiornamento, ecc . È evidente che l’idea del preside che chiama all’insegnamento e distribuisce qualche mancia serve anche a coprire la magagna che tutti conoscono:la condizione di assoluta indigenza in cui sono lasciati da decenni gli insegnanti della scuola italiana. Giocatore delle tre carte, Renzi si fa pubblicità come riformatore e innovatore, ma nasconde quel che è drammaticamente necessario alla scuola italiana per farla risorgere: investire risorse e soprattutto portare a un livello di dignità europea gli stipendi dei professori.
L’idea del preside-capo si presta tuttavia a considerazioni più generali. Non deve sfuggire che anche nel campo della scuola si manifesta l’ossessione di Renzi per il comando. Lo si vede nei suoi rapporti col Parlamento e con i compagni del suo partito, lo si è visto con il Jobs act, che dà all’imprenditore la libertà di licenziare, ora nella riforma elettorale in discussione, che dovrebbe fornire il nome del vincitore alla chiusura delle elezioni.
Non è solo un dato caratteriale del presidente del Consiglio. L’evidente incremento di tratti autoritari nelle società di più o meno antica democrazia è il risvolto inevitabile di un assoggettamento crescente del ceto politico alle pressioni dei poteri economico-finanziari. Se i corpi intermedi, le istituzioni, le casematte che hanno regolato i rapporti tra i cittadini e tra questi e il potere, in una società complessa, sono rappresentati come ostacoli al libero mercato, alla fine questa società si può tenere insieme solo tramite centri di comando assoluti. Ma la scuola è un terreno delicato e particolare. L’enfasi che il ddl mette sulla figura del preside e sull’autonomia scolastica dovrebbe suscitare serie preoccupazioni per altre ragioni. Si va infatti verso la dissoluzione di quella struttura pubblica che regolava la vita scolastica, con meccanismi impersonali di accesso all’insegnamento e si simula, per affermarla poi di fatto, una privatizzazione degli istituti. Non è più lo stato, in rappresentanza di tutti noi, che comanda, ma il preside, a sua discrezione.
Il rapporto tra insegnanti e preside non è più una relazione tra colleghi, ma un affare privato tra un capo-azienda e i suoi sottoposti. Tale dissolvimento per il momento simbolico della scuola pubblica nasconde un altro elemento che scardina assetti storici consolidati: la sempre più spinta autonomizzazione dei curricula scolastici. Ogni scuola perseguirà il proprio modello e il proprio programma di studi. Ma la scuola italiana ha avuto, tra gli altri meriti, quello di fornire agli italiani, emergenti da una secolare storia di localismi, di differenziazioni regionali, di diversità linguistiche, un comune fondo culturale, il minimo indispensabile di identità nazionale. Vogliamo che la scuola abbandoni tale compito? Bene, il presidente del Consiglio e le burocrazie ministeriali devono dirci dove vogliono andare, a che scopo si fanno queste “riforme”, qual è il modello di società che essi intendono perseguire.
Io credo di sapere in realtà dove vogliono andare, non per capacità divinatorie, ma perché da anni i governi intervengono sulla scuola e si possono ben scorgere quali sono le loro intenzionalità riformatrici. Quel che ossessiona infatti i riformatori è l’efficienza della macchina istituzionale, senza nessuna preoccupazione della qualità dei saperi, del livello della formazione che viene fornita ai ragazzi. E questo per una ragione ben precisa. Tutta la visione progettuale del legislatore si esaurisce in un ben misero intento: adeguare la scuola alle esigenze mutevoli del mercato del lavoro. E allora occorre porre il quesito: dobbiamo innovare la scuola in tale direzione, immettere sempre più direttamente anche le istituzioni del sapere e della formazione nel tritacarne del mercato? Questa domanda è utile perché mette di fronte a due strade che non sempre sono distinguibili nel dibattito corrente, ma che occorre avere ben chiare se si vuole elaborare un progetto di scuola all’altezza delle sfide che ci si parano innanzi.
Vogliamo una scuola che aiuti la formazione di una società nuova, più giusta e avanzata, che rielabori per il nostro tempo un nuovo assetto di civiltà, o cerchiamo di farla funzionare al meglio per rispondere ai bisogni presenti e immediati della società così com’è, con le sue gerarchie e squilibri? Nel primo caso è evidente che non basta più, alla scuola italiana, l’affermazione tra i ragazzi di una coscienza nazionale. Oggi occorrerebbe fornire una più larga visione europea e mondiale. Uno dei compiti del riformatore dovrebbe essere quello di introdurre elementi di conoscenza cosmopolita nella formazione dei nostri studenti, che non possono certo esaurirsi nell’apprendimento della lingua inglese. Preparare i nuovi cittadini del mondo, ecco uno dei compiti da assegnare alla scuola del nostro tempo, mentre intorno a noi si scontrano storie e civiltà, ribollono guerre sanguinose dipendenti da ingiustizie e soprusi, incomprensioni e ignoranza. E per tale asse formativo i saperi umanistici sono irrinunciabili.
Ma oltre a quello civile e storico-politico c’è un campo conoscitivo di prima grandezza di cui la scuola dovrebbe occuparsi: il campo delle scienze, soprattutto di quelle della natura e del modo di insegnarle. E’ un nodo decisivo per la formazione culturale dei nostri ragazzi. Non solo e non tanto perché un apprendimento di buon livello delle scienze assicura poi una superiore capacità del lavoro professionale che ciascuno andrà a svolgere.
Ma soprattutto perché oggi un insegnamento interdisciplinare dei saperi scientifici appare decisivo per formare i giovani alla lettura della complessità del mondo. Un mondo sempre più interrelato che stiamo distruggendo per l’ ignoranza dei più, oltre che per l’interesse egoistico dei pochi. L’attuale formazione scientifica dei nostri ragazzi è inadeguata rispetto ai drammatici problemi che stiamo creando alla casa comune del pianeta. Mentre della scienza si esalta superficialmente l’aspetto tecnologico, quello che serve al mercato del lavoro, alla “crescita”.
Eppure si dimentica che perfino la disciplina da cui dipende quasi tutto delle conquiste tecnologiche del nostro tempo, la fisica, costringe oggi a una visone interrelata della natura: «Ancora una volta il mondo sembra essere relazione, prima che oggetti» (C.Rovelli, Sette brevi lezioni di fisica, Adelphi). Nella nuova scuola la conoscenza scientifica dovrebbe fare acquisire ai giovani un nuovo sapere scientifico-morale: l’idea di un rapporto uomo-natura meno arcaica di quello dei loro padri.
da il manifesto del 18 marzo 2015