Fonte: da Vincitori e Vinti
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Ieri Grillo, dal palco dal Circo Massimo, ha annunciato l’avvio della raccolta delle firme per proporre il referendum per l’uscita dall’euro.
Andrebbe ricordato che l’euro è quella moneta per la quale i padri fondatori, per tanta democrazia che hanno osservato, oltre ad avervi negato la possibilità di decidere se aderire o meno alla moneta comune, vi hanno precluso anche la possibilità di decidere (attraverso consultazione referendaria) come e quando poterne uscire.
Lasciamo perdere i tratti giuridici e costituzionali riguardanti la possibilità di poter sottoporre a referendum i trattati internazionali e quindi anche i trattati istitutivi la moneta unica, che è comunque preclusa. Ma anche se non lo fosse nella forma, lo sarebbe nella sostanza. Perché, ammesso che sia possibile, per quando avranno raccolto le prime 10000 firme, i mercati avranno già messo sotto pressione l’Italia.
Questo perché nessun investitore, fiutando il rischio della possibilità di abbandono della moneta unica da parte dell’Italia, sarebbe disposto a mantenere in essere gli investimenti in Italia, sapendo che, dovendo essere ridenominati nella nuova lira per via del risultato referendario (se favorevole), con ogni probabilità (sicuramente), riceverebbe in cambio il controvalore del proprio investimento in una moneta svalutata rispetto all’euro.
Quindi, perché rischiare, si diranno gli investitori? E con un semplice clic sul pc dall’altra parte del mondo, venderebbero tutto il debito pubblico italiano (e non solo debito pubblico) che hanno in portafogli e abbandonerebbero l’Italia. Tenuto conto che per fare un referendum consultivo (quello che ha in mente Grillo, immagino) occorre almeno un paio di anni, e tenuto anche conto che il debito italiano in mani estere è, ad occhio e croce, circa 700 mld, cosa succederebbe se gli investitori dovessero abbandonare l’Italia?
Succederebbe che l’Italia, che deve rinnovare ogni anno circa 400 miliardi di euro di titoli di stato, non avrebbe più investitori disposti ad acquistare titoli di stato; quindi, farebbe default nel giro di qualche mese, ad essere ottimisti.
Ma prima di questo, si verificherebbe un evento che, fin dalle battute iniziali, comprometterebbe la stabilità finanziaria dell’Italia. Si da il caso che le banche italiane abbiano in portafogli poco più di 400 mld di titoli di stato.
Le vendite del debito italiano da parte degli investitori esteri metterebbero sotto pressione tutto il mercato obbligazionario, e, segnatamente, anche i titoli di stato, che perderebbero di valore. Per cui, considerando anche le condizioni di estrema fragilità da parte del sistema bancario italiano, le banche italiane salterebbero in aria nel giro di un nano secondo, facendo evaporare anche i risparmi degli italiani.
Giova appena ricordare che la crisi dello spread del 2011, iniziò con la Deutsche Bank che vendette appena una decina di miliardi di titoli di stato, a cui seguirono vendite più massicce da parte di altri investitori istituzionali esteri.
In questa ipotesi (cioè nel caso di referendum) i multipli sarebbero assai superiori, e per un lasso temporale molto lungo, visto che per preparare un referendum occorrono almeno un paio di anni. Durante il periodo di “gestazione” del referendum, il debito italiano sarebbe esposto a livelli crescenti di stress anche in ragione ai risultati dei sondaggi referendari. In lasso di tempo (assai lungo), l’Italia, essendo ancora nell’euro, non potrebbe neanche contare su una banca centrale nazionale che possa monetizzare il debito, sostituendosi agli investitori esteri.
Insomma, quella del referendum non è una via praticabile per poter uscire dall’euro.