COME UCCIDERE LO “ZAR PAZZO”

per Gian Franco Ferraris
Autore originale del testo: Fabrizio Maronta
Fonte: Limes

COME UCCIDERE LO “ZAR PAZZO”

NON DI SOLO GAS. CHI STA VINCENDO E CHI PERDENDO NELLA NUOVA GEOECONOMIA

1. Un uomo con la testa nel forno acceso e i piedi nel congelatore statisticamente ha una temperatura media, diceva Charles Bukowski. Ragion per cui lo scrittore nato tedesco e naturalizzato americano diffidava delle statistiche. Faceva bene.


Statisticamente parlando, il mondo può agilmente prescindere dall’economia russa. Con un pil di 1.700 miliardi di dollari nel 2021, la Russia si accomoda(va) tra Messico e Canada, in compagnia di Brasile, Taiwan (poco più di un quinto degli abitanti, una frazione della superficie), Indonesia. Molto dietro all’Italia, che con meno della metà della popolazione ha un pil circa doppio. In termini assoluti, l’economia russa vale(va) l’1,5% di quella mondiale. Il suo export, intorno ai 400 miliardi di dollari annui, non supera(va) il 2% del totale globale. Il ruolo del rublo era minimo: appena lo 0,5% degli scambi valutari nel 2019. A fine 2021 il capitale internazionale presente nel paese era l’1% del monte ide (investimenti diretti esteri) mondiale e il 60% di quei 416 miliardi di dollari arriva(va), secondo il Fondo monetario internazionale (Fmi), da «scatole cinesi»: aziende fittizie costituite da russi all’estero a fini di evasione fiscale e riciclaggio 1.


Peccato che l’economia mondiale sia per molti versi un abbaglio statistico. Sguardi appena più attenti vi discernono innumerevoli interazioni specifiche condizionate in modo sostanziale da costrizioni geografiche, disponibilità di risorse, specializzazioni produttive e – per i più bravi – strategie geoeconomiche. Se prima del 24 febbraio 2022 la Federazione Russa era dunque un nano economico su scala globale, vista dall’Italia occupava una porzione rilevante del nostro orizzonte economico. A gennaio 2022 eravamo la quinta destinazione dell’export russo: con una quota di mercato italiano del 4,8% Mosca veniva subito dopo Germania e Francia. Eravamo altresì il settimo fornitore del paese, con una quota del 3,3% seconda solo (benché di molto) a quella tedesca. Nel 2021 l’interscambio bilaterale ammontava a 21,6 miliardi: quasi 14 miliardi le importazioni dalla Russia, 7,7 miliardi le esportazioni italiane 2.


2. Nella guerra scoppiata a fine febbraio la recrudescenza militare va di pari passo con l’escalation economica 3. Alle sanzioni in vigore dal 2014 (annessione russa della Crimea) ne subentrano velocemente di nuove e sempre più aspre. 


Dapprima (25 febbraio) viene esteso il divieto di finanziamento alle principali banche russe (Alfa Bank, Otkrytie Bank, Rossija Bank e Promsvjazbank) e alle imprese pubbliche (Almaz-Antej, Kamaz, Novorossijsk Commercial Sea Port, Rostekh, Russian Railways, Jsc Po Sevmaš, Sovcomflot, United Shipbuilding Corporation),  di cui è anche vietata la quotazione in Europa. Alle banche dell’Ue è proibito accettare depositi superiori a centomila euro da soggetti russi, nonché erogare loro servizi finanziari. Bandito l’export di materiali a uso duale (civile-militare); nell’elenco dei destinatari russi espressamente vietati – che passa da 9 a 64 entità – sono inclusi intelligence, istituti di ricerca militare, società dei settori chimico, navale, difesa e aerospazio. Vietato anche fornire tecnologie per la raffinazione del greggio e relativa assistenza tecnica, vendere aerei e loro pezzi di ricambio (il 75% della flotta civile russa è costruita in Nord America e Ue). Le entità russe sanzionate sono in tutto 725. È solo l’inizio.


Carta di Laura Canali - 2022

Carta di Laura Canali – 2022


Il 28 febbraio un secondo ventaglio di misure «congela» riserve e asset della Banca centrale russa e di ogni altra entità che operi per suo conto, vietando altresì l’ingresso nello spazio aereo comunitario ad aerei di operatori russi. I soggetti sanzionati salgono a 772.


Il 1° marzo un terzo pacchetto di sanzioni esclude sette banche russe (Otkritie Bank, Novikombank, Promsvyazbank, Rossiya Bank, Sovcombank, Vnešeco­nombank e Vtb Bank) dal sistema di messaggistica finanziaria Swift, oltre a vietare l’esportazione di euro in Russia e nuovi investimenti in progetti finanziati dal Russian Direct Investment Fund, il fondo sovrano della Federazione.


Il 9 marzo analoghe misure sono decretate per la Bielorussia, mentre vengono inasprite quelle verso Mosca: bloccato l’export di beni e tecnologie per la navigazione marittima, inserito in modo esplicito il National Wealth Fund (ente previdenziale) russo tra i soggetti banditi, sanzionate altre 160 entità (soprattutto imprenditori).


Il 15 marzo il settore dell’energia russo è escluso da precedenti deroghe discrezionali, preservando però il trasporto di combustibili fossili verso l’Ue. Vietato inoltre concedere prestiti e fornire servizi finanziari ad attori russi del settore. Proibito importare e trasportare alcuni prodotti del ferro e dell’acciaio made in Russia. Precluso l’export di prodotti di lusso europei onde penalizzare gli oligarchi pro Putin: stop dunque a cavalli, caviale, tartufi, alcol, sigari, profumi, valigie, abbigliamento e tessuti, calzature, tappeti, gioielli, preziosi, filatelia, cristalli. Ma anche a elettrodomestici, veicoli, orologi, strumenti musicali ed elettronica di fascia medio-alta, opere d’arte, articoli sportivi e da gioco.


Restano deroghe per le operazioni strettamente necessarie all’importazione dalla Russia di combustibili fossili – almeno finché Biden non l’avrà spuntata sul petrolio – e di titanio, alluminio, rame, nickel, palladio, minerali ferrosi. Ma il rischio di incappare in sanzioni primarie (europee) o secondarie (statunitensi) è ormai tale che molte aziende europee, italiane incluse, tirano i remi in barca. Inoltre, il persistente blocco delle riserve bancarie russe all’estero – dunque dei crediti accumulati dalla Federazione con l’export – minaccia volumi e continuità degli approvvigionamenti, in quanto i russi sono sempre più disincentivati a esportare. Questo, insieme alle difficoltà e ai rincari del trasporto marittimo, rischia di alimentare l’impennata delle materie prime che ha già fatto danni.


3. Per capire l’impatto di tutto questo sull’Italia basta scorrere le principali voci (per valore e volumi) dell’interscambio commerciale Italia-Russia nel 2021. Un sommario elenco restituisce l’istantanea di due economie in larga misura complementari. Quella italiana a forte vocazione manifatturiera ma povera di materie prime, che vive del valore aggiunto di produzioni ed export. Quella russa specularmente opposta. I principali prodotti italiani esportati in Russia sono stati macchinari e apparecchi (28%), tessili e abbigliamento (17,5%), prodotti chimici (9,4%), alimentari, bevande e tabacco (8,3%), prodotti in metallo (7,5%) e altri prodotti manifatturieri (6,5%), mentre a essere importati dalla Russia erano soprattutto materie prime minerali (60%), metalli (23%), carbone e prodotti petroliferi raffinati (9,5%), sostanze chimiche (2,3%) 4. 


Nel 2020 gli investimenti italiani in Russia ammontavano a 1,3 miliardi di euro: cifra non indifferente considerando le sanzioni in vigore dal 2014. A fine 2017, ultima rilevazione disponibile, erano presenti in Russia circa 660 imprese italiane operanti in particolare nei settori energetico, automobilistico, agroalimentare e delle telecomunicazioni, con oltre 39 mila dipendenti e un fatturato complessivo di quasi 9 miliardi di euro. C’è tutto il made in Italy di punta: automotive (Alfa, Fiat, Camozzi, Pirelli, New Holland, Iveco), ceramica e plastiche (Alteco, Cannon e Tecnoplast, oltre a rappresentanze stabili di Devon, Jacuzzi, Duka e Gessi), chimica e farmaceutica (Mapei, Menarini, Repi), macchine e impianti industriali (Biesse, Danieli, Firbimatic, Food Plant, Gbo, Reggiani, Ritek, Rovani), elettrodomestici (Ariston, Armeg, Candy, De Longhi, Indesit, Merloni), arredamento e illuminazione (Artemide, Guzzini, Natuzzi), infrastrutture e impiantistica (Astaldi, Buzzi Unicem, Cimolai, Dks, Marcegaglia, Prysmian, Salini, Solimec, Techint), agroalimentare (Campari, Colussi, Cremonini, De Cecco, Ferrero, Parmalat, Perfetti, Zuegg), abbigliamento (Corneliani), occhialeria (Luxottica), energia (Enel, Eni, Kelmos), nonché campioni strategici come Augusta Westland, Alenia Aermacchi, Leonardo, Sparkle (divisione di Telecom Italia), Telespazio. Solo per citare le maggiori.


C’è poi l’esposizione agli acquisti russi di prodotti italiani fabbricati in Italia ed esportati, o fruiti qui dai turisti. Nel 2019 (pre-Covid) il turismo russo in Italia ha generato 5,8 milioni di presenze e speso 2,5 miliardi di euro. La capacità di spesa media giornaliera, quasi 180 euro, eccedeva del 65% quella degli altri turisti stranieri. Spesa in cosa? Soprattutto alberghi, arte, moda, cibo, vini 5. Turismo a parte, Maire Tecnimont (ingegneria per le risorse naturali) realizza(va) il 25% dei propri ricavi in Russia, Geox il 9%, Brunello Cucinelli (abbigliamento) il 5%, Lu-Ve (refrigerazione) il 7,6%, Recordati (farmaceutica) il 4,5%. Saipem, in consorzio con la russa Novatek, ha (avrebbe) un contratto di 3,3 miliardi di euro per la realizzazione del progetto Arctic Lng 2 sul gas liquefatto 6. Sempre per citare casi emblematici.


Cenno a parte meritano il settore bancario e quello energetico. In Russia sono presenti Intesa Sanpaolo, Unicredit e Mediobanca, con le prime due a fare la parte del leone. A fine 2021 l’esposizione bancaria italiana (diretta e indiretta) verso la Russia ammontava a 25,3 miliardi di dollari: la più alta al mondo, seguita da quelle di Francia (25,2 miliardi), Austria (17,5 miliardi), Stati Uniti (14,7 miliardi), Giappone (9,6 miliardi), Germania (8,1 miliardi), Paesi Bassi (6,6 miliardi) e Svizzera (3,7 miliardi). Dei due maggiori gruppi italiani il più esposto è Unicredit: verso la controllata russa per quasi 2 miliardi di euro, verso la clientela locale (quasi interamente societaria) per 5 miliardi, verso banche russe per 300 milioni. Nel complesso, l’esposizione verso la Russia vale circa il 4% degli impieghi dell’istituto. Meglio Intesa Sanpaolo: i prestiti alla clientela russa (quasi tutte società) ammontano a circa 5,6 miliardi di euro, pari all’1,1% degli impieghi del gruppo 7.


Il capitolo energetico rileva per la sua sistematicità, oltre che per i numeri. In un’economia industriale l’energia pervade, direttamente o meno, l’intero tessuto socioeconomico. La sua scarsità ed eccessiva onerosità strozza tutti i settori, perché i beni e i servizi consumati in abbondanza necessitano di energia per essere prodotti, distribuiti e smaltiti nelle copiose scorie, alias rifiuti, che generano. Il tema è ovvio. Forse troppo, tanto da essere sorvolato con una (non?) politica energetica configuratasi nel tempo quale scommessa a senso unico. Abbiamo eletto il gas a combustibile di transizione par excellence dai fossili alle rinnovabili (grafico 1). Abbiamo puntato sulla Russia come fornitore primario di questa risorsa (grafico 2) in quanto dovizia energetica, prossimità geografica e presenza di infrastrutture (gasdotti) erano garanzia di economicità.


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Non paghi abbiamo preteso contratti – rigorosamente nazionali: di coordinamento europeo su acquisti e stoccaggi si comincia a parlare solo oggi, in piena emergenza – spot, cioè di breve durata e con quotazioni ultrasensibili alla dinamica domanda-offerta. Abbiamo scelto insomma l’equivalente di un mutuo a tasso variabile quando i tassi (i prezzi del gas) erano assai bassi; in caso di problemi, potevano solo aumentare. Risultato: importiamo il 77% dell’energia che consumiamo, metà della quale è gas e di questo gas importato soprattutto da (nell’ordine) Russia, Algeria, Libia, Azerbaigian (grazie al vituperato gasdotto Tap) e Qatar (grafico 3), quasi il 45% è russo. E ora costa caro, almeno finché arriva.


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4. A questo punto occorre allargare lo sguardo oltre i patri confini, perché sulla nostra condizione incide(rà) molto quel che accade intorno a noi. Anzitutto nei paesi a reddito medio-basso dell’area mediterranea, fortemente dipendenti dalle importazioni di cibo (tabella 1). Tra i principali importatori di grano ucraino figurano Libano (oltre l’80% sull’import nazionale di frumento), Tunisia (48%), Egitto (25%) e Marocco (15%), mentre tra i maggiori fruitori del grano russo vi sono Turchia (64% sull’import nazionale), Albania ed Egitto (60%). Nella classifica andrebbero inclusi paesi dell’Africa subsahariana (Etiopia, Namibia, i due Congo) e del subcontinente indiano (Pakistan) da cui origina e/o transita parte dei flussi migratori verso l’Italia e il resto d’Europa 8. Ora: quanti ricordano che a incendiare il malcontento della piazza egiziana nel 2011 concorse il forte rincaro del grano?


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Al di qua del Mediterraneo, l’alzata di scudi dell’Ue maschera invece profonde differenze nell’impatto economico della guerra 9; divari destinati a emergere nei prossimi mesi. Il problema non è solo economico, dato che – come ci rammentano le crisi dell’euro nel 2010 e dei migranti nel 2015 – situazioni diverse tendono a creare divergenze nelle percezioni e nelle priorità, dunque nella propensione a condividere gli oneri. Anche qui, la statistica inganna. Nel complesso i rapporti economici Ue-Russia sono modesti. L’Ue è (era) il primo partner commerciale di Mosca, assorbendone quasi metà dell’export; al di fuori dell’energia, invece, la Russia in Europa aveva un ruolo commerciale modesto e declinante dal 2014. Questa però è una media di Trilussa.


Nel 2021 l’area baltica conserva(va) forti legami economico-commerciali con la Russia, che resta(va) il principale mercato d’esportazione per la Lettonia e il secondo per la Lituania assorbendo oltre il 30% dell’export lituano di macchinari e oltre il 40% dell’export alimentare lettone. Anche sulle importazioni regionali l’incidenza della Russia risulta(va) molto più elevata della media europea: russo è metà del legname importato l’anno scorso dalla Finlandia per alimentare un settore che vale il 20% del pil e il 15% dell’impiego industriale finlandesi. In generale, se il commercio (specie l’export) con la Russia era marginale per gran parte dell’Europa occidentale, non lo era per i paesi dell’Europa centro-orientale la cui tradizionale russofobia esce peraltro esacerbata dal conflitto, insieme dunque all’insicurezza (anche) economica. Le due grandi eccezioni a questo quadro resta(va)no Germania e Italia, tra le economie euro-occidentali quelle che accusano l’impatto maggiore.


Più distribuiti i problemi del settore alimentare, dato che l’Europa dipende(va) largamente da Russia e Bielorussia per sementi e fertilizzanti, oltre che (in misura minore) per l’importazione di derrate come latte, frumento e cereali. Idem dicasi per alcuni prodotti minerari: in particolare il palladio – additivo delle benzine verdi che abbatte gli inquinanti e consente l’uso di marmitte catalitiche – il nickel (essenziale per gli acciai) e l’alluminio.


Fuorvianti anche le medie relative all’import energetico: nel 2021 veniva dalla Russia il 23% del petrolio, il 45% del gas e quasi il 45% del carbone importati dalla Ue, ma a fare buona parte del mercato erano (sono) soprattutto Ungheria, Slovenia, Lettonia, Germania e Italia. Di nuovo, con la macroscopica eccezione italo-tedesca è l’Est il più esposto. 


Al rebus energetico i paesi europei cercano ora di rispondere accelerando l’ambizioso piano RePowerEu onde ridurre in due-tre anni le importazioni annue di gas russo da 155 miliardi di metri cubi (m3) a 55 miliardi. Come? Con un ricorso massiccio al gas naturale liquefatto (gnl) soprattutto da Qatar, Stati Uniti, Egitto e Africa occidentale, che dovrebbe fornire circa 50 miliardi di m3; aumentando i rifornimenti via tubo da Azerbaigian, Algeria e Norvegia per circa 10 miliardi di m3; portando la produzione di biometano a circa 3,5 miliardi di m3; accrescendo le rinnovabili per sostituire quasi 23 miliardi di m3 di gas russo con eolico e fotovoltaico, facendo così decollare la filiera dell’idrogeno «verde» per le industrie altamente energivore come acciaierie o cementifici 10.


Nelle prime fasi d’emergenza, però, i paesi europei si muovono in ordine sparso. Specie sul fronte del gas, dove l’incremento della quota di gnl dipende molto dai contratti che i governi – incluso il nostro – provano a siglare con fornitori ipercorteggiati, ma anche con gli operatori delle poche navi rigassificatrici cui vari paesi, tra cui l’Italia, dovranno ricorrere per integrare capacità nazionali esigue. 


Quanto alle rinnovabili, anche il Sacro Graal di qualcosa è fatto. Pannelli fotovoltaici, rotori elettrici, magneti permanenti e accumulatori, nonché la microelettronica che sta in tutto – comprese le reti elettriche «intelligenti», tali perché capaci di gestire fonti generative molteplici e incostanti – non piovono dal cielo. Necessitano di materie prime critiche, su tutte terre e metalli rari, di cui al momento è nota l’abbondanza soprattutto in Russia, Cina, Africa centrale e America Latina (tabella 2). Saper accedervi e trasformarle determinerà il futuro delle nostre transizioni energetiche, che oltre all’elemento ecologico ed economico devono incorporare, oggi più di ieri, il rischio geopolitico. Al riguardo, si attendono notizie dell’impianto che il gigante dei semiconduttori Intel intende(va) aprire in Emilia-Romagna, analogo a quelli annunciati in Francia e Germania e lì – per ora solo lì – accolti a braccia aperte. Bene anche interrogarsi seriamente sull’effettiva reperibilità per noi di queste materie prime nel continente africano capillarmente insediato, sotto il nostro sguardo distratto, da Russia, Cina e Turchia. Nel frattempo, anche in vista di un eventuale aumento in chiave compensativa dell’import di energia elettrica prodotta dalla Francia con il suo premiato nucleare, un dibattito pacato e ragionato sull’energia atomica sotto le Alpi non guasterebbe.


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5. Allargando ancora l’ottica, l’onda d’urto geoeconomica della guerra in Ucraina promette di travalicare l’Europa, ma anche l’Eurasia. Modificando equilibri e forse acuendo, nel medio periodo, quel processo di «regionalizzazione della globalizzazione» – cioè di accorciamento delle catene d’approvvigionamento e delle filiere strategiche – innescato dalla rivalità sino-statunitense e già accelerato dal Covid-19.


L’aumento dei prezzi di gas e petrolio favorisce ovviamente i paesi produttori, specie quelli – come l’Arabia Saudita, l’Iraq o il Qatar – i cui proventi erariali vengono in grande o in massima parte dagli idrocarburi. Fa la fortuna anche di produttori economicamente più avanzati e diversificati, come il Canada e gli Stati Uniti cui lo shale (fratturazione idraulica di formazioni scistose sotterranee contenenti gas e petrolio) ha permesso di tornare a essere esportatori netti. Ma avvantaggia anche antagonisti di Washington, come Iran e Venezuela. Poi ci sono paesi che oltre a (o invece di) produrre idrocarburi esportano materie prime rese improvvisamente scarse dalle sanzioni: come il Sudafrica (grande produttore di palladio, platino, oro e diamanti), Indonesia e Filippine (rispettivamente primo e secondo produttore mondiale di nickel), Australia e Canada (entrambi grandi produttori di grano e metalli; la seconda anche di potassio per i fertilizzanti, nonché di olio e semi di lino usati nei mangimi animali e come alternativa al girasole) 11. Specie per le commodities agricole appare difficile che l’ammanco ucraino e russo possa essere colmato, almeno nell’immediato. Da cui due considerazioni di fondo.


Primo: la penuria di alcune materie prime indotta dalla guerra ucraina giova a svariate economie in via di sviluppo prostrate dal Covid-19, compensando in parte i danni del mancato export nel 2020-21 e dei lockdown interni. Dove il sole già splendeva, specie nel ricco Nord America uscito meglio di altri dallo tsunami epidemico, promette di risplendere più forte.  


Secondo: questi effetti positivi rischiano di essere vanificati o fortemente ridimensionati dalle spinte inflattive che investono quasi tutto il globo, giacché (quasi) nessun paese è un’isola. Le Filippine che esportano nickel importano gas, petrolio e carbone; l’Egitto che esporta gas è il maggior importatore mondiale di grano; la Cina che fa incetta di materie prime deve esportare i manufatti con esse realizzati per sostenere «armonia» interna e ambizioni estere. Il discorso vale anche per le economie sviluppate, i cui margini fiscali variano ma sono nel complesso (molto) maggiori di quelli dei paesi in via di sviluppo.


Di certo le economie europee, tutte più o meno di trasformazione – relativamente povere di risorse naturali, vivono del valore aggiunto di ciò che producono ed esportano usando materie prime altrui – non sono e non saranno risparmiate. In poche settimane di guerra abbiamo visto smantellare il percorso d’integrazione economica tra Russia e Occidente iniziato nel 1991 e sopravvissuto all’annessione della Crimea. Durata e intensità complessiva del conflitto determineranno in larga misura se, quando e quanto tale percorso sarà recuperabile, ma certo i danni all’economia russa, per non parlare di quella ucraina, saranno vasti e spesso duraturi.


Carta di Laura Canali - 2022

Carta di Laura Canali – 2022


Allo shock dell’offerta indotto dalla penuria di materie prime potrebbe dunque sommarsi – in parte sta già accadendo – uno shock della domanda se il potere d’acquisto dei redditi medio-bassi in Europa dovesse risentirne troppo. Un’inflazione in gran parte esogena sommata a una nuova recessione – sarebbe la terza in tre anni, dopo le due da Covid-19 – paleserebbe lo spettro della stagflazione. Ciò spiega perché la Banca centrale europea – al pari della Federal Reserve statunitense, che però sovrintende un’economia molto meno toccata dalla guerra – tiri dritto sulla via del tapering, riducendo uno stimolo monetario in campo dal 2010. Spiega anche, almeno in parte, il braccio di ferro a Bruxelles tra fautori di nuovi sostegni al reddito (Francia, Italia, Spagna) e campioni del rigore (Germania, Olanda) che temono, non senza ragione, l’aggiunta di debito al debito.


Resta da capire se e quanto gli europei facciano sul serio in materia di riarmo e in che misura questa rivoluzione della postura geopolitica continentale influirà sulle nostre economie. Giacché il complesso militar-industriale costa molti soldi, ma storicamente produce anche impiego e innovazioni scientifico-tecnologiche con vaste ricadute civili. Per dire qualcosa di fondato e sensato in merito, tuttavia, occorrerà attendere.


Note:

1. P. Cohen, J. Ewing, «What’s at Stake for the Global Economy as Conflict Looms in Ukraine», The New York Times, 21/2/2022.

2. «Scheda di sintesi: Russia», Governo italiano, Osservatorio economico, infomercatiesteri.it, (aggiornato al 15/3/2022).

3. «Guerra Ucraina, le sanzioni dell’Europa alla Russia», Adnkronos, 17/3/2022. 

4. «Scheda di sintesi: Russia», cit.

5. «Quanto vale il turismo russo per l’Italia? Oligarchi, ma non solo: danno per miliardi», quotidiano.net, 7/3/2022.

6. «Piazza Affari, le società con maggiore esposizione in Russia», borsaitaliana.it, 24/2/2022.

7. L.N. Antonelli, «UniCredit e Intesa SanPaolo pronte a mollare la Russia? Tutti i numeri della loro esposizione», finanzaonline.com, 16/3/2022.

8. E. Terzono, «Food crisis looms as Ukrainian wheat shipments grind to halt», Financial Times, 6/3/2022.

9. N. Redeker, «Same shock, different effects. EU member states’ exposure to the economic consequences of Putin’s war», Hertie School – Jacques Delors Centre, Policy Brief, 7/3/2022.

10. A. Gili, «Missione: decoupling dal gas russo», Ispi, 11/3/2022.

11. A. MacDonald, V. Monga, J. McNish, «For Some Countries, Economic Ripples of Ukraine War Bring Windfall», The Wall Street Journal, 12/3/2022.

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