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Articolo tratto dal Granello di Sabbia n. 29 di Maggio – Giugno 2017: “Non è un Paese per giovani”
Pubblichiamo cinque racconti di una rubrica sulla precarietà lavorativa dei giovani aperta dal sito delle Camere del lavoro autonomo e precario (CLAP).
Per chi volesse prendere contatto, l’indirizzo è: info@clap-info.net.
Primo racconto
Finale di Champions League: non è tutto oro quel che luccica
“Ah ma hai lavorato a San Siro per la finale UEFA? Che figata!” NO! FIGATAUNCAZZO. “Beata te!” NO! Non eravamo beate nessuna di noi 200 hostess. Che da mezzogiorno ci siamo ritrovate là, sotto il sole a fare appello dopo appello, fila dopo fila, a timbrare il pass una alla volta per ogni spostamento. Poi quelle mezz’ore di attesa che si fanno infinite, aspettare che il personale UEFA ti venga a prendere per mostrarti l’area di lavoro, sentirti spronata a ingozzare qualunque snack ti sei portato dietro, perché, “ricordati che rimangerai solo alle 21!”.
Facciamo il briefing, il tutto sotto la mite temperatura del sole che batte a Milano un 28 Maggio alle 14.00. Un ambaradam clamoroso per indicarci dove sono i bagni, dove i ‘clienti’ avrebbero potuto caricare l’iphone e assicurarsi che avessimo memorizzato la password del wifi qualora ci fosse stato chiesto.
Nel frattempo, al contrario di quanto avevo temuto, ho conosciuto delle ragazze davvero in gamba, con cui sono entrata in sintonia nel giro di poco. Alle 16 ci riportano nel camerino e inizia di nuovo il delirio di file, prima per passare il cartellino, poi fila per firmare che hai ritirato l’abito, poi fila per prender la tua taglia… e mentre sei lì che ti cambi nel giro di 5 minuti ti ricordi di quelle 20 email che ti hanno mandato la settimana prima per ricordarti di quanto devi essere impeccabile davanti al ‘cliente’. Allora racimoli un po’ di trucco e un po’ cerchi, non so come, di farti passare quell’aria sudaticcia sfinita. E stai attenta al vestito, che per quanto sintetico e brutto a te possa sembrare, se gli succedesse qualcosa ti toccherebbe pagare una bella penale di 100 euro.
“Andate in bagno adesso, la prossima occasione è all’ora di cena!” Altra fila. “Ma acqua ce ne daranno?” Certo, ci mancherebbe; ci distribuiscono bottiglie d’acqua e ci invitano a portarcele con noi presso le nostre postazioni. Peccato che le bottiglie erano di vetro e siamo state obbligate a lasciarle fuori dall’area dello stadio. E allora, ciao acqua!
Alle ore 17 siamo pronte a prendere posto e a ricevere ulteriori indicazioni di come essere di massimo gradimento per gli-ospiti-importanti. Così cerchi di fare un esercizio zen e dimenticarti di esser sui tacchi, trovi il sorriso gentile che è in te e dalle 17.45 inizi a dare il benvenuto. “Hello”, “Hi”, “”Welcome”… qualcuno ti fotografa, qualcuno vuole farsi la foto con te, altri non ti cagano minimamente e continuano a fissare lo schermo del proprio cellulare. Vedi passare gente-importante-coi-soldi e fa uno strano effetto. Stai lì e sorridi. Dopo la quarta birra qualcuno quando passa ti fa l’occhiolino o ti guarda il nome stampato sul pass e se la ride… Tu sorridi. Dopo un’ora facciamo cambio postazione e mi metto appena fuori dall’entrata, sotto il sole che per quanto siano le 18, ci tiene a farsi sentire. Anche la sete si fa sentire, ma non si può bere davanti al ‘cliente’. Mi ripeto “resisti, ormai manca poco alla pausa”. Continuo a sorridere e a dare il benvenuto.
Passano i principi-di-qualche-posto, seguiti da due tecnici muniti di una cinepresa più grossa di loro e fotocamere varie. L’evento non prevede nessuna area per fumatori, ci è stato ribadito più volte durante le istruzioni, ma quando la-gente-importante se la accende con nonchalance, nessuno gli dice niente. Loro possono. La sete mi sta asciugando, a malapena riesco a ripetere “Hi”; nel frattempo vedo succhi che girano sui vassoi, cocktail d’ogni tipo, vorrei tanto prender dalla mano del bambino che passa quel bicchiere di cocacola col limone…
Ci riscambiamo posto e finalmente sono di nuovo all’ombra. Non ce la faccio più a non bere, vado in cucina e chiedo un bicchier d’acqua; torno al mio posto. Ma ormai il mio corpo ne ha risentito abbastanza e mentre mi ripeto “resisti gli ultimi minuti”, mi sento sudare freddo, mi aggrappo al braccio della responsabile che passava in quel momento e crollo per terra. Mi portano acqua per farmi ripigliare, mentre mi spostano dietro una parete col logo Champions League Final 2016, di modo da non creare troppo scalpore. Sono le 20 e per fortuna la-gente-importante sta svuotando lo stand e si sta avviando dentro lo Stadio.
Ecco, la pausa ha inizio. “Dai, ora nella pausa ti riprendi, bevi un po’, mangi e vedrai che stai meglio”. Non avete capito: mi viene da vomitare all’idea di cibo; come pensate che regga altre due ore così? Alla fine devo dire che sono stati gentili, mi hanno lasciato andare a casa, anche senza saper bene come sarei tornata dato che neanche loro erano al corrente della situazione metro/taxi; ovvero tutto sottosopra.
Ecco cosa c’era dietro quei sorrisi e quella gentilezza che vi accoglieva. Non ce l’ho in particolare con gli organizzatori di ieri, che come noi seguivano ordini di altrettanti ordini ed erano lì sfiniti come noi, a farsi il culo sicuramente da prima di mezzogiorno. Ce l’ho con questa mentalità degli eventi perbene e impeccabili, per cui pur di renderlo al top per la-gente-importante si prosciugano le energie di chi ci lavora. Ce l’ho con questa mentalità del cazzo per cui agli eventi di uomini-d’affari ci devono essere belle ragazze soprammobile. Sì, perché in quel momento hai la sensazione di essere un soprammobile, che se non beve e non sente la necessità di andare in bagno è meglio. Ce l’ho con la finale di Champions League, perché scoprire cosa c’è dietro tale partita mi ha lasciato un retrogusto amaro del calcio.
E allora continuerò a guardarmi le partite dal baretto dietro casa, che forse è meglio.
Secondo racconto
Nino, Nino, Nino”: medici precari in ambulanza
Non sempre riesco a pensare al mio lavoro con sarcasmo e l’ironia, spesso prevale la rabbia, se non lo sbigottimento o l’amarezza. Gli stessi sentimenti che leggo quando nei loro volti quando ne parlo con amici e familiari. Non solo perché empatizzano evidentemente con la mia condizione di lavoro, ma perché quello che io faccio ha direttamente a che fare con la salute di tutti.
Sono un medico, precario, di 28 anni, attualmente impiegato part-time presso un call center sanitario. Non sono riuscito ad accedere al concorso di specializzazione o a quello per MMG del Lazio nonostante la mia volontà: “Spiacenti, posti esauriti”. “L’anno prossimo sarai più fortunato”. Lo sapete che quest’anno le borse di specializzazione nazionale sono 6.133, a fronte di una richiesta di quasi 10000 medici precari, disoccupati, o che hanno bisogno di un nuovo titolo? Una forbice che aumenta vertiginosamente anno dopo anno con il calo degli investimenti. Lo sapete che la regione Lazio – appena uscita dal commissariamento della Sanità – garantisce per quest’anno 70 posti di medicina generale? Tra l’altro, senza riuscire ad aumentare minimamente la cifra di anno in anno, andando controcorrente rispetto ad altre regioni (per esempio in Puglia sono previsti 30 nuovi posti per triennio 2017-2020, per un totale 100 posti).
Vale la pena sottolineare come il Lazio è la seconda regione d’Italia per numero di abitanti, e in Italia è prima nella classifica europea “medici over 55”, con una rispettosissima percentuale del 49% (dati 2014). In pratica, un medico su due andrà in pensione in dieci anni o meno, ma non ce ne saranno abbastanza per rimpiazzarli. Un trend tutto italiano, ma almeno i conti sono “finalmente in ordine”. Questo per dire che mentre ci rimbambiscono di retorica sul merito e sul numero chiuso la nostra sanità avrebbe bisogno eccome di nuovi medici.
Ho deciso di fare questo mestiere, pur conoscendo le condizioni di lavoro negli ospedali da tirocinante: le angherie dei baroni, i pazienti abbandonati nelle corsie, le nevrosi degli operatori sanitari costretti a gestire 30 letti invece di 6. Siamo abituati all’idea che interi reparti vadano avanti grazie al lavoro gratuito di studenti e tirocinanti, utilizzati in corsia per anche 14 ore al giorno. Ma come fate a chiamarlo “lavoro”, se non c’è retribuzione? Questo è il quadro dei policlinici universitari nella capitale, che ho visto con i miei occhi: macchine lente, ingolfate dalla burocrazia senza il personale per smaltirla (assistenti sociali, OSS, amministratori e segretari, cuochi, bed manager, dirigenti), rallentate dai pochi fondi a disposizione per acquisto di materiali farmaceutici e deperibili (penso alle radiologie, per non parlare delle mense), tenute in piedi da un esercito di studenti, infermieri e medici specializzandi, disposti a fare enormi sacrifici per il benessere dei pazienti.
In questo scenario chi si avvantaggia sono evidentemente le aziende sanitarie private, chiamate in soccorso dal pubblico e da questo pagate profumatamente. Dai trasporti in ambulanza, alle gare sportive, a grandi eventi ludico-culturali passando per poliambulatori specializzati o cliniche “misericordiose” (solo nel nome, mai nel prezzo) fino ad arrivare al 118, questo mare magnum di aziende, associazioni, onlus e protezioni civili gestisce una fetta sempre maggiore del servizio sanitario e di quello di emergenza. Un mondo per il quale la maggior parte dei medici freschi di laurea passa almeno qualche mese, in attesa magari del concorso di specializzazione.
È capitato anche a me. Il mio primo incarico è stato su un’ambulanza durante una gara sportiva:risultavo volontario della protezione civile e i soldi mi venivano corrisposti in nero. Se il servizio di 118 viene ormai in gran parte esternalizzato, con conseguenze catastrofiche anche per i diritti di chi lavora (medici, infermieri e autisti), vi è poi un mondo sommerso di prestazioni mediche sul campo per eventi e simili, che viene prestato dalla Croce Rossa o da qualche Misericordia, in cui le condizioni (come ho visto sulla mia pelle) sono ancora peggiori.
Aziende private che sarebbero strettamente vincolate a seguire e rispettare gli standard europei di sicurezza e professionalità, oltre a quelli di efficienza. Il condizionale è d’obbligo. Ne risulta che per ogni chiamata al centralino del 118 da parte del cittadino, non si sa quale tipo di mezzo possa intervenire, con quale personale a bordo e con che attrezzature; per non parlare del livello di stanchezza e stress al quale moltissimi operatori sono sottoposti, con ferie negate e turni allungati.
La mia successiva esperienza (dopo quella in cui figuravo da volontario), è avvenuta con una società di emergenza e ambulanze, abbastanza importante su Roma, e con un certo grado di anzianità. Lo scorso autunno riceva una telefonata nella quale mi viene proposta una postazione, in centro a Roma. Una voce cordiale dall’altro capo del telefono dice “tre ore di lavoro, paga in linea con il tariffario nazionale, fatti trovare in sede un’ora prima” (N.B. il tempo di attesa per partire dalla sede e andare in postazione non è MAI considerato tempo retribuibile, anche se spesso chiedono di arrivare un’ora o un’ora e mezzo prima). Accetto, penso che tutto sommato è un buon affare, una società grande, sembra farsi più vicina una certa stabilità economica. Di lì a poco, arriva un nuovo incarico: medicheria presso lo stadio Olimpico durante una partita di calcio, anche qui con un notevole orario di anticipo.
Mi reco in sede all’orario stabilito, dove insieme ad altri colleghi abbiamo atteso che tornassero le ambulanze da trasporti accordati all’ultimo minuto. Una pratica, diffusa questa, che vale la pena raccontare: pur di non perdere quei soldi del trasporto privato, si caricano di lavoro e responsabilità autisti e infermieri che sono costretti a fare avanti e indietro per Roma, nella metà del tempo che sarebbe ragionevole, per poi tornare in sede e svolgere il lavoro per il quale erano stati contattati. “Non ti sta bene? a mai più rivederci” è la risposta alle richieste di alcuni operatori sanitari di fronte al carico di lavoro sproporzionato. Del resto, il costo medio su Roma di affitto ambulanze private è compreso fra 1€ e 1,5€ a chilometro (i dati sono un po’ vecchiotti e si riferiscono 2013 ma non credo per esperienza sia cambiato molto), a cui vanno addizionate eventuali spese di pedaggio – se previsto un tragitto in autostrada – e in più un’altra percentuale di “buonuscita” per il servizio concesso (spesso per autisti e infermieri si trasformano in una bottiglia di vino…).
Ma torniamo allo stadio. In ritardo – e quindi costretti a correre in sirena – in sovrannumero per il mezzo (si scoprirà una volta allo stadio che manca un medico, e rimarrà scoperta una medicheria: chi ci mandiamo in due medicherie contemporaneamente? Indovinate voi) e con il serbatoio quasi vuoto, giungiamo all’Olimpico. Tra una chiacchiera e l’altra con gli altri operatori, scopro casualmente che il pagamento, menzionato telefonicamente di 70€ – ben al di sotto del tariffario nazionale rispetto alle ore di lavoro, sia per medici che per infermieri – è corrisposto non in valuta corrente ma in buoni benzina. Il commento amaro dell’autista vale più di mille considerazioni: “Dottò, ma secondo lei me magno er kerosene a colazione?”.
L’ulteriore sorpresa arriva quando quando mi consegnano un borsone di farmaci di cui un quarto è scaduto. Finalmente ho tempo di fare un giro in ambulanza per capire cosa abbiamo a disposizione ed arriva la sconvolgente rivelazione: c‘è solo una bombola di ossigeno quasi vuota, e un defibrillatore manuale, una cosa che non ho mai visto neanche nei libri di storia perché andrebbero utilizzati solo i semiautomatici. Di fronte al mio nervosismo, l’autista mi fa notare forse la cosa più grave di tutte: “Dottò, non ci sta manco una mascherina per l’ossigeno da attaccare alla bombola. Come glielo diamo, se serve, quel poco di ossigeno che abbiamo? Nel …?”. In quel momento penso come prima cosa “sia benedetta l’ironia romana, almeno non commetto una strage”, per poi trasformarmi in un barile di dinamite pronto ad esplodere. Chiamo in centrale per denunciare queste gravissime carenze, minacciando una mia dimissione immediata se non fossero arrivati dei materiali sanitari idonei. Ricevo molte umili scuse e promesse di ricevere quanto prima nuovi supporti: siamo a maggio 2017, sto ancora aspettando quei supporti.
Anche qui, vale la pensa spendere due parole sull’accaduto, con il senno del poi. Da parte mia è stato un grave atto di inesperienza uscire dalla centrale senza controllare il mezzo, fidandomi delle asserzioni dell’amministratore il quale mi rassicurava: “Tranquillo doc, allo stadio ci daranno il borsone con tutti i materiali”. Scoprirò solo successivamente, sul luogo, che neanche l’infermiere aveva avuto tempo di controllare la check-list, a causa dei tempi. Credo sia bene sottolineare quanto poteva costare cara questa inottemperanza dei codici di sicurezza e forniture sui mezzi di soccorso da parte delle aziende incaricate: nel malaugurato caso fosse successo qualcosa, ci saremmo trovati senza mascherina per fornire ossigeno, senza un rianimatore semiautomatico e con il mezzo fermo a causa del poco carburante (se penso che poi pagano in buoni benzina…). Vi posso assicurare che controllo in modo maniacale ogni ambulanza sulla quale metto piede e, cosa ben più importante, non ne autorizzo l’uscita dalla centrale se sprovvista degli idonei materiali e supporti di soccorso.
La settimana successiva, durante una telefonata con l’amministrazione per capire quando e come avrei dovuto presentare le ricevute di pagamento, viene casualmente fuori che l’azienda non fattura e non paga i dipendenti senza la partita Iva. Mi cascano le braccia, ripensando alle telefonate per gli incarichi accettati senza mai un accenno a questa pratica. Così, dal 2017, entro ufficialmente a far parte dell’esercito giovanile a partita Iva sotto i 35 anni a regime forfettario.
Dopo poco tempo, costretto a lavorare in condizioni inaccettabili, ho chiuso definitivamente la mia collaborazione con l’azienda. Per inciso, il piano tariffario nazionale non è stato consultato neanche con il binocolo.
Terzo racconto
Più sorrisi? Più soldi! Un mese di lavoro gratuito per le campagne umanitarie
Come altre migliaia di giovani ormai quasi arrivati alla fine del proprio percorso universitario, tartassata da una certa ansia per il presente o futuro prossimo, verso metà settembre scorso decido di cercare lavoro come promoter, hostess, ragazza immagine, barista, cameriera, babysitter, dogsitter, badante… insomma qualunque cosa che possa assicurarmi una minima entrata capace di regalarmi un po’ di autonomia, per intendersi dunque riuscire a permettersi l’affitto di una stanza (anche doppia) a Roma, pagare le ultime tasse stellari all’università, comprarsi da mangiare, poter qualche volta acquistare delle medicine o l’abbonamento del trasporto pubblico, insomma tutti quei desideri da eterna mammona choosy tipici della mia generazione.
Mi imbatto quasi subito in un annuncio dell’agenzia CP Europe che recita così :
“Opportunità di inserimento immediato! Per la sede di Roma selezioniamo 2 risorse a completamento del Team dedicato alla gestione e copertura di importanti campagne promozionali. Valutiamo cv dei candidati liberi da subito e domiciliati a Roma, con facilità al contatto con il pubblico. Si garantisce continuità lavorativa, regolare inquadramento contrattuale e retribuzione puntuale con cadenza mensile.”
Cos’è CP Europe?
Dal proprio sito (http://www.cpeuropeltd.com/) l’agenzia si descrive come “una squadra giovane e dinamica” esperta in “Marketing Diretto e della Promozione, lavorando da sempre con impegno e passione per fornire ai nostri Clienti le migliori soluzioni ed il più alto servizio clienti. Il nostro obiettivo è di sostenere la crescita delle aziende clienti attraverso azioni mirate di Brand Awareness e Campagne face-to-face volte ad aumentare la diffusione dei marchi aziendali e il loro parco clienti.” Cp Europe fa parte, insieme a circa una quindicina di altre agenzie, della tanto discussa Appco Group Italia (www.appcogroup.it), “una delle principali società di vendita e marketing face to face al mondo, sia umanitario che commerciale, con più di 800 sedi in 27 paesi” (http://www.appcogroup.it/about-us) che a sua volta fa parte del mastodontico Cobra Group, una multinazionale che sostiene, tra molti altri, marchi come la McLaren Gt (http://www.cobragroup.com/appco-group), primi birividini sulla schiena.
Il colloquio
Mando il mio aggiornatissimo CV e subito vengo ricontattata per un colloquio nella sede dell’agenzia, in cui mi si propone di lavorare come dialogatrice umanitaria, altisonante nome che indica il lavoro di promozione per strada o in eventi di campagne umanitarie di Onlus quali Save The Children, Telethon e WWF (le tre organizzazioni citate nel mio contratto di lavoro) per cui procacciare sempre nuovi sostenitori pronti a donare una piccola o grande somma mensile per le più svariate questioni, per citarne solo alcune si va dal sostegno a distanza (la vecchia adozione a distanza) passando per i progetti di aiuto alle vittime di calamità naturali, come il recente terremoto che ha colpito il centro Italia, fino alla difesa dei diritti degli animali.
La cosa mi stuzzica, e rispolvero in sede di colloquio la mia antica passione per le tematiche umanitarie, le azioni spettacolari contro le baleniere, la pace nel mondo… sembra funzionare. Mi viene detto che si fa lavoro di squadra, anzi di team, che “non andremo mai a lavorare nelle zone brutte di Roma dove ci sono i disoccupati, o le badanti, o gli stranieri” ma anzi andremo in quartieri così detti qualificati, come Prati, l’Eur, la Garbatella, Talenti, i Parioli e in catene e spazi commerciali a loro volta di un certo livello, quali Ikea, Elite, Auchan, Metro, Carrefour, o infine in palestre in cui l’abbonamento mensile è qualificato, circoli canottieri, fiere…
Mi viene anche assicurato che ci sono grandi opportunità di crescita personale, dato che l’agenzia si basa su rigorosi principi meritocratici e nei momenti, in realtà nelle ore, di formazione si lavora su di te, in più ci sono bonus, premi e provvigioni a seconda di quante adesioni si riescono a totalizzare, e che si può scegliere liberamente quando e quanto lavorare, in totale libertà, il tutto condito da grandi e promettenti sorrisi, coccole che si fanno ancora più larghe quando chiedo se c’è uno stipendio fisso, tanto che mi viene risposto “Sì, c’è un fisso, ma devi fare qualcosa per averlo”. Decido di non curarmi di questo piccolo problema di comunicazione, e firmo tutta contenta il mio contratto di lavoro. Dimenticavo, mi viene anche spiegato che tale contratto, che non ha un nome tranne un vago “incaricato alle vendite” è totalmente svincolato da limiti di qualsiasi tipo, e che dunque posso decidere di andarmene quando voglio senza ragione, e anche l’agenzia può mandarmi via quando vuole e senza motivo. In perfetto stile Jobs Act.
Come e con chi lavoro?
I miei colleghi, di pari livello o al massimo leader, sono quasi tutti entrati da massimo due o tre settimane e hanno dai 20 ai 28 anni circa, quasi tutti studenti universitari, tra chi non è riuscito ad entrare nelle facoltà a numero chiuso, chi ha bisogno di un secondo/terzo lavoro, chi si è stufato di dare ripetizioni, chi spera di costruirsi una vera indipendenza e dunque vorrebbe crescere, chi sta capendo, come me, se è portato o no per questo lavoro. Se all’inizio del mese eravamo una decina, adesso della mia vecchia squadra siamo rimasti in due o tre, gli altri se ne sono tutti andati, prontamente sostituiti da altri, più giovani, più smart, più disposti a farsi sfruttare a gratis. E i sopravvissuti iniziano ad avere dei dubbi …
La mia settimana lavorativa si divide in due parti, i primi due/tre giorni a loro volta suddivisi in mattine di formazione continua in ufficio sulle tecniche di marketing da usare sul campo, e in pomeriggi di street, dunque lavoro in giro per le strade di Roma in cerca di nuovi sostenitori, gli ultimi giorni della settimana invece sono da passare in evento, cioè in stand situati in luoghi di aggregazione di un certo tipo di umanità, quella così detta qualificata, dunque che può permettersi di dedicare una minima o grande donazione mensile o annua in beneficenza.
E’ consigliabile lavorare anche e soprattutto nei fine settimana, nei giorni di festa nazionale, durante le pause pranzo di chi stacca da lavoro, lavori chiaramente non “umili” ma anch’essi qualificati come grandi avvocati, topmanager, medici, e nelle ore serali, perché c’è gente in giro, così che di fatto i due turni (non definiti da contratto ma sanciti nella realtà) della mattina (generalmente dalle 8 e trenta alle 14 e trenta) e del pomeriggio (dalle 14 e trenta alle 20 e trenta) vengono spezzati così che si possa lavorare sempre, in questo modo ad esempio si arriverà in ufficio alle 11 e trenta per la formazione il lunedì mattina, ma meglio arrivare prima per la colazione di lavoro, alle volte alle 10 o addirittura alle 9 del mattino, momento informale ma perfettamente inserito nella dinamica lavorativa per cui se non ti presenti perché non puoi, non vuoi, non ti piace il caffè, sei a lezione, vuoi dormire, sei in ritardo .. è peggio per te, e dovrai vivere con la costante ansia di non aver fatto abbastanza per te stesso; la formazione delle 11 e trenta finisce più o meno per le 13 e poi si vola tutti insieme sul campo, dove a discrezione del leader, una figura che con il passare dei giorni mi ricorda sempre più quella del capo maggiordomo nero del film Django, si farà una pausa pranzo (a spese di noi dialogatori), si capirà dove e come stare in strada, come interfacciarsi con i passanti, tutti possibili sostenitori.
Da subito mi rendo conto che molti dei miei superiori guardano chi hanno intorno pronunciando frasi del tipo “Ah qui vedo i dollari”, identificando chiunque come possibile fonte di profitto, niente di nuovo, siamo pur sempre nel ramo delle vendite, del marketing e soprattutto delle provvigioni, dunque se vendi guadagni, se non vendi stai a zero, con in più un leggero ma martellante senso di inadeguatezza, misto a senso di colpa per cui “se oggi hai fatto zero, è colpa tua”, “tu lavori per te stesso e per i tuoi obiettivi e se non li raggiungi è perché non hai seguito bene il sistema”.
Cos’è il sistema?
Il sistema è una sorta di carta comportamentale a cui adeguarsi per riuscire a raggiungere i “propri obiettivi”, che poi sono quelli dell’azienda, del tuo owner, del tuo team leader. Si deve credere nel sistema, essere convincenti, essere entusiasti e pieni di energia, anche se stai da ore, forse da settimane sotto la pioggia, non pagato, e continui a ripeterti che c’è chi ce l’ha fatta, c’è chi adesso ha una sua agenzia, nella continua promessa che dopo una gavetta di uno o due anni avrai un buon ritorno, sempre però se mantieni un atteggiamento positivo, se ci metti il 100% dell’impegno, se instauri con chi hai di fronte un rapporto quasi amicale. Se hai la giusta mentalità. Sono tutti così felici e sorridenti che fin dal primo giorno mi sembra di essere circondata da persone strafatte di qualche sostanza a me sconosciuta, che trasforma la realtà in un presente distopico luccicante e inquietante insieme. Partecipo anche al momento massimo di entusiasmo collettivo, un’intera giornata di Rally, cioè una convention nazionale della multinazionale AppCo organizzata all’auditorium dell’Eur, in cui vengono premiati i migliori dialogatori, team leader, vice owner e così via … tra battute patriottiche, tricolori, luoghi asettici, clima testosteronico e, dimenticavo, brevi cenni ai milioni raccolti in beneficenza.
Le tecniche di marketing
I dialogatori si distiguono grazie a pettorine colorate, depliants, volantini e pitch, cioè schede esplicative e veloci delle varie campagne portate avanti dalle Onlus a livello nazionale, tanto che presto anche io inizierò a pronunciare frasi del tipo “Quante persone hai pitchato?”, il gruppo Whatsapp del mio ufficio mutuerà nome da “Gli Incredibili” a “i Gladiatori” a “Veni, Vidi, Pitchi”.
In più, al solo scopo di far toccare con mano qualcosa di concreto al potenziale sostenitore ci vengono anche dati in dotazione delle provette di acqua sporca a simulare l’acqua bevuta da poveri bambini africani non meglio specificati, pancia gonfia e mosche svolazzanti, o delle vecchie confezioni di plumpynet, cibo ipercalorico che viene dato ai bambini denutriti di cui sopra, in perfetto stile neo coloniale.
La stanza in cui si svolge la formazione è tappezzata da schemi e riquadri che trattano delle buone norme del dialogatore, una sorta di carta da seguire per raggiungere il successo e crescere all’interno dell’azienda, scalando in poche e in apparenza facili mosse la piramide alimentare dell’agenzia, della multinazionale, ma che dico, del mondo! Ad esempio, chi riesce a totalizzare cinque adesioni in una settimana diviene leader, posizione da cui non si può essere svalutati, e ha quindi diritto a dirigere un team sia nella formazione delle nuove leve sia nel lavoro sul campo e così fino alle più alte cariche dell’agenzia, in breve tempo, mi viene raccontato in modo apologetico, si può avanzare da dialogatore semplice a leader, passando poi per team leader, assistant owner e infine owner, il capo dei capi, a pieni poteri capace di aprire una propria agenzia, con il finanziamento della stessa AppCo Group, la multinazionale a cui fa riferimento la mia agenzia, insieme ad altre 16 sparse in tutta Italia. Peccato però che l’investimento iniziale richiesto nell’aprire una propria agenzia sia elevato e spesso ci si debba indebitare, infatti è accaduto spesso che nuove agenzie dovessero dichiarare fallimento.
Il quadro si infittisce, ancor di più se a chiudere il cerchio si aggiunge la percentuale che chi riesce a scalare la piramide lavorativa, guadagna sulle spalle dei sottoposti, cioè di noi dialogatori, in succosa salsa capitalista o se vogliamo in odor di multilevel, sistema ad oggi illegale.
(qui un breve approfondimento sullo stesso sistema )
Meritarsi il debito
In più come se non bastasse a completare il quadro idilliaco di questo nuovo sfruttamento selvaggio legalizzato presentato come beneficenza da un lato e vittoria assoluta del merito dall’altro, ci sono tre semplici righe sul mio contratto di lavoro che spiegano che qualora riuscissi a strappare una donazione a qualcuno, la provvigione a cui avrei diritto, che è la mia unica fonte di guadagno, potrebbe essermi stornata dallo stipendio se tale sostenitore decide, senza limiti di tempo, di interrompere la donazione.
In buona sostanza dunque potrei passare intere ore, giornate, mesi a lavorare gratis, e seppur riuscissi a guadagnare qualcosa potrei benissimo perderlo in un futuro non ben definito, ritrovandomi magari in debito con l’agenzia (come viene raccontato anche qui www.you-ng.it/2016/03/17/il-no-profit-che-si-approfit-lo-scandalo-della-raccolta-fondi-solidale/)
Alla richiesta di chiarimento che rivolgo a tal proposito al Vice Owner di Appco, durante una delle famose colazioni di lavoro, mi viene risposto con una amabile metafora che paragona il momento della donazione, della pitch, a un primo appuntamento per cui non sai mai se chi hai di fronte è un mascalzone o una brava persona, dunque mi viene consigliato di basarmi sulle mie percezioni.
Il problema non è la caduta…
Atterrando e risvegliandomi da questo incubo vedo infine che cosa si nasconde dietro alle grandi campagne umanitarie delle Onlus, tra promesse continue di possibili grandi guadagni e crescita lavorativa indorati da una patina zuccherosa e affettuosa fatta di battute goliardiche e false promesse.
La realtà invece è ben diversa, e racconta di migliaia di giovani che, come me, sottostanno a turni massacranti, ore buttate in qualunque condizione atmosferica, in qualunque parte della città, sempre a proprie spese, con sorrisi sempre più forzati, senza la seppur minima garanzia di reddito o diritti, con la minaccia continua di essere mandati via, o peggio andarsene spontaneamente, perché tanto non si è un costo per nessuno e chiunque potrebbe prendere il tuo posto. Mai dimettersi è stato più dolce.
Quarto racconto
Colloquio per Ryanair
A giudicare dagli annunci nei portali per la ricerca di lavoro, sembra che sul mercato esistano solo tre tipi di occupazioni disponibili: sistemista Java, dialogatore e operatore call-center. Se non conosci Java e hai zero voglia di vendere il tuo tempo per delle chiacchiere con degli sconosciuti, al telefono o dal vivo, la ricerca pare senza possibili sbocchi. Aggiungi che la percentuale di risposta ai curriculum inviati rasenta lo zero e che la laurea e/o i master di cui sei in possesso non sono particolarmente quotati nella borsa degli skills… il quadro si complica parecchio.
Perciò, quando qualcuno ha finalmente risposto alla mia “iscrizione a un’offerta di lavoro” ho provato una strana sensazione, di affetto quasi. Ho pensato di dover ricambiare, presentandomi al colloquio. Ho detto “qualcuno”, ma in realtà avrei dovuto dire “qualcosa”: un algoritmo, un dispositivo automatico di risposta alle mail, un bot del portale. Non posso saperlo, ma l’invito a comparire in un hotel nella zona di Tor Vergata è arrivato pochi millesimi di secondo dopo l’invio della mia iscrizione. Ciò esclude la mediazione umana e, dunque, una seppur minima selezione del curriculum, che avrebbe potuto equivalere a qualche decimale in più nella stima probabilistica di un’assunzione .
Il lavoro non era proprio quello dei miei sogni, ma provavo a vederci delle sfumature positive: la possibilità di viaggiare, avere un contratto decente, ricevere uno stipendio non troppo basso. Ovviamente, mi sbagliavo.
Nell’atrio dell’hotel di lusso, nella periferia sud-est di Roma, una quarantina di ragazzi e ragazze tirati a lucido, con la barba fatta, il vestito e la cravatta siedono in silenzio. Tra loro, io. Alcuni si muovono sicuri nei completi eleganti, camminano come se nulla fosse, bevono il caffé senza bisogno di sistemarsi di continuo la giacca, muovono le mani sullo smartphone senza domandarsi perché la camicia faccia capolino solo da una delle due maniche. Altri sono impacciati, si toccano insistentemente la cravatta temendo che il nodo si sciolga, cercano delle tasche in cui infilare le mani senza trovarle, provano a controllare la continua fuoriuscita della camicia dalla giacca senza alcun successo. Evidentemente, non sono abituati a conciarsi così. Tra loro, sempre io. C’è anche un ragazzo che deve aver letto male le istruzioni per l’uso: si è presentato in jeans e camicia a quadrettoni, rossi e blu. È imbarazzato, ma resta. Sembra simpatico.
In sala nessuno fiata. Quasi che tailleur e vestiti abbiano trasmesso per metonimìa un certo dovere di contegno, di formalità. «Dicono che l’abito non fa il monaco, ma non è vero» – argomenta il Totò ladro vestito da carabiniere, nei Due marescialli – «Io a furia di indossare indegnamente questa divisa, marescia’… mi sento un po’ carabiniere».
Ci chiamano e andiamo tutti insieme nel seminterrato dell’albergo, in una sala conferenze. Eliminata la prima decina di candidati con un test di inglese da seconda media, la selezione entra nel vivo. O meglio, nel video. Proiettano una presentazione del lavoro, divisa per sezioni: informazioni tecniche sulle diverse mansioni; procedure di inizio; questioni retributive e contrattuali; possibilità di carriera; criteri di premialità; caratteristiche dell’azienda che offre il lavoro e dell’agenzia di recruitment che assume (due cose diverse: una è Ryan; l’altra una fusione tra Crewlink e Workforce International… sì, si chiama proprio così!). In questa seconda fase, si rivolgono a noi come fossimo già assunti. L’uomo sulla cinquantina, inglese o irlandese, responsabile del reclutamento allude più volte a quanto staremmo bene con indosso le nuove divise da hostess e steward.
Dalle immagini del video e dagli interventi del selezionatore si capisce che ci sono soprattutto tre caratteristiche importanti per fare questo lavoro: essere disponibili alla relocation immediata; parlare inglese; essere flessibili-e-sorridenti (insieme). Le immagini mostrano giovani di tutti i colori, che sembrano felici e raccontano la loro esperienza con Ryan di fronte a un bastone per i selfie. In particolare, insistono su quanto sia utile e divertente il corso di formazione per diventare personale di bordo. Si nuota, si spengono incendi, si salvano bambolotti, si incontrano persone. «You grow up like a man, not just cabin crew».
Ma è più avanti che le orecchie dei candidati si aguzzano: quando si inizia a entrare nel dettaglio del salario e dei tempi di lavoro. La retribuzione è organizzata secondo una serie di premi e possibili punizioni, un incrocio tra un videogioco e una raccolta punti del supermercato. «Your performance is continually monitored and assessed». Monitorare e valutare. Punire solo come ultima ratio. Soprattutto premiare: per far rispettare le regole, per aumentare la produttività, per migliorare le prestazioni. I likes dei clienti danno diritto a delle ricompense: monetarie, ma soprattutto relazionali. Ad esempio, la penna nel taschino è indice di un certo numero di apprezzamenti. Costituisce dunque, tra i colleghi e nell’azienda, l’indicatore di uno status particolare.
Si viene pagati un po’ in base all’orario e un po’ a cottimo. Nel senso: un fisso non esiste; sono retribuite solo le ore di volo; si percepisce il 10% su ogni prodotto venduto (…adesso lo capite il perchè di tanto rumore?). Il contratto è registrato in Irlanda o UK. Si hanno delle agevolazioni sui viaggi in aereo.
Il salario mensile dovrebbe oscillare tra 900 e 1.400 euro lordi, in base al luogo di ricollocamento. «We try to keep the wages homogeneous among our workers». Bella l’uguaglianza, quando non schiaccia tutti verso il basso… penso io. Viene poi fatto cenno a un periodo annuale in cui non si lavora e non si ricevono soldi: da uno a tre mesi. Ma il selezionatore ci assicura che questa pausa non supera (quasi) mai i 30 giorni.
Fino a qui, niente di eccezionale. Il rapporto premi-punizioni, però, è più complesso e configura per intero il sistema di retribuzione. Ovviamente, se i diritti diventano premi e i doveri debiti, tutto cambia. Non si parla di tredicesima e/o quattordicesima, ma di bonus, che si ricevono solo il primo anno. 300 euro il primo mese di lavoro, altrettanti il secondo, il doppio il sesto. Chi va via prima della conclusione dei primi 12 mesi, però, deve restituirli tutti. Inoltre, la divisa (quella bella di cui sopra) costituisce un costo esternalizzato al lavoratore: il primo anno sono 30 euro al mese scalati direttamente dalla busta paga; successivamente pare si ricevano dei soldi, ma non si capisce bene per cosa, se per lavarla o non perderla. Per ultimo, il famoso corso di formazione per diventare hostess o steward si rivela qualcosa di più di un parco giochi in cui fare festini con altri esponenti multikulti della generazione Erasmus.
Principalmente, si rivela un’enorme spesa. Se all’inizio era stato comunicato che, in via eccezionale, le registration fees del corso erano dimezzate a 250 euro, è alla fine che viene fuori il vero prezzo da pagare. Ci sono due modalità differenti: 2.649 euro se paghi prima dell’inizio e tutto in un colpo; 3.249 se decidi di farti scalare il costo dallo stipendio del primo anno (299 euro dal secondo al decimo mese, 250 gli ultimi due).
Si aprono le domande. Dopo alcune irrilevanti su sciocchezze burocratiche, alzo la mano. «Ci avete parlato di un massimo di ore di volo a settimana, ma mai delle ore totali di lavoro. Quante sono?», chiedo. «Voi siete pagati in base alle block hours, cioé le ore calcolate dalla chiusura delle porte prima del decollo, all’apertura dopo l’atterraggio. I tempi di preparazione dell’aereo, prima e dopo il volo, possono variare». Varieranno pure, ma di sicuro non vengono pagati, nonostante siano tempi di lavoro.
Alza la mano quello dietro di me. «Scusi la domanda, ma ho bisogno di fare dei conti. Diciamo che uno stipendio per una destinazione non troppo cara è di 1.000 euro. Ve ne devo restituire 330 al mese tra corso e divisa. Ne rimangono 670. Dovrò prendere una stanza in affitto, diciamo almeno 300 euro. Ne rimangono 370. In più avrò bisogno di pagare un abbonamento ai mezzi per raggiungere l’aeroporto e coprire almeno le spese della casa anche nella pausa annuale in cui non si lavora. Diciamo che, se va bene, rimangono 300 euro. E non ho scalato le tasse, perché non so come si calcolano in Irlanda o UK. Secondo lei, con questi soldi si può vivere?». Sbem.
Il selezionatore della società di recruitment, fino a quel momento cordiale e spiritoso, accusa il colpo. Deglutisce. Tossisce. Arrossisce. Si butta sulla fascia, prova un diversivo. «With this work you don’t get rich, but it’s in accordance with your capacity and affords your lifestyle». Alla fine, anche qui le nostre capacità valgono poco più di un pacchetto di sigarette al giorno. Chissà, invece, come ha calcolato il nostro stile di vita!
Finito il video, io e gli altri candidati usciamo e andiamo a mangiare insieme. Da come siamo vestiti, sembriamo un gruppo di giovani businessmen in carriera, lanciati alla conquista del mercato e pronti a scalare colossi finanziari. Invece siamo lì per un colloquio che, se va bene, ci farà guadagnare meno della persona che ci serve la pizza.
Comunque, i calcoli veloci del ragazzo che ha fatto la domanda dopo di me hanno sciolto l’iniziale freddezza tra i candidati. In molti hanno perso interesse per il lavoro. Anche per questo, si scherza e si chiacchiera. Alcuni hanno appena finito la scuola superiore, altri l’università. Altri ancora hanno già diversi anni di precarietà sulle spalle e i capelli brizzolati. Tra loro…
Rimango fino all’intervista, per sport. Mi capita la collaboratrice del selezionatore. Legge il mio curriculum. Niente di eccezionale, però insomma… neanche da buttare. Tutti i titoli di studio con il massimo dei voti, laurea e due master, cinque lingue, numerose esperienze di lavoro materiale e immateriale, in Italia e all’estero. «Are you sure you want to do this work?», mi chiede. Bleffo: «Eeeeeh. Why not?». «Do you know people working for us?». «No». «So, what do you know about this work?». «What you told me today», rispondo. Lei arriccia il labbro inferiore e muove la testa dal basso verso l’alto e poi in senso inverso, fissandomi con gli occhi corrucciati. Ho l’impressione che stia pensando sardonicamente “devi essere proprio una volpe, tu!”.
Saluto, me ne vado. Sulla vespa faccio i conti: due caffé al bar dell’albergo = 3 euro; un pezzo di pizza e una bottiglia d’acqua = 4 e 50; benzina per giri vari alla ricerca di vestito, cravatta e scarpe e poi fino al colloquio = almeno 5 euro; stirare la camicia = 2 euro; stampare 7 fogli di curriculum dal cristiano-copto su via di Torpignattara, che sembra sapere quando non puoi dirgli di no = 2,10 euro. Barba e capelli costo zero, taglio autoprodotto in casa. Alla fine, non mi è andata nemmeno tanto male. Qualcuno è arrivato in treno da lontano, spendendo molto di più. Per l’ennesima offerta di lavoro precario e sottopagato.
Almeno una cosa l’ho capita: nella compagnia aerea, quel low che precede il cost non è riferito soltanto ai prezzi dei biglietti, ma anche al costo del lavoro.
Quinto racconto
“Food manager”? Servi polpette e sorridi
di Fabiana Fraulini
Finita l’università, consapevoli che la vostra laurea in Filosofia non vi darà grandi prospettive lavorative, con umiltà e poche speranze iniziate a inviare il vostro curriculum a qualsiasi azienda, agenzia per il lavoro e istituzione che vi viene in mente.
Un giorno, ricevete una telefonata da una grande multinazionale scandinava che vende mobili. Vi chiedono se vi interessa un tirocinio come “Food manager”, presso una delle loro sedi. Fingete di essere ben consapevoli di cosa significhi “Food manager” e rispondete che sì, vi interessa molto. Ottimo, perché proprio due giorni dopo sono in programma dei colloqui di gruppo per ricoprire quella posizione. Dovete presentarvi nella sede di Bologna, portando con voi il curriculum e una fototessera. Ah, e dovete anche preparare una vostra presentazione. Però attenzione: dovete riuscire a descrivervi tramite un mobile, o un oggetto di arredamento, per esempio un comodino o una scarpiera. Non preoccupatevi, se l’oggetto in questione è troppo ingombrante per essere portato con voi, basta una fotografia. Da qualche tempo siete alla ricerca di un lavoro, e pensavate di averle sentite tutte, ma questa richiesta vi spiazza. Fate finta di nulla e trascorrete un allegro pomeriggio scervellandovi su come diavolo presentarvi, alla multinazionale (diamine, siete laureati in Filosofia, un minimo di fantasia ed elasticità mentale dovreste averla!).
Due giorni dopo vi presentate alla multinazionale. I colloqui di gruppi – ne avete già fatti diversi – presuppongono la presenza di almeno una decina di candidati. Mentre aspettate che arrivino tutti, scambiate qualche parola con i vostri compagni di sventura. Scoprite che siete tutti neolaureati, nelle più disparate discipline, e vi rendete conto che non solo i neolaureati in materie umanistiche sono in difficoltà nel mondo del lavoro: vi sono anche economisti depressi, ingegneri disperati, biotecnologi sull’orlo dell’esaurimento nervoso, giuristi frustrati, per non parlare di matematici nerd. Vi consolate un po’ (quante volte vi siete sentiti dire che, con la vostra laurea, non avreste mai trovato lavoro!) e trascorrete una simpatica mezz’oretta scambiandovi a vicenda terrificanti racconti dell’orrore sui colloqui di lavoro.
Giunti finalmente tutti, si presenta anche il responsabile delle risorse umane, che vi farà il colloquio. È abbastanza giovane e, con la divisa d’ordinanza del negozio, gialla e blu, cerca di mantenere un contegno, mentre vi spiega che il posto che sareste tenuti a occupare è un tirocinio di sei mesi (ovviamente, sottopagato) per “food manager”, e che le vostre mansioni consisterebbero – rullo di tamburi – nel preparare le porzioni di polpette da servire nella mensa dell’azienda. Riuscite a rimanere tutti serissimi, anche quando il responsabile vi illustra la storia e i valori (la mission!) della multinazionale, che si vanta di promuovere alti valori etici, nonché i diritti dei lavoratori. Dopo ciò, compilate un test attitudinale, oltre ad una breve prova d’inglese. A questo punto, entrano altri due responsabili – anche loro vestiti con l’immancabile divisa gialla e blu –, che vi raccontano la loro storia, vi prospettano grandi possibilità di carriera e crescita personale all’interno dell’azienda, e vi chiedono di presentarvi tramite un mobile o un oggetto d’arredamento. Ascoltando le relazioni dei vostri concorrenti, che tentano pateticamente di promuovere le loro qualità paragonandosi a un tavolo o a una credenza (ma la cosa che va per la maggiore, notate, sono gli armadi….) vi rendete conto di cosa possa fare la disperazione. Vi prestate anche voi a questo simpatico test, illustrando un bel portapenne persiano che vi era stato regalato da una compagna di studi iraniana, e sentendovi incredibilmente cretini.
È finalmente venuto il momento culminante del colloquio: la prova di gruppo. Vi vengono portati dei grafici incomprensibili e delle tabelle indecifrabili e vi si chiede, tutti insieme e collaborando tra di voi, di compilare il menu del ristorante della multinazionale di una settimana. Vi vengono spiegati i criteri (devono sempre esserci un certo numero di primi, di secondi, dovete stare attenti ai prezzi e ai valori nutritivi). Tutti insieme, mentre gli esaminatori fingono di osservarvi – in realtà, si stanno maledettamente annoiando pure loro, e si vede – passate una divertente mezz’oretta discutendo animatamente se il lunedì sia meglio inserire nel menu una torta al cioccolata o una crostata ai mirtilli (rischiando la lite quando bisogna stabilire se, la domenica, siano meglio gli spaghetti al pomodoro o le polpettine svedesi). Passata la mezz’ora, dovete anche render conto agli esaminatori del motivo per cui, in dieci persone, siete riusciti a compilare neppure metà del menu. Infine, vi fanno fare un breve giro nel settore “food” del negozio, elogiandone nuovamente i valori etici, mentre un altoparlante comunica a tutti i dipendenti che il negozio sta per aprire, che è martedì, e che il fatturato che ci si aspetta di ricavare quel giorno deve essere di tot migliaia di euro, mentre il fatturato del giorno precedete è stato inferiore alle aspettative del 3 per cento. Per chiudere in bellezza, vi viene chiesto cosa ne pensate della multinazionale, se ci andate regolarmente a fare acquisti, e quali modifiche apportereste al negozio, per migliorarlo.
Quando finite, spossati, tornate a casa, dove vi aspettano i vostri parenti pronti a ricordarvi che è non vi state dando abbastanza da fare nella ricerca del lavoro, che avreste fatto meglio a studiare ingegneria, che dovete decidervi ad abbassare le vostre aspettative e a rimboccarvi le maniche. Mentre ascoltate la ramanzina, pregate mentalmente di non avere la necessità, per un po’, di comprare mobili. Soprattutto scandinavi.
Articolo tratto dal Granello di Sabbia n. 29 di Maggio – Giugno 2017: “Non è un Paese per giovani”