Fonte: U!magazine
di Giuliana Sias – 11 marzo 2018
All’indomani delle elezioni politiche è iniziata la mosca cieca per i partiti che sono usciti vincitori dall’ultima tornata (aperti al dialogo con tutti, a caccia di una maggioranza) mentre la linea del grande sconfitto, il Partito Democratico, ricorda una vignetta di Altan. Il Pd esclude un accordo con i Cinque Stelle anche perchè “la base non lo vuole”. Quale base? La protesta su Twitter monta grazie a utenti fasulli mentre i voti nelle urne sono solo quelli delle èlite.
Il Movimento Cinque Stelle non è semplicemente il primo partito in Italia, è il partito che oggi detiene l’egemonia culturale nel nostro Paese ed è quindi riuscito ad imporre a tutti gli altri la propria concezione del mondo. Gli altri, insomma, un giorno si sono svegliati e senza rendersi conto pensavano e agivano come i propri avversari.
La prima considerazione è che in questi anni si è passati dal berlusconismo al grillismo senza passare dal via, ovvero dalla sinistra, e quindi dal Partito Democratico. Perché l’ideologia della rottamazione marchiata Pd è stata una parentesi insignificante, mai egemone. A cominciare dal termine utilizzato «mai entrato nel trend topic» della politica con la p maiuscola – si potrebbe dire, per farsi capire dai renziani – ma considerato in lungo e in largo almeno discutibile per la violenza che esprimeva. A dispetto della forza lessicale i termini della rivoluzione renziana si sono quindi rivelati debolissimi perché egemonia è il contrario di dominio. E’ direzione, non forza. E infatti quella cultura non è mai stata accolta nemmeno dalla generazione alla quale si rivolgeva ma è diventata semplicemente «l’ultima speranza di vincere» per quel che resta della generazione che avrebbe dovuto inghiottire (alle ultime elezioni, secondo Tecnè, nella fascia 18-30 anni il Pd raccoglie solo il 15% dei consensi, idem tra i 31-44enni, mentre nella fascia degli over 64 fa il pieno di voti conquistando il 27%).
Che fossero ormai i Cinque Stelle a detenere il dominio culturale è stato chiaro fin da quando la segreteria Renzi ha sostituito le sedi del partito con Twitter e i militanti in carne e ossa con follower virtuali. Fin da quando ha ridotto il quotidiano fondato da Antonio Gramsci ad una copia del blog di Beppe Grillo (e cioè un megafono del capo, un bollettino governativo, il mediocre organo di propaganda di quello che diventava sempre di più un non-partito). Ma se i Cinque Stelle è da lì che sono nati è perché il Movimento non aveva sedi, né case del popolo, né storia, né militanti, né dirigenti, né elettori, né un patrimonio culturale lungo cent’anni, né un giornale, né lettori, né diffusori, né una classe intellettuale organica. Mentre se il Pd è a questo che è arrivato è perché ha inseguito il proprio più diretto concorrente sulla strada della disintermediazione e della tabula rasa. E il problema non è tanto che alla fine gli elettori scelgono sempre l’originale, il punto è che chi insegue per definizione non dirige.
Questo grande errore – la rincorsa ai Cinque Stelle – sul piano politico si è concretizzato nel fatto che in soli cinque anni un terzo dei voti del Pd sono finiti nella pancia del Movimento, ma ad interessarci dovrebbe essere soprattutto la subalternità culturale del Partito Democratico, il cui ultimo devastante esempio è rappresentato dal fatto che il 90% del gruppo dirigente (i calcoli li ha fatti a spanne il ministro Orlando) pensa e agisce esattamente come i Cinque Stelle del 2013: «non ci stiamo». Ma non ci stiamo a far cosa? Non si sa, per saperlo bisognerebbe almeno avere uno straccio di idea, o di proposta, o di voglia di ascoltare le idee e le proposte degli altri. E «non ci stiamo a prescindere» sembrano dire sui social anche i militanti, come se si trattasse di un dispetto. Ma per fare un dispetto a chi? Ai Bersani o ai Di Maio, pensavano o pensano, imboccati ieri da Grillo e oggi da Renzi. Mentre il dispetto vero è agli elettori che si sono allontanati dal partito – che sono quelli più poveri – e ad una legge elettorale proporzionale (da annoverare tra i colpi di genio del renzismo e non attribuibile alla Casaleggio Associati) che prevederebbe proprio questo tipo di dialogo tra le forze in campo.
Ovviamente, comunque, quel che pensa la base è il riflesso di una classe dirigente piccola piccola alla quale, citando De André, viene da chiedere: «Continuerai a farti scegliere, o finalmente sceglierai?». Perché anche di fronte ad una sconfitta storica, sulla quale ancora non si è nemmeno riflettuto, la tentazione più forte di tutte è ricominciare la conta, la campagna acquisti, scatenando i follower su Twitter e abdicando, prima che qualcuno si accorga che il trono non c’è. Hanno scelto in 2 milioni alle primarie – che Renzi guidasse il partito. Ha scelto la maggioranza dei cittadini – che la riforma costituzionale non passasse. Ha scelto l’Italia – che il Pd stesse all’opposizione. Questa è la vera anima del populismo: addossare sul popolo l’intera responsabilità della politica, che si spaccia per una semplice commessa della società civile per giustificare tutti i suoi errori e spesso anche le proprie brutalità.
D’altra parte si fa fatica a individuare cosa abbia scelto Matteo Renzi in questi anni, talmente tanti sono i pretesti, i capri espiatori, le colpe degli altri. Solo per citare l’ultimo giro di j’accuse, Mattarella che non ha mandato il Paese alle urne quando si votava in Francia e in Germania e Minniti che è riuscito a perdere con un impresentabile a Pesaro, oppure il partito dei caminetti (che peraltro è il partito che Renzi ha costruito a sua immagine e somiglianza «azzerando» come aveva promesso la precedente classe dirigente).
Ma ancora più difficile è riuscire a individuare una scelta assunta dal segretario del Pd che sia stata capace di superare le resistenze del suo popolo. Per riuscire in questa, che è la vera impresa, occorre essere credibili e poter contare su una fiducia smisurata. Ma non nel senso che il tuo popolo è sempre e comunque perfettamente allineato alla tua guida, nel senso che qualcuno dice «Non sono d’accordo, ma mi fido».
Invece anche ora, di fronte ad una situazione fisiologicamente divisiva (perché la scelta di appoggiare un governo Di Maio non è semplice da compiere e questo è chiarissimo a tutti) manca la capacità di riunire – non intorno a se stessi ma attorno al proprio progetto politico – più forze possibile. Non si sforza, Renzi, di tenere insieme i fili e apre l’ennesimo televoto, con me o #senzadime (che diventa la parola d’ordine su Twitter). Non sceglie ma continua a farsi scegliere. E’ il grande dramma della politica moderna, la campagna elettorale permanente.
Titola l’Adnkronos, assieme a diversi altri media nazionali, che «il popolo Pd non ci sta»: la prova sarebbero «centinaia di tweet» ovvero «un fiume di dissenso». Cioè si conferma la tesi iniziale secondo cui il Movimento Cinque Stelle non è solo il primo partito, ma qualcosa di più perché detiene l’egemonia culturale, che precede il raggiungimento dell’egemonia politica in quanto la funzione egemonica deve essere ricoperta ben prima della presa di potere, «ben prima dell’andata al governo».
Pochi centinaia di hashtag diventano la voce di una comunità che fino a pochi anni fa si contava in milioni. Non era questo a marcare una netta differenza tra democratici e pentastellati? I 490 click per eleggere Di Maio contro il milione e duecento mila voti espressi ai gazebo per riconfermare Renzi alla guida del Pd? Contrordine compagni, tre ore nella classifica delle tendenze sui social network sono sufficienti ad archiviare l’eventualità di aprire un dialogo con i Cinque Stelle?
A proposito di questa questione – che è diventata la questione non perché lo abbia scelto la base ma per evitare di aprire un confronto con la base sui motivi del disastro elettorale – ci sono almeno due aspetti da considerare.
Il primo lo evidenza l’osservatorio Oohmm (Internet e dati per la democrazia online) che ha analizzato l’andamento del #senzadime: «questo hashtag è stato attivato il 6 marzo alle 13.42 e che in poco più di 23 ore, fino alle 12.45 del 7 marzo, è stato usato in 30.189 conversazioni da 7.915 profili. Ma almeno il 60% di conversazioni è stato twittato da circa il 10% dei profili e si tratta perlopiù di “utenti ad alta e bassa automazione”, ovvero political bots». Vale a dire account automizzati che si fingono “persone vere” (utenti naturali) «agganciando le discussioni più partecipate online e invadendo il dibattito pubblico su quell’argomento, arrivando frequentemente a determinare oltre la metà del flusso di conversazioni». Almeno, si potrebbe dire, i 490 click conquistati da Di Maio provenivano da account verificati.
In secondo luogo dire che «la base non capirebbe» un accordo con i Cinque Stelle, affermare che «la base è contraria», non sembra in nessun caso un’argomentazione molto convincente. Prima di tutto è profondamente sbagliato scambiare il voto di domenica per un «referendum» sul ruolo che il Pd dovrà rivestire nella prossima legislatura (a definirlo in questo modo è ancora una volta la minoranza del partito, per bocca di Andrea Orlando) perché è evidente che non è su questo che gli italiani si sono espressi. Ma se anche così fosse, questa tornata elettorale restituisce al Pd una fotografia della sua base profondamente cambiata e dunque prima di chiamarne in causa il fantasma i dirigenti del partito dovrebbero convocare se non proprio un’assemblea almeno una seduta spiritica.
Dice il Centro Italiano Studi Elettorali della LUISS che «per il Pd si registra una propensione al voto bassa nelle classi sociali basse e medie, e invece sensibilmente maggiore nella classe medio-alta, che quindi configura un confinamento di questo partito nella classe medio-alta». E ancora: «In sostanza il PD del 2018 sarebbe diventato il partito delle élite. Il che aiuterebbe a spiegare perché la parte d’Italia preoccupata dalla precarietà economica e agitata da paure identitarie si sia indirizzata – dando loro oltre il 50% dei voti – verso partiti come Movimento 5 Stelle e Lega».
Alla luce dell’analisi del Cise è meno sorprendente che il popolo democratico possa essere facilmente persuaso dalla linea del partito («Godiamoci il panorama») e decidere di appoggiarla senza la minima incertezza: è evidente che le classi meno colpite dalla crisi possano permettersi il baratro, uno stallo parlamentare, quel «facciamoli governare, così tutti capiranno che non sono capaci». Ma ascoltare solo la voce di chi ha tempo e speranze, non è forse esattamente il motivo per cui il Pd si ritrova morente all’opposizione?
Infine, nel gioco degli scacchi l’arrocco è proibito se la casa in cui il Re si trova, o la casa che deve attraversare, o la casa che deve occupare, è attaccata da uno o più pezzi dell’avversario. In questo caso, la casa della sinistra italiana è chiaramente contendibile da un pezzo del Movimento che quello spazio ha già almeno in parte occupato.
Arroccare, va da sè, è l’unica mossa non consentita.