di MINO DENTIZZI 24 novembre 2018
Le eccellenti posizioni nelle classifiche internazionali del Servizio Sanitario italiano si riferiscono essenzialmente a due classifiche: quella dell’Organizzazione Mondiale della Sanità e quella di Bloomberg. La prima pubblicata 18 anni fa (nel 2000) e imperniata su dati del 1997 è continuamente citata per magnificare un 2° posto che ha solamente una importanza storica. La seconda classifica di Bloomberg, che ci colloca al 4° posto, è costruita, invece, tenendo conto del rapporto tra speranza di vita alla nascita e spesa pro-capite e, quindi, sopravvaluta la qualità del nostro SSN sia perché la longevità dipende soprattutto da altre determinanti della salute, sia perché la riduzione della spesa sanitaria ci ha permesso di scalare progressivamente la classifica.
Un sistema più minuzioso e costantemente aggiornato per stimare un Servizio Sanitario Nazionale è quello dell’OCSE, che non elabora alcuna classifica, ma permette di identificare la posizione dei vari SSN rispetto a 76 indicatori con l’obiettivo di focalizzare per ogni nazione le criticità in modo da programmare interventi di miglioramento per uniformarsi agli standard mondiali.
Nelle classificazioni OCSE sono evidenti da un lato gli eccellenti risultati di salute del nostro Servizio Sanitario Nazionale con un’aspettativa di vita che si mantiene tra le più elevate e stili di vita tra i migliori dei 35 paesi analizzati, ma da un altro lato con dati meno buoni per quanto concerne l’organizzazione, la spesa (è sempre più a carico dei cittadini), i troppi parti con tagli cesarei e il poco personale in servizio.
I dati dell’Ocse avvalorano quanto da qualche tempo affermano gli operatori della sanità italiani: il nostro Servizio Sanitario sta subendo un grave sottofinanziamento. Complessivamente l’Italia nel 2017 ha avuto una spesa sanitaria inferiore alla media europea: l’8,9% del PIL contro il 9,6% (Francia, Germania e Belgio, per esempio, destinano a questo capitolo di spesa l’11,5, l’11,3% e 10,4% del PIL, mentre in Italia è solo dell’8,9%).
Va considerato, inoltre, che crescono costantemente da una parte la rinuncia alle cure e, dall’altra, la spesa privata, che nel periodo 2013-2017 è aumentata di poco meno del 10% toccando 37,3 miliardi. Per quanto riguarda la percentuale della spesa che esce direttamente dalle tasche dei cittadini, essa supera la media Ocse (Italia 23,6, Ocse 20,3) e colloca l?Italia all’undicesimo posto su 35 paesi considerati, dove al vertice c’è la Lettonia con il 45% (praticamente quasi la metà della spesa la pagano i cittadini) e ultima la Francia con il 9,8 per cento. Anche la spesa farmaceutica è sopra la media Ocse, ma questa volta non di moltissimo: 17,7% della spesa per la salute contro il 16,1 per cento.
La classifica riguardo al numero e al tipo di personale ci dice che l’Italia è di poco superiore alla media Ocse per numero di medici attivi (12,4 per 100.000 abitanti contro la media di 12,1), ma negli ultimi posti della graduatoria e di molto sotto la media Ocse per numero di infermieri: sono, infatti, 20,7 ogni 100.000 abitanti contro la media Ocse di 48,8 (meno della metà pertanto).
E’ lampante che se non si ribalta la tendenza alla riduzione della spesa degli ultimi anni, il perimetro dell’assistenza sanitaria si restringerà in maniera tale che saranno in pericolo i principi di universalità ed equità. Già attualmente l’accesso alle prestazioni sanitarie e la loro qualità mostrano considerevoli differenze tra Regione e Regione.
Per celebrare dignitosamente i 40 anni del SSN, si dovrebbero rimettere al primo posto l’equità e l’universalismo, i valori su cui è stato ideato nel 1978, per erogare in maniera uniforme in ogni Regione e all‘interno delle singole Regione i LEA, inclusi quelli socio-sanitari, offrire a tutti l’accesso alle innovazioni, rimodulare a standard europei il numero e la retribuzione dei professionisti sanitari e portare la spesa per prestazioni private al 15% come consigliato dall’Organizzazione Mondiale della Sanità.
Ma per fare questo il finanziamento pubblico annuale dovrebbe essere almeno di € 150 miliardi, in altre parole € 2.500 pro-capite, e non di 115 miliardi circa, come previsto per il 2019.