Circo Massimo

per Gian Franco Ferraris
Autore originale del testo: Fausto Anderlini

di Fausto Anderlini – 23 marzo 2019

Purtroppo io non ci fui, perchè uno strano destino che pilota la mia vita privata mi condanna a perdere ogni appuntamento topico capace di scolpire una agognata catarsi personale nella grandiosità di una biografia collettiva. Fu così per i funerali di Berlinguer, quando persi il treno, e in altre bizzarre situazioni. Con la conseguenza di un penoso imbarazzo ed un senso di colpa e goffa inadeguatezza che mi fa rammemorare ancor meglio quei giorni, e con una intensità lancinante. Del resto i grandi eventi alla TV si vedono meglio.

Il Circo Massimo fu l’ultimo episodio di una grande formazione politica di massa con caratteri classici nella storia nazionale. E un capolavoro della Cgil cofferatiana. Dopo la sconfitta del 2001 il centro sinistra versava in uno stato esangue ed era in preda alla litigiosità senza costrutto. I dirigenti dei Ds erano divisi fra loro e scherniti tutti insieme dai girotondi morettiani, i margheriti erano felici dei calci sferrati dall’Asinello, i dipietristi (veri rei della disfatta) si esercitavano proiettivamente contro la povera Rc. Le elezioni amministrative avevano assecondato il pessimo risultato delle politiche e la destra berlusconiana, iattante come mai e perciò dimentica dello smacco pensionistico del ’94, pensò bene di dare l’assalto all’art. 18.

Di fronte alla balbuzie del centro-sinistra, che nel mandato governativo si era inoltrato motu proprio sui sentieri della cd. ‘flessibilità’, Cofferati prese la decisione dirimente: tirare una riga. Di qua o di là. Burocrate sindacale dal carattere spigoloso e anafettivo ma dotato di una fulminante capacità di comprensione dell’agenda politica Cofferati capì il rilievo simbolico della questione, si liberò delle pastoie di Cisl e Uil e mise la Cgil alla testa di un grande movimento popolare di resistenza. Surrogando per via politica la debolezza contrattuale del sindacato nei luoghi di lavoro in stato di avanzata de-industrializzazione. E colmando ‘brevi manu’ il vuoto politico dove annaspava il centro-sinistra. Un movimento aggregante sul modello one issue. Un solo obiettivo valido per tutto e per tutti. Un passepartout. Attorno all’universalità di un diritto à la carte, ampiamente aggirato dalla scomposizione del mercato del lavoro. la Cgil adunò una congerie vastissima e composita di residui e frammenti sociali depositati dalla transizione post-fordista. Ceti vecchi e nuovi, taluni estranei al sindacato.Ex garantiti e mai garantiti. Città e territori. Gente. Facendogli fare ‘massa’. Con un effetto deterrente e promozionale straordinari. Da quel momento fu una sorta di cavalcata. Anche in occasione della seconda guerra del golfo formazioni di massa di grande rispetto dilagarono nelle città e nelle regioni. Il centro-sinistra si mise al seguito e andò a un incasso mai conosciuto nelle elezioni amministrative locali. Sino alle elezioni del 2006, vinte dall’Unione per un pugno di voti, pur toccando la maggioranza assoluta, proprio in causa del riemergere delle stesse incertezze programmatiche. Una coazione a ripetere.

Il Pd nasce nel 2008 sulla base del fallimento del secondo governo Prodi. L’idea di spinta è condivisibile: superare la frammentarietà della forma politica ‘unionista’ portando a unificazione le culture storiche riformiste. Ma dentro di sè il nuovo partito d’impronta veltroniana cela una visione ben più pericolosa. Un baco sociale. Cioè l’idea che per andare ‘oltre’ occorra liberarsi della zavorra di quei residui per andare incontro ai ‘nuovi’ ceti scaturiti nel neo-liberismo. Il senso frustrante di una sinistra forte ma minoritaria viene sublimato in una aspettativa maggioritaria dove ogni corpo sociale concreto viene liquefatto. Il paradosso distruttivo non è l’andare al centro alla ricerca di nuove e più vaste alleanze, come insegna la grammatica togliattiana. Esso sta piuttosto nell’idea, per rendersi credibili, di scalcinare da sè il proprio blocco sociale, con una vis distruttiva che non ha risparmiato neppure i suoi sedimenti culturali e mnemonici. Una follia che il renzismo ha portato a compimento, non per caso finalizzando quel programma che non era riuscito a Berlusconi e alla destra. L’abolizione dell’art. 18 e lo scalpo del sindacato. Andando persino più in là di quanto pensavano Sacconi, Ichino e varia compagnia. Il risultato è stata l’umiliazione materiale e simbolica (cosa ancor più granve) del blocco sociale storico, la frustrazione dei ceti subalterni di nuova generazione, la spaccatura delle città dai territori. La rinuncia alla ‘formazione sociale di massa’. Il mondo liquido è diventato un opaco liquame. Infine unificato, completandosi l’eterogenesi, dalla destra.

E adesso quel pensiero nefasto e pseudo-nuovista te lo ritrovi qui come un dato di fatto neanche meritevole di uno straccio di storytelling. Come se niente fosse stato.

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