COMPASSIONE CON ANNA MARIA ORTESE

per Filoteo Nicolini
Autore originale del testo: FILOTEO NICOLINI

COMPASSIONE CON ANNA MARIA ORTESE

Questa di Ortese è mia lettura personale, non colta e non accademica, frutto dell’incontro in età matura con alcuni suoi libri. C’è un momento adatto per ogni esperienza, ed avendo a lungo vissuto lontano in altre regioni del mondo, l’incontro con Anna Maria Ortese divenne un mezzo per rinnovare con Napoli un discorso interrotto dalla distanza e dal tempo. All’inizio le camminate in città ascoltando voci antiche, e poi le letture avide. Ma c’era Napoli in quelle illustrazioni? Sì e no. Poi altri suoi racconti mi spinsero su nuovi spazi di immaginazione, dove diveniva sempre più affascinante lo svelare la vita a causa di una inaudita capacità di raccontare trasfigurando.

Emerse la possibilità di “vedere” come Lei, farsi portare per mano in viaggi lucidi di compassione, guidata da una tenerezza partecipe. Doti femminili. Come chi apre la ferita per farne uscire il male. Diceva Luis Claude de Saint Martin.“Non si può guardare all’essere umano senza una stretta al cuore.”

La Via Foria nell’Est partenopeo del racconto “Grande Via”¹, mi apparve all’improvviso come metafora di esperienze uniche. Che cosa spinge la bambina a fare di quel luogo il centro del suo interesse, incalzata da una visione o inclinazione irragionevole? E rimanere colpita dalla folla laboriosa, l’allegria dell’andirivieni diurno, e poi attratta al crepuscolo al mutar della luce quando nasce un silenzio incantato che trae brividi e strane cose che si palesano? Ora si intravedono negozi deserti, alcuni con vecchie riviste di Eroi dei fumetti, o gabbie di uccelli, o botteghe misteriose e buie dove si ammucchiano gessi funerari e pallidi simulacri di giovanetti destinati ad adornare tombe. Allora nella pietosa immobilità, disperata calma, quelle figure divengono anche agli occhi del lettore qualcosa di vivente, quelle lagrime di gesso scorrono sulla guancia, sono richieste di aiuto e carezze, per ricongiungersi con la vita giovane che è stata strappata. Emerge dagli stupori del mattino e dai canti del giorno la triste dolcezza della sera, la metafora completa della esistenza.

La silenziosa muraglia dei Granili nel racconto “La Città involontaria”² coi tre piani e otto tubi di fognatura e 348 stanze sorgeva a San Giovanni vicino al Porto, e ospitava circa tremila persone conviventi in spazi e stanzoni ridotti. Più che descritto da cifre e dati, più che provvisoria sistemazione di senza tetto, indica per Ortese in visita il decadere umano, la malattia che tollera la putrefazione di un suo membro.

La scrittura incalzante, lucida e a tratti allucinata del racconto, accompagna la discesa all’Ade, qui magistralmente raffigurato dalle tenebre che avvolgono i piani inferiori del casermone, tra le quali vagano pallide ombre e vacillano anime provate dal carico dell’esistenza. Non é solo la Napoli del dopoguerra quella che è davanti agli occhi, ma una realtá con risvolti universali.

E non è lettura che lasci indifferenti l’anima, perché è luogo degli afflitti dove pure i muri si lamentano. Chi guida la narratrice è un essere femminile schiacciato nella figura, rigonfio, a sua volta parto di creature tarate, è regina della casa dei morti, tale l’esordio. L’impressione di una frana interna, un’angoscia e un dissolversi di tutta la materia umana, tra fetori e fumi di fornacelle a carbone, tra voci lamentose e sporcizia. Ortese ha l’impressione di stare sognando o contemplando il disegno di una orrenda verità, al punto di confondere una rappresentazione con la vita stessa. Nel paese della notte, avanzano a tentoni nel vasto corridoio straccioni, mendicanti, uomini e donne senza volto, negli stanzoni tutto appare fermo, la vita è pietrificata dall’inerzia sconsolata.

Ai piani superiori la vita assume un aspetto umano, si respira un’aria meno opprimente, c’è più luce, le finestre hanno vetri. Si evita il contatto con gli abitanti dei piani bassi, ma a volte accade che qualcuno di sopra sia costretto a cedere l’alloggio e adattarsi a improvvisi stenti, e allora non risale più nessuno, c’è qualcosa che chiama, da giù.

Ritornata ai piani bassi assiste allora all’improvvisato corteo funebre di un bambino morto mentre intento al gioco, nel corridoio dove ora è tornata la tenebra, in braccio alla madre, avvolto in un cencio, con l’espressione meravigliata di chi è stato sorpreso nell’allegria.

Ortese fa della sofferenza uno dei temi centrali e proietta lo sguardo compassionevole e partecipativo sulle anime, sulle loro penurie, i loro slanci, i loro dolori. Dopo letture come queste, mai piú si vedono gli stessi volti di prima, cominciano ad apparire facce gialle, corpi piegati, sorrisi che sono smorfie, risa vuote e clamorose.

Bambine con il viso di piccole vecchie, i capelli come stoppa, arruffati, le mani ruvide, legnose. Donne dalle spalle puntute e grigie come pietre, con gambe simili a bastoncini di legno, quasi nane, con un viso da uomo pieno di baffi. O con le mani come zampe, mani di faticatore, con la pelle marrone, squamata. Siamo ancora nel mondo dei sensi, ma osservato da una prospettiva che riflette i bisogni dell’anima.

Il mare non bagna Napoli, ecco la prima chiave di lettura: partire dalla negazione di ciò che é ovvio, di quello che riteniamo reale ed invece non é se non un primo strato di uno scavo mai intrapreso e che ci conduce verso realtà sconosciute, intuibili, scomode.

Cambia il punto di vista, si vedono tenebre laddove si proiettava una falsa luce, spettri al posto di forme vitali, disperazione invece di sogni.

La carica demolitrice della Ortese é appena cominciata, presentandoci persone con un misto di stupidità e sonnolenza, evocando tristezze che spuntano ad oscurare i colori.

É un primo passo, siamo spaesati, conosco chi ha abbandonato qui la lettura, mentre dalla mano della Ortese cominciamo la discesa nel fondo, a scoprire con le sue parole che la vita é una strana esperienza, ogni tanto ci sembra di capire che é, e poi ripiombiamo nel sonno.

Nel racconto “Una Notte nella Stazione”³ Ortese e un fotografo sono impegnati in un servizio giornalistico. Appena entrata a Milano Centrale non può, proprio a causa di un evidente contrasto, non notarne queste particolarità: la grandezza e le tenebre, malgrado il suo volto cordiale, benigno. Nelle notti lunari, come quella che trascorre l’autrice, la Stazione diviene ai suoi occhi “…una specie di montagna degli orrori inutili, di altare della decadenza, di faro della cecità. Guardandola, solo guardandola si ha l’impressione di toccare il polso alla vita moderna, all’uomo preso nel girone della civiltà industriale, che alla fine restituirà un automa o un rottame.”

E’ appena l’inizio quando ci fa scoprire il rigagnolo nero delle correnti che vi si affollano in partenza o in arrivo, le interminabili colonne di umani che logorati dall’ansia si muovono per la costruzione di opere (il racconto è del 1958) che impiegheranno masse sempre più estese di esseri, e quelle opere strapperanno all’uomo comune, ogni giorno più, fin l’ultima energia, in un gesto ripetuto milioni di volte, tutta una vita, sempre più serrato e rapido, fino all’estinzione totale della personalità.

Lo sguardo ora é attento alle file che si allungano agli sportelli, alle scarpe consumate e le logore valigie, rivolto all’ansietà diffusa, alle labbra serrate e gli sguardi fissi, a quella interiore immobilità di chi crede di correre, ma è soltanto trascinato da qualcosa fuori di lui, e che essa sola corre, con un ritmo gigantesco. Ecco, tutto ciò dà a Ortese la percezione esatta della realtà del suo tempo: contrazione progressiva della personalità, automatismo, fine della parola.

La notte trascorre lentamente con altre scoperte, l’incontro con passeggeri in attesa e nuove allucinate percezioni dell’architettura vista come mostruosità di pietra, di ferro, di fumo. Una famigliola accampata dietro un tavolino, immobile e in silenzio, che ritorna al Sud delusa e scoraggiata, con la quale si scambia qualche parola. Verso le otto partono treni importanti o arrivano, c’è animazione improvvisa per quelli internazionali, poi al loro posto rimane un vuoto nero, un fumo bianco, il rettilineo deserto dei binari. E poi c’è l’incontro col professore che tutte le sere aspetta qualcuno che non arriva, lucido nella sua follia quando protesta pacatamente lo stato delle cose, quando ricorda che gli uomini e le donne sono senza parole, docili, muti, senza verde, luce, aria, trasformati in lucidatrici, frigidaires, in cose. Allora il pensiero si perde, le parole si ritirano confuse nella gola e la pazzia diviene il modo di esprimersi.

La notte avanza in una Stazione occupata da una oscurità senza ossigeno, dove domina ansietà, il mancare continuo di qualcosa, lo sforzo di tornare a galla e l’ondata che acceca. Punto di incontro tra un’Italia invecchiata e un’epoca affamata di produzione.

Mentre all’alba riappare il mare umano e una massa oscura fluttua intorno all’ombra di un treno, i passi e la nebbia che appanna gli occhi della donna cacciata dalla sala d’attesa segnano l’inizio di un nuovo giorno tra tettoie e fredde sbarre.

I “Ragazzi di Arese”4 è uno sguardo sul Centro di rieducazione per minorenni alla Vigilia del Natale, quando si aspetta invano per tornare qualche giorno a casa. Aleggia una tristezza assoluta, un pensiero immobile. I parenti in genere non ne vogliono sapere di quei ragazzi, un po’ vivi, soprattutto poveri. La loro educazione costa troppo, e allora….i più grandi sanno ed sono i più duri, gli altri, i più docili, ignorano tutto e si tengono in corrispondenza coi padri. Prima delle Feste le lettere si infittiscono. I genitori scrivono due tipi di lettere, ai ragazzi, mostrandosi ansiosi di riaverli a casa, e poi alla Direzione spiegando come questo non sia possibile. L’alternativa tra speranza e disperazione, man mano che il giorno della Vigilia termina, diviene orribile.

Sorridono discretamente per difendere il dolore da sguardi indiscreti, hanno una pietra sul cuore, le lacrime non possono uscire. Negli stanzoni ci sono presepi non accompagnati da niente, come frammenti di una vita a galla di un mare in tempesta. Qualcuno implora il Direttore affinché chiami al telefono il padre, si farebbe ancora a tempo. La sera vengono distribuiti doni ai figli di nessuno, si assiste allo spettacolo di beneficenza, poi la Messa. Nel cortile, qualcuno piange perchè non è partito, un altro è appena ritornato da un viaggio troppo breve: la porta di casa era chiusa, la sorella era andata a passare il Natale fuori.

                                     *   *   *   *   *   *   *

Per Ortese, la scrittura diviene l’unica verità in cui credere, quando l’immaginazione libera l’anima, e la compassione accoglie il dolore e lo rende conoscibile. E’ il femminile che emerge.

FILOTEO NICOLINI

Immagine: Anna Maria Ortese.

1 Anna Maria Ortese, “L’Infanta Sepolta”, Adelphi Milano 2000, pag.154

2 Anna Maria Ortese, “Il mare non bagna Napoli, Adelphi Milano, quarta edizione 2010, pag. 73

3 Anna Maria Ortese, “Silenzio a Milano”, La Tartaruga Ed. Milano, 1993, pag. 5.

4 Anna Maria Ortese, “Silenzio a Milano”, La Tartaruga Ed. Milano, 1993, pag. 45.

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